Ancora uno? In attesa delle FIABE D’AMOR CRUDELE di F.Diano

andrew wyeth

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andrew wyeth-City in the Dawn

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Vento dell’Ovest

 

                                                                                            

Le folate di vento trascinavano  manciate di foglie dai colori accesi. Gialli assolati, morbidi bruni, rossi arroventati, violetti intossicati dall’autunno.

Camminava veloce, stringendosi attorno al collo il bavero rialzato della giacca color verde bruciato. Il vento gli scompigliava i capelli lunghi e ricci. Già scompigliati. Capelli scuri, con qualche bagliore d’argento.

Il volto contratto in una smorfia, nel tentativo di offrire la minor superficie possibile alle sciabolate gelide. Le mani infilate nelle tasche della giacca.

S’affrettava. Era atteso.

Attraversò il viale deserto, che si piegava in una curva in salita, dietro cui si udiva il muggire sonoro del mare. Invisibile.

Si arrestò di fronte alla cancellata di ferro, che lasciava intravedere un giardino folto di alberi. Quasi tutti ormai spogli. Qualche foglia superstite tremava, ancora attaccata al suo ramo, pronta a lasciarsi trascinare via, senza opporre resistenza.

Spinse un battente del cancello. Non dovette suonare il campanello. Era atteso.

Non gli era molto familiare quella parte della città.

Ci passava di rado.

Era una zona di vecchie ville con giardini ben tenuti, che si allineavano costeggiando il viale come delle rive. Il rigoglioso paesaggio mediterraneo della zona bassa della città pareva quasi camuffarsi sulla collina. Aveva la tranquilla eleganza di un quartiere residenziale di una  città  nordeuropea.

In genere ci si andava con una meta. Non per girovagare.

A lui piaceva girovagare. La sua era una natura girovaga.

Era atteso.

Ma non l’aveva mai vista. Era stato un caso strano. Un errore telefonico. Un numero sbagliato.

Aveva composto il numero del suo avvocato, l’amico, il compagno di liceo e aveva risposto lei.

All’inizio aveva creduto che fosse la nuova segretaria. Conosceva la voce dell’altra. Ma non riconosceva questa voce. Poi aveva capito di aver sbagliato numero. L’aveva composto troppo rapidamente, tanto gli era familiare.  Questione di un 6 finale, invece di un 7.

Ma quella voce possedeva una qualità, nella sua vibrazione, che lo aveva fatto deglutire, quando aveva sentito quel “Sì?…” invece dell’usuale “Pronto”. Come se in quel monosillabo, pronunciato quasi in un soffio, vi fosse un senso di attesa non passiva. Una dilatazione.

Compreso l’errore si era scusato, ma non avrebbe voluto chiudere la conversazione. La voce sconosciuta, che gli aveva spiegato l’equivoco, gli si era insinuata lungo il midollo osseo, penetrando dall’orecchio, come se tutto il suo midollo, le terminazioni nervose, fossero diventate un unico enorme organo dell’udito. Aveva avvertito un brivido.

Un po’ penosamente aveva cercato di trascinare la conversazione, ma la voce femminile, dall’altra parte del filo, si era richiusa, contratta. Aveva salutato educatamente, ma in tono un po’ secco, come se avesse il sospetto che non si trattasse veramente di un errore involontario.

Era rimasto poi con la mano sul ricevitore chiuso, come se volesse assorbire ancora per un poco l’eco di quella voce svanita nel clic della conversazione interrotta.

Attraverso il servizio di informazione dell’elenco abbonati, aveva cercato di risalire al nome e all’indirizzo. Ma il numero non risultava in elenco.

Ogni tanto aveva avuto l’impulso di ricomporlo nuovamente e l’aveva seguito. Per verificare se la sensazione provata la prima volta sarebbe stata la stessa. Ma il telefono aveva sempre squillato in una casa vuota.

Per qualche mese non ci aveva più pensato. Il lavoro in studio lo aveva assorbito al punto da dimenticarsi persino di mangiare. Lavorava da mesi al progetto per la fontana di Auckland e il tempo stava ormai stringendo.

Tecnicamente la sua qualifica era quella di ingegnere idraulico. Come  Leonardo… diceva ridendo. Poi, poco più che quarantenne, si era laureato in architettura.

 Ma a lui piaceva dire “scultore dell’acqua”. In genere la gente non capiva.

Gli piaceva vedere sul volto delle persone un’espressione meravigliata. Allora spiegava che dava all’acqua, che non ha una forma, la sua forma. E il suo suono….

<<L’acqua, non avendo forma, ha tutte le forme. Le contiene tutte. E nel suono dell’acqua è racchiuso ogni suono>>, diceva.

Progettava e realizzava fontane.  Fontane fatte solo di acqua, senza aggiunta di altri materiali a vista. Rare volte piani inclinati di cristallo, per non annullare la trasparenza delle spirali, delle minuscole risacche, delle vorticosità, delle increspature o delle lisce cascate,create dalla forza dell’acqua.

Più spesso la forma era data dalla posizione dei getti, di diversa potenza e inclinazione, a volte miscelati ad aria. E queste architetture d’acqua, mai statiche, ma sempre mutanti, avevano il loro suono. Ciascuna il suo.

Il suono del vento da loro stesse creato.

Il progetto a cui stava lavorando era sgorgato all’improvviso nell’osservare  un violento vortice di vento di tramontana, che percorreva le chiome di un bosco di querce.

Poi, un giorno, qualcuno, chiamandolo, aveva sbagliato numero. E l’eco di quel “Sì?…” gli si era ridestato dentro.

Aveva riprovato.

<<Sì?…>> La stessa voce. Lo stesso soffio caldo d’attesa.

Aveva spiegato. Aveva raccontato. Lei aveva capito. E questa volta ascoltato.

La voce ha un peso. E un odore. E un sapore. La voce ha un suo corpo, fatto d’aria, di vibrazioni, di onde. La voce è come l’acqua. Non ha forma, perché contiene tutte le forme e dunque può assumere la forma di ogni pensiero, di ogni emozione.

La prima conversazione fu quasi esitante. Entrambi cavalieri con la lancia in resta, pronti al torneo. Poi lei rise dell’ansia di lui. Lui rise della sua risata.

Rideva con la gola. Una risatella a cascata. Cascatelle, zampilli, piccole ondate di risata, che gli si insinuarono dentro, percorrendolo come dita leggere. Aprendo spazi chiusi. Sciogliendo nodi.

Divenne un gioco. Il loro gioco segreto.

Lui le telefonava sempre alla stessa ora. Quella della prima volta. Di sera.

Si raccontarono. Lui le raccontò della forma dell’acqua. Che contiene infinite forme. Lei ascoltava e poi gli raccontava dell’anima delle piante, delle città vegetali, delle società dei fiori. Finché una sera le parole divennero lampi. E i silenzi respiri. I respiri si dilatarono. Le loro voci si inabissarono l’una nell’altra, intrecciandosi come serpenti liquidi, come dita in amore, come uragani appesi l’uno all’altro, a risvegliare il monsone, percuotendo le membra e facendo tremare i sensi. Stordendoli.

Le loro voci si drizzavano e s’attorcevano attorno ai loro corpi. Si dilatavano, s’assottigliavano come una bava d’oro trafilata da un baco sapiente, penetrando e aprendo e carezzando.

Creavano mondi mai creati, coloravano loro la bocca di desideri, espressi senza vergogna ne’ pudore. Resi trasparenti dall’innocenza.

Lei tingeva la sua voce d’ombra, la sua voce s’arrochiva, poi si sopiva in sussurri e bisbigli. Si interrompeva nel respiro affannoso, a tratti, per poi dilatarsi ancora in un grido soffocato.

I loro respiri si rincorrevano come scarabei iridati, ebbri di luce, accecati dal sole. Ubriachi entrambi della voce dell’altro, che penetrando attraverso i pori, li annebbiava e li avvolgeva come un’ondata di vento del deserto. Dissolto, alla fine, in un silenzio pieno di echi.

Erano presi da quel gioco, che rivelava loro parti sconosciute di se stessi.

<<Io…mai avrei creduto…>> diceva lei in un soffio, quando alla fine, spossata come il suo corpo avesse davvero fatto l’amore con il corpo di lui, ritornava alla coscienza. <<Mai… che io potessi…così, con uno sconosciuto…>>

<<Voglio vederti. Devo>>,  le disse una sera.

Avrebbe potuto distruggere quel gioco magico. L’avrebbe potuto fare in pezzi.

Quale odore aveva la carne di lui? Quali aromi lasciava trasudare la pelle di lei? E i suoi capelli?

<<Domani>>, lei disse una sera, cedendo. <<Domani.>>

Era atteso dunque.

Entrò percorrendo il vialetto, facendo scricchiolare la ghiaia fredda sotto le scarpe. Le folate di vento, vento dell’ovest, sferzavano i cespugli e gli alberi.

Bussò alla porta. Tremava. Lei aprì.

Un istante. Un solo istante. E gli gettò le braccia al collo, lo avvolse, lo accolse.

Questo bastò. Poi risero. Si riconobbero. Ciascuno vide riflesso il proprio volto sconosciuto nel volto dell’altro.

Allora la prese, con violenza, col desiderio silenzioso della carne. Le mani ovunque. La travolse col suo corpo, la spinse contro il muro, slacciando la camicia di seta con diciassette bottoncini, abbassando le spalline del reggiseno, immergendo il viso nella valle tra i seni.

Muti, ora muti, respirando con avidità l’odore dell’altro.

Lei si sentiva incapace di opporre qualunque resistenza a quel corpo che odorava di vento e di legna bruciata e di alghe. Affondò il viso nella piega del suo collo ancora freddo dall’aria esterna, nutrendosi di quell’odore.

 Come un selvaggio, contro il muro, la premeva, la lingua affondata nella sua bocca, le mani sui seni, alla vita, sotto la gonna.  La trascinava per la casa, appoggiandosi ai mobili, alle pareti, come un folle. Lei era inerme, si lasciava trascinare come una foglia, senza opporre resistenza a quella violenza. Col desiderio muto che lui lo facesse.

La prese, contro il muro, per un attimo. Lei gridò. Un grido di esultanza, perché finalmente la sua carne era presa. Così, come in un mondo primordiale, fatto solo di istinti. E suoni soffocati, precedenti ancora alla coscienza.

Lo trascinò verso il letto. Voleva darsi, aprirsi, dilatarsi, diluirsi, mischiarsi alla pelle, alla carne, agli odori, ai sapori di lui.

Non c’erano delimitazioni, ne’ confini. Un’unica cosa. Un unico essere. Una marea di istinti, di voglie, di desideri simili. Non più convenzioni. Solo istinti rabbiosi, primitivi, selvaggi. Solo volontà di annullarsi nell’altro. Nessuna forma più avevano i loro corpi. Persi e dilatati, svaporarono fino a diventare materia soffice, vortice.

 Onda. Un’unica onda sonora.

Si divoravano, si consumavano, emettendo suoni quasi inarticolati.

Troppe parole s’erano detti. Ora c’era  il loro corpo, il respirarsi, l’annusarsi, l’assaggiarsi. I loro corpi erano familiari, come si conoscessero da un tempo indefinito. Un dialogo,  un discorso intrecciato. Come un fiume con il suo affluente. Quale acqua era di chi?

 Poi, annullati del tutto i corpi, divennero un’unica colata di metallo incandescente, una cascata, si sciolsero l’uno nell’altra. Lasciando  affiorare l’anima in un grido unito.

E poi la pace. La pace che viene dall’unità dell’essere. Una pace senza fratture.

<<Ho terminato i lavori. È finita>>, le disse al telefono da Auckland alcuni mesi dopo. <<E’ bellissima, immensa. La luce si riflette nei getti d’acqua.>>

S’erano sentiti spesso. Quotidianamente. Ma ora, al telefono, le loro voci non s’erano più avvinghiate l’una all’altra a perforare il ventre.

Solo sussurri velati di dolcezza. Il ricordo delle sensazioni tattili, olfattive troppo forte per essere diluito in parole.

<<E’ come l’avevi immaginata?>> gli chiese.

<<Non proprio come nel progetto iniziale. C’è una variazione. La parte centrale ha diciassette getti d’acqua, che si aprono come un fiore verso l’esterno. E…sai? Questa fontana ride.>>

<<Ride?>>

<<Sì. Della tua risata. A cascatella. Ma questa è una grande cascata.>> Fece una lunga pausa sospesa.

 <<Ti ricordi come ti ho presa quando sono arrivato?>> La sua voce appena un respiro.

<<Sì..>> lei rispose in un soffio. <<Sì…>>

<<Ho il tuo sapore ancora in bocca…>>, le disse d’improvviso.

<<…e io il tuo odore addosso. L’ho sulla pelle. È diventato il mio odore. È come se non riuscissi a cancellarlo. Anzi… non voglio.>>

<<E’ come se tu mi avessi modellato. Come se io stesso non avessi una forma prima di conoscerti. Non la vedevo. Ma avevo bisogno di vedere te tramutata in acqua. La mia fontana… sei tu.>>

<<Lo so>>, gli rispose. <<Se unisci acqua e vento, questo è ciò che ottieni.>>

Era opportuno che glielo chiedesse?  Forse non in modo  diretto… non così diretto. <<Lo sai? Ora il vento è tornato a soffiare da ovest …>>

<<Davvero?  Il  vento dell’ovest? Lo Spirito Selvaggio di Shelley?>>

<<Sì…>>

<<Presto. Ci sarò presto.>>

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Il presto s’era diluito in stagioni di silenzio. Ma sarebbe tornato. Presto – aveva detto. Presto avrebbe aperto il cancello.

Le serate erano tornate ad essere fredde. Oltre i vetri sentì il vortice della prima aria fredda d’autunno.  Accese la TV. <<Domenico Gorli, un noto ingegnere italiano, che ama definirsi architetto dell’acqua, ha ricevuto un’onorificenza da parte del Governo neozelandese per la magnifica fontana da lui progettata per la città di Auckland. Il genio italiano ancora una volta non si smentisce. Ingegnere>>, stava dicendo l’inviato del TG, porgendo il microfono all’uomo: <<la sua fontana è davvero incredibile. Come è nata quest’idea?>>

<<All’inizio mi sono ispirato a un violento vortice di vento, poi in corso di progetto, l’idea si è modificata, si è addolcita in qualche modo, soprattutto grazie alla vicinanza di quella che è ora la  mia compagna di vita, una  cantante neozelandese; è per amore suo che mi sono deciso a lavorare in Nuova Zelanda. Ho tentato di riprodurre il suono della sua voce meravigliosa. Senza la sua vicinanza questo risultato non sarebbe mai stato possibile. >>

<<Grazie ingegnere>>, concluse l’inviato, <<lei tiene alto il nome dell’Italia. So che vi sposerete fra qualche mese.>>

<<Sì.>>

 Spense.

 .

Francesca Diano- Da FIABE D’AMOR CRUDELE- prossima pubblicazione per Edizioni La Gru

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Già presente in Cartesensibili:

https://cartesensibili.wordpress.com/2013/05/30/fiabe-damor-crudele-francesca-diano/

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