anne sophie lorange -da terra
Venivamo spesso a passeggiare qui alla marina; lui era più giovane ed anch’io
Ricordo che ad un certo punto mi staccavo dalla sua mano e correvo fino alla rotonda che si affacciava sul mare. Mi piaceva schizzare tutt’intorno l’acqua che scendeva perennemente dalla fontanella pubblica relegata in un angolo della spianata e correvo verso il muretto che la cintava restando a guardare. Avrei potuto sostare immobile per ore, catturato dalla distesa liquida e cheta d’acqua di mare che prendeva tutto l’orizzonte verso sud. Immaginavo le vite degli altri in mondi lontani sentendo che un giorno avrei potuto raggiungerle quasi tutte o avrebbero navigato fino a me attraverso quell’acqua, sbarcando proprio nel punto in cui le scrutavo da lontano. Inspirando, sentivo l’aria fredda e umida di salsedine calarmi nel petto e pensavo a lui che sarebbe arrivato da un momento all’altro dietro le spalle e mi avrebbe messo una mano sugli occhi per farmi indovinare chi era. Gli facevo sempre credere di cascarci, ma in realtà mi piaceva giocare a quel modo e mi piaceva farlo contento. Riempivamo la borraccia con l’acqua della fontana che sapeva di terra e di cloro e che più tardi ci sarebbe stata preziosa. Bisognava percorrere un piccolo tratto nel mare e togliendoci i sandali scendevamo a piedi nudi giù per la scogliera. L’acqua, in alcuni punti, arrivava fino alle tibie e lui mi prendeva in braccio camminando fino a raggiungere una striscia di sabbia morbida. Quando mi metteva giù mi piaceva camminare all’indietro per un po’divertendomi a contare le piante dei nostri piedi accostate, che lasciavano impronte grandi e umide, dalla sua parte e piccole e asciutte, dalla mia. Eravamo soli e pochi altri, che come noi conoscevano quel passaggio segreto, avrebbero bivaccato sulla lunga e stretta striscia di terra, qualche ora dopo, lasciando entrare nei polmoni lo iodio necessario a superare l’inverno. Qui va bene. Sentenziava dopo aver perlustrato i dintorni. Stendevamo i nostri asciugamani e ci sedevamo, uno accanto all’altro, di fronte al mare a scrutare la vastità dello spazio ancora addormentato. Lo sguardo quanto l’animo si smarrivano nella sensazione di percepire qualcosa d’invisibile celato in tutte le direzioni di quella moltitudine manifesta. Al mattino il tempo è tutto davanti, il cuore trabocca d’ogni speranza e tutto sembra possibile. E’ a quest’ora che si fanno i pensieri più lieti e i progetti prendono forma nella loro interezza per appartenere puri alle nostre mani e alla nostra mente, quasi già realizzati. Tutto ascolta, tutto prega; tutto aspira e non fa paura. Mi parlava così, mentre le colonie di gabbiani da scogliera stazionavano quasi inermi vicino ai piedi, incuranti della nostra presenza. Mi sembrava incredibile la grossa dimensione di quegli uccelli osservati da vicino. Ascoltavo il loro garrire stridulo, insieme allo sciacquare delle onde come fosse la colonna sonora di quel paesaggio, di quel film di cui sentivo di far parte.
Ispiravano pace e sonno, forse per questo, che iniziavamo a stiracchiarci, contagiandoci l’un l’altro di sbadigli e lui a poco a poco cedeva all’idea di un sonnellino. Accoppiava i suoi sandali come per preparare una sorta di guanciale e lo poneva sotto il capo, sdraiandosi quieto. Io mi stendevo accanto a lui e lo curavo. Attendevo che il suo respiro si facesse più pesante; gli sollevavo il braccio che aveva adagiato lungo la coscia e lo lasciavo cadere accertandomi che si accasciasse giù morto: era segno che lui dormiva davvero. In realtà penso mi spiasse, di sottecchi, ogni volta, da dietro le palpebre instabilmente tremolanti, e abbandonasse il braccio a quel modo volontariamente per regalarmi quella sensazione di potenza con la quale tutti i bambini amano misurarsi per sentirsi grandi. Ne avevo sentore osservando che le sue labbra avevano un sorriso improprio per una persona addormentata, ma facevo finta di niente, per godermi la fiducia che riponeva in me. Mi alzavo silenzioso per non farmi scoprire e, in punta di piedi, mi allontanavo nella direzione opposta alla sua schiena quel tanto che bastava a farmi assaporare la libertà conquistata. Me n’andavo dove le onde finiscono di essere onde, quasi la terra le tracanni in un sorso, inghiottendole nelle proprie viscere, mentre giungono a riva. L’acqua era fredda. Era un attimo sfuggirmi tra le dita delle mani che, in alcun modo, potevano trattenerla. Mi sfidava ad inseguirla, ed io osavo addentrarmi poco più in là, sentendo risalire la temperatura mattutina di quel liquido cristallino dai piedi irrigiditi fino alle caviglie in un brivido gelido che giungeva dritto al cuore. Tornavo all’asciutto e gli occhi andavano veloci tra i milioni di sassi, a cercare le pietre più piatte da lanciare in superficie scimmiottando quel gioco che papà faceva spesso. Anche a me divertiva farle saltare a pelo d’acqua immedesimandomi con i pesci. Entravano di taglio, tornando a galla sulla cresta poco più avanti per poi rituffarsi e ricominciare daccapo per alcune volte; si perdevano, infine, nel blu dell’abisso, per effetto del vuoto d’onda, affondando per sempre nella vertigine vasta del largo. Un tiro preciso richiedeva un grande impegno, ma otteneva un buon risultato, ed io avevo un ottimo lancio, a quel tempo dei miei giovani anni: espressione di tutta la voglia di vivere e di padroneggiare il mondo che già sentivo dentro. Le battute dai tonfi sordi riecheggiavano a lungo nel silenzio dell’aurora e s’interrompevano, solo, quando la mia attenzione veniva catturata dall’improvviso apparire di una palla di fuoco.
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anne sophie lorange-il mare
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Il sole nasceva dal mare. Netto, si profilava sulla linea di confine tra acqua e cielo. Quei colori, quella luce durano pochi minuti all’alba, il tempo di stupirsi, neppure quello di accorgersi e…quella folgore rosata cresceva davanti a me fino a cambiare la sensazione della mia pelle. Cominciavo a percepire un grado di calore differente in quel miracolo di cui non avevo consapevolezza, pur ripetendosi ogni giorno della mia vita. Era il momento in cui le barchette colorate dei pescatori facevano ritorno e le loro sagome si vedevano alla fonda, così piccole da sembrare puntini appena abbozzati di un disegno di prospettive. Le barche avanzavano a motori spenti, silenziose come per rispetto di quella quiete fonte della loro speranza, timonando lente nel sospingersi a remi.Rientravano dalla battuta di pesca doppiando il sole che sorgeva per far luce al loro ritorno.
S’ingrandivano ad ogni metro della loro avanzata, materializzandosi in prima fila in una manciata di minuti; avvistandole nel controluce che rimandava la loro immagine come incisa nel cielo, correvo a svegliare papà prima che toccassero terra. Insieme guardavamo i marinai liberare l’ultimo pescato dalle reti, smistarlo nelle cassette già colme di pesci di ogni sorta ancora guizzanti e scaricarle a terra. Attendevamo pazienti che ormeggiassero le barche, assicurandole alle cime da traino dei verricelli, dirigendole a braccia verso una pista fatta di travi di legno paralleli che avrebbero evitato alle imbarcazioni d’incagliarsi nella sabbia. Le conducevano fino al muraglione a ridosso della strada dove sarebbero rimaste custodite fino alla partenza successiva. Una pacca sulla spalla finiva in un abbraccio tra amici: vecchi lupi di mare si ritrovavano. Si mettevano a chiacchierare dei tempi andati e della dura nottata che aveva provato quegli uomini dalla pelle rugosa e scura e a me raccontavano della provenienza dei venti e delle sirene incontrate che avrebbero intralciato la rotta di ritorno con favole belle. Poi si caricavano sulle spalle il loro bottino e mio padre cominciava la trattativa per accaparrarsi il pesce migliore, quello con l’occhio più vispo, come diceva lui e per l’antica amicizia spuntava sempre un prezzo particolare riuscendo a comprare un’intera cassetta di alici. Qualche volta, ci regalavano una piccola resta di mitili che, non avremmo potuto permetterci, giacché molto costosi. Gli uomini della notte avevano l’aria pacata della stanchezza di chi, conoscendo il pericolo, ha imparato ad apprezzare la vita, a prenderla lenta. Presto si sarebbero dileguati verso il mercato e il loro meritato riposo, mentre noi due saremmo rimasti nella baia fino a tarda mattinata a pulire le acciughe che avevano strappato al mare per noi. Le avremmo conservate sotto sale per poi rivenderle al negozio e, in parte, portate a casa a cucinare. Egli mi mostrava come staccare la testa dal pesce in modo che portasse dietro con sé, in un colpo solo, anche la lisca e le viscere. Mi spiegava, poi, come risciacquare i pesciolini, così ripuliti, con acqua salata, direttamente nel mare, facendo attenzione che non ne scivolasse via, neppure uno, dalla mia presa. Mi accingevo ad eseguire il compito affidatomi presso la battigia scoprendo che, col crescere del giorno l’acqua si era fatta via via, tiepida e invitante. Era un richiamo irresistibile: quello di un compagno che mi chiamava perché andassi a giocare con lui. Guardavo nella direzione di mio padre, cercando consenso affinché mi lasciasse andare, e lui, che non sapeva mai dire di no, subito mi faceva segno con la mano acconsentendo che mi allontanassi. Rapido, mi buttavo sott’acqua riemergendo a godere l’emozione del primo momento e sguazzavo nei pressi della riva sotto i suoi occhi vigili che, pur intenti al loro mestiere, non mi escludevano mai dal loro raggio. Qualche bracciata fino a dove non sentivo più di poter sfiorare le pietre con le punte dei piedi, e facevo ritorno, rimando a lungo dove le onde risaccano. Da qui ammiravo la bellezza delle rocche di contorno all’insenatura protendersi dolcemente verso l’acqua venendomi incontro e regalarmi la sensazione di un abbraccio accogliente. Col corpo disteso bocconi e le mani attraccate alla rena mi lasciavo piallare dai flutti, osservando mio padre al lavoro: aveva tirato fuori, l’albanella tozza di vetro e il pacco di sale grosso acquistato all’ostaia del molo.
Lo guardavo comporre, il suo puzzle verticale di strati d’alici e manciate di sale, con gesti d’antica saggezza. Giungendo gli accumuli al livello dell’imboccatura del vaso vi adagiava in cima la tavoletta tonda di legno consunto e sopra questa poneva un grosso sasso, pigiando ben bene, con tutte due le mani, affinché facesse peso sulla marinatura. Riponeva infine ogni cosa nello zaino che metteva all’ombra di una delle barche abbandonate a riposo a pancia in giù. Dopo essersi risciacquato le mani in mare, senza alcuna esitazione, si tuffava a pochi passi da me, raggiungendo gli scogli in qualche bracciata. Come qualcuno avesse sparato in aria un colpo di start per me, partivo subito all’inseguimento raggiungendolo dove l’acqua era alta, ma solo quando era già di ritorno. Non volevo che si avvedesse del mio sforzo e, stanco, mi mettevo sulla schiena, nuotando a dorso vicino vicino. Sentivo che qualcosa sosteneva, pur senza sfiorare, la mia titubanza, affinché non si tramutasse in panico da acqua alta. Una rete invisibile stazionava sotto di me a pochi millimetri, senza interferire con il mio corpo e con il mio desiderio di mostrarmi all’altezza. L’intangibile cintura di sicurezza, si teneva a debita distanza dalle mie reni, discreta, ma pronta a rimbalzare a galla la mia fatica di crescere, senza che io potessi accorgermene, facendomi stare tranquillo. In mezzo a quella limpidezza, si udiva solo il rumore delle nostre bracciate rompere il silenzio irreale di quei momenti, di pura felicità. Gli occhi dentro gli occhi lesti a percepire ogni minimo sussulto; fissi, comunicanti, mentre sfruttavamo la spinta della corrente, e si riguadagnava la riva. Hai fatto progressi; sei stato bravo. Mi diceva, lisciandomi i capelli bagnati, appena giunti all’asciutto. Adesso stenditi e lasciati scaldare dal sole, ti asciugherà. Mi piace venire al mare! Il mare è un grande amico imprevedibile. Godilo, ma non fidarti mai. Non devi mai fidarti di niente e di nessuno; nella vita puoi contare solo sulle tue possibilità.
Ma io… di te mi fido… papi. Il suo umore si faceva cupo. Guardati da me, ragazzo… Mi lasciava sospeso a cercare un significato possibile a quelle parole ambigue cambiando discorso come se non avesse voluto pronunciarle, ma per sorte gli fosse toccato di farlo. …avrai fame; l’aria di mare mette appetito; nuotare consuma tutta la forza che hai dentro, ma rimescola tutte le membra, le ossa, il sangue, persino i pensieri
…nascono le idee, durante una bella nuotata!
Accennava un sorriso, mentre inginocchiato buttava la testa sotto la barca capovolta, forse incapace di sostenere il mio sguardo, forse a cercare di rintracciare le sue cose. Tirava fuori il coltello a serramanico che teneva custodito insieme ad un limone e con la lama, ben affilata, tagliava il frutto a spicchi e iniziando a spartire le valve scure delle cozze che avevamo avuto in dono dai pescatori; spremendovi sopra abbondante succo me le porgeva una alla volta affinché ne mangiassi. Rideva alle mie smorfie, quando assaporavo quel gusto di mare crudo e verace, compiaciuto del mio coraggio, leccando i gusci vuoti che gli ritornavo, unico assaggio che di quella bontà destinava per sé. Puntuale si levava il maestrale.
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anne sophie lorange -testimonianze
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Capivo che era tempo di ritornare, di uscire da quella bolla che dilatava il tempo, rendendolo quasi irreale; concedendo di avvertire l’assurda lestezza con la quale possa scorrere via la vita, quando il ritmo si discosta troppo a lungo da quello naturale. Potevo concedermi solo gli ultimi saltelli fra gli spruzzi raccogliendo cocciole di conchiglie che avrebbero sigillato tra i palmi la memoria delle ore trascorse in quel luogo incantato dove, dopo ogni volo, vedevo ammarare tutti i miei sogni. Rubavo ricordi sfondando le tasche con sassi pesanti d’ogni dimensione. Dei pezzi di vetro colorati e stondati da mille risacche, avrei fatto cimeli da mostrare agli amici e alla maestra, ma… ce ne dovevamo andare… La mia mano nella sua, l’altra sotto il naso, annusando l’incredibile persistere dell’odore del pesce che avevo maneggiato che, come me, non se ne voleva andare. Tenevo gli occhi serrati tanto era accecante la luce; mi dava bruciore il luccichio di quella lama tagliente allo sfilare del sole riflesso sull’acqua, che mirava dritta negli occhi, ma continuavo a voltarmi per lasciar calare quell’immagine dentro di me. Facevamo un’ultima tappa alla fontana e, prima d’infilare i sandali, si lavavano via dalla pelle i residui di sale e di sabbia, sotto il getto corrente. Era come cancellarli, per poter risalire, in ordine, sulla vettura del ritorno che ci ricatapultava nella realtà.
Dall’inizio della bella stagione fino ad ottobre non ci facevamo mancare le occasioni di passare delle mattinate di tempo speciale insieme così, tra di noi. Noi due andavamo avanti e indietro con i mezzi pubblici partendo dalla periferia della città, dove abitavamo, con la linea tre che faceva capolinea a bordo costa. Ricordo che l’anno in cui presi la licenza dovetti studiare per sostenere l’esame e capitò che a stagione inoltrata non ci fossimo ancora concessi di raggiungere il nostro deserto incantato. Avevo una voglia matta di sentire sotto i piedi quelle sabbie immobili e m’impegnavo nello studio, pregustando l’arrivo di quei giorni diversi. Finì la scuola, ma nessuno a casa parlava di andare alla spiaggia. Non riuscivo più a tenerne a bada il desiderio e feci una richiesta esplicita a papà. Sapevo che sarebbe arrivato il tempo delle tue domande e sapevo che avrei dovuto avere per esse delle precise. Disse, riuscendo a nascondere a malapena la tristezza del suo sguardo abbassato. E’arrivato “il porto” e il nostro mare è oramai, impraticabile… Non sapevo cosa intendesse, ma volevo capire e gli chiesi di farmelo conoscere. Prendemmo l’autobus, come tutte le volte. La vettura seguiva il suo percorso, ma strada facendo mi accorgevo che era stato deviato da quello solito del lungomare che ricordavo. Una diga protettiva in cemento irretiva l’acqua marina che convogliava in un canale di calma per barche da diporto; serpeggiava come un fiume di grande portata rasente alla ferrovia che seguiva parallela la vecchia Aurelia. Sporgendomi dal finestrino potevo scorgere, in lontananza, alcuni stralci di blu luccicare infuocati dal sole e lo specchio d’acqua era inframmezzato da una moltitudine di navi all’ancora. Erano tutte di grossa stazza, tanto più grandi delle barche che conoscevo e cariche di contenitori di metallo dalle mille sfumature di colore. Una strada sopraelevata correva, alta, sopra le nostre teste, appoggiando i suoi grandi piloni di ferro, a forma di gambe, sul cemento che aveva rubato il posto al mare.
Scendemmo e, come sempre, corsi verso la rotonda, ma mi fu impossibile individuare l’orizzonte. Anche la fontanella era sparita. In quel tratto la massicciata della strada ferrata era stata riposizionata a ridosso della riva e dovevo abbassarmi, quasi sedermi a terra, per sbirciare, dagli archivolti dei ponti, un angolo di mare. Poco più in là, lunghe file di costruzioni di vetro troneggiavano davanti alla cortina di scogli, facendosi notare per le loro insegne d’ogni dimensione e tonalità. Dozzine di camion, dai rimorchi ingombranti come case s’incolonnavano, insieme alle automobili, entrando attraverso una bocca spalancata dentro il ventre delle navi somiglianti a palazzi con tante finestre. Quel luogo selvaggio di solitudine e di silenzio, che avevo tanto amato, si era tramutato nel grande caos di movimento che mi stava davanti. Persino le sue tinte erano profondamente mutate, a partire da quello dell’acqua che, come tutto il resto, aveva assunto toni scuri. Chiesi a mio padre in che modo tutto aveva potuto mutare in così poco tempo e perché. Rispose che il mondo aveva bisogno di cambiare per sopravvivere, e lo faceva anche continuando a produrre quell’illusione che chiamava bisogni, i sogni della gente. Il commercio ed il turismo di massa avrebbero potuto rappresentare una risorsa, più dell’armonia dell’ambiente, a tale scopo per la nostra città. Disse che nessuno di noi avrebbe dovuto sentirsi obbligato a rinunciare a qualcosa d’importante per far vivere quell’ipocrisia. Coloro che, come noi, avevano avuto la fortuna di conoscere l’origine delle cose, ancorandone memorie indelebili, come battiti, nel proprio cuore, avrebbero potuto usare la propria intelligenza e, facendosi più consapevoli, darne testimonianza alle generazioni future, fintanto che non fosse troppo tardi e che avesse ancora potuto servire. Questa era l’unica, speranza di salvezza dalla menzogna che la bellezza e l’equilibrio della natura non fossero assolutamente necessarie alla vita e potessero essere cancellate con un colpo di spugna in nome del progresso, bugia alla quale la società ci voleva confinare a favore dei suoi profitti. Ci nutrono soltanto perché più tardi ci divoreranno. Le sue parole risuonarono come cannonate, svegliando quella mia parte cosciente che non riusciva a farsi una ragione della visione sostitutiva che avrebbe voluto prendere il posto dei fotogrammi residenti nella mia mente. Neppure il vento, che, come sempre, a quell’ora, ardiva, iniziando ad alzarsi impetuoso, sapeva allontanare il frastuono e l’odore acre diffuso nell’aria, né stemperare la mia malinconia. Deglutii quel nodo che si era fermato in gola, sapendo che di lui potevo fidarmi e che anche io volevo fare la mia parte. Presto sarebbe giunto, per me, il momento di mettere in pratica tutto quello che mi aveva insegnato. Avrei tenuto teso il filo della memoria, allo stesso modo di come egli aveva fatto con me, accompagnandomi in luoghi meravigliosi a godere della semplicità di ogni cosa. Avrei raccontato per coloro che sarebbero arrivati dopo di noi e avrebbero chiesto conto di come eravamo e del perché avrebbero dovuto essere avvertiti, messi in guardia da falsi miraggi.
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Mariella Colosi
Leggere Mariella e’ sempre un po’ come calarsi nei meandri della propria anima…persa e ritrovata ad ogni verso…tra le righe i suoni e i sogni che avvolgono di fascino e sensualita’ la narrativa di questa interessante scrittrice…
Leggo sempre con interesse Mariella, una scrittrice sempre attenta che riesce a tenere desta la mia attenzione dall’inizio alla fine dei suoi racconti che portano alla luce sensibilità e anima dei suoi personaggi. Vorrei fotografare come Lei le situazioni che si susseguono, immagini mai ferme e sempre in movimento come gli stati d’animo.