.“A vida é igual em toda a parte e o que é necessário é a gente ser a gente.”
Clarice Lispector
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Iniziai a leggere Clarice Lispector non moltissimi anni fa, me ne parlò quella che poi diventò amica e collaboratrice in molti percorsi di approfondimento, Anna Maria Farabbi. Il libro che mi aprì la porta verso un mondo particolare, quasi rarefatto e lento, decisamente un altro tempo, ma non meno pregno di Χάος (Caos) vitale e silenzio, era La passione secondo G.H.
Anna mi aveva semplicemente detto: – leggilo. – Così ho fatto. Libreria, acquisto, una comoda poltrona e.
Inizio il mio viaggio nell’universo Lispector, una stanza in cui finisci per trovarti in una allucinazione che è creazione.
Dall’apertura l’autrice rivolge una raccomandazione ai lettori e pur affermando che il libro è come ogni altro, lei segna un discrimine chiedendo, se possibile, di essere letto da lettori con un’anima formata. Nei libri, non tutti comunque, come nella vita, l’avvicinamento ai fatti, alle cose , avviene con mediazioni che sono incontri, passi, riflessioni, insomma per gradi e sempre con una dose di sofferenza che indica la partecipazione di chi, nel cammino, non cerca la meta ma il cammino stesso. Leggere il libro è stato e sarà ogni volta attraversare un mondo, in cui ad /da ogni pagina si camminerà verso se stessi, anche se ci saranno altri, oltre l’autrice a percorrerlo. La lettura del libro, come del resto la lettura dei fatti quotidiani in cui veniamo a trovarci, non avviene testualmente e oggettivamente ma, sempre, soggettivamente, e risulta per questo difficile passare di mano in mano o di memoria in memoria una parola unica, compresa e comprensibile in una sola formula. Così alla fine anche Clarice Lispector risulta una scrivente nel nostro libro e noi con lei nel comprenderla. Tutto ciò che prima ci sembrava chiaro, circoscritto e definito in un corpo preciso, appare diverso, non così nettamente delineato ma qualcosa che va conformandosi con il nostro sguardo sempre più aperto, acuto, profondo, perché nella parola di Lispector le cose non sono incontrate di petto, frontalmente, ma quasi aggirate, sospese e soppesate con bilancini e lance, con spilloni d’intelligenza, guardate fino a trovarne il corpo intoccabile, l’intangibile sostanza dell’essenza e dunque l’oggetto perde la sua patina di sicurezza fasulla, quella che gli si era appioppata per autodifesa e si fa “la cosa“, ed essa è l’intero, compreso il vuoto che la ospita e la distanza che da essa ci separa e ad essa ci conduce. Della sua vita sappiamo tutto, o quasi tutto, poiché si conoscono gli spostamenti ma il tempo, in Lispector è concentrico e tutto affiora per gradi in un continuo prossimo e di prossimità mai conclusa. Tutto il suo percorso è un lavoro continuo in sé stessa ed ogni porta aperta socchiude anche la nostra, quella che si usa per raggiungerla, mentre apriamo finestre e stanze della vita, della realtà a cui Clarice si avvicina e a cui avvicina noi: visioni, epifanie, rivelazioni attraverso una scrittura che si fa bordo del reale. Il corpo a corpo faticoso attraverso il linguaggio che porta avanti la protagonista è il cammino di Clarice che segna ciò da cui è segnata: l’esperienza, l’allargamento della coscienza, l’apprendimento del viaggio attraverso le sue tappe di avvicinamento.
Per lei creazione non è immaginazione ma il rischio di accedere alla realtà, la stessa a cui conduce i lettori, che si trovano di fronte di punto in bianco all’in-credibile, e questo attraverso oggetti e luoghi, fatti della quotidianità più banale, niente di mirabolante, la stra-ordinarietà dell’ordinario, che manca di ordine, è caos puro, bevuto, attraverso il corpo di quella blatta schiacciata da G. H., donna elegante, forte perché certa della sua identità, nella quiete rassicurante delle mura domestiche, che in un pomeriggio uguale a molti altri si trova davanti uno scarafaggio. L’archeologia dell’origine, la millenarietà della trasformazione, della storia. E’ proprio a questo punto che ha inizio la passione di G. H., che tenta di ammazzare la bestia, lo scarafaggio immondo, e poi sente l’irrinunciabile tentazione di assaggiarne la materia, di ospitarla in sé di farne suo corpo e di toccare così il mistero dell’origine, della vita. Perché è questo la blatta: la metafora viva che rappresenta l’impuro, o il reale, o il sacro, o tutto quanto è altro ma è anche ciò che sentiamo materno, e tutto questo in un unico corpo caos e ordine, senza distinzione di posizione, senza gerarchia alcuna. E’ il tutto in una configurazione unitaria, unica, a cui appartiene anche l’osservatore e chi legge ciò che osserva. Un turbine da cui si è presi e non ci lascia. Qui, forse, la grandezza dell’autrice che ci porta diritti nel corpo centrale del bersaglio dove scopriamo noi stessi: geografia e storia dell’imminenza e dell’immanenza, l’urgenza di partecipare con coscienza del mistero che è MISTERO DEL VIVENTE, energia della materia umana.
Da Alcuni es-tratti , brevissimi, è possibile cogliere l’ istantanea , la luce nell’attimo di grazia che si affaccia nel buio del prima, del sempre.
Creerò ciò che mi è accaduto. Solamente perché vivere non è narrabile. Vivere non è vivibile
Io a cui solo la cosa originale, fonte di ogni generazione, interessa, io la cui ambizione è di bere alla fonte viva di quella fonte.
Ed è solo attraverso la totale perdita dell’identità, nello spaesamento, nel disorientamento che G.H. comprende che il vivere, ciò che crediamo comune, che nemmeno stiamo a guardare, è “cosa sovrannaturale”, che “essere io” – come scrisse Alfredo Giuliani in occasione della prima edizione italiana di La passione secondo G.H. – “non è una peculiarità umana, perché proviene da una fonte anteriore e assai più grande, da una materia infinitamente più ricca e sconosciuta. ”
Clarice è dunque ancora una volta Eva,e porta alla bocca il frutto proibito della conoscenza per riuscire ad entrare nell’unico paradiso in cui crede, la nostra stessa vita, umana, da vivere però, nel piacere e nella sofferenza con una pienezza, un sapere e un’allegria che si possono attingere attraverso un lungo, faticoso e paradossale apprendistato, in cui centrale resta l’amore, l’amore per l’altro, l’amore come corpo vivo di relazione nel corpo intatto.
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‘A única verdade é que vivo. Sinceramente, eu vivo. Quem sou? Bem, isso já é demais.”
Clarice è un’ebrea russa, nata nel dicembre 1924 a Tchetchelnik, in Ucraina, durante il viaggio di emigrazione dei genitori. Giunta in Brasile a soli due mesi (come lei stessa terrà più volte a precisare), vive dapprima nel nord, a Recife, poi a Rio de Janeiro. In portoghese, la sua prima lingua, inizia a scrivere all’età di sette anni; a nove perde la madre. Pubblica i primi racconti a quattordici anni, e a diciannove un romanzo, “Vicino al cuore selvaggio”. Poi il matrimonio, i lunghi soggiorni all’estero accanto al marito diplomatico (Svizzera, Italia, Inghilterra, Stati Uniti), la nascita di due figli maschi molto amati, la fama della sua bellezza e della sua intensità. Pubblica “Il lampadario” (1946) e “La città assediata” (1949). Nel 1958 rientra in Brasile, divorzia, produce, oltre a numerosissimi racconti, le opere mature: “La mela nel buio” (1961), “La passione secondo G. H. ” (1965, trad. it. di Adelina Aletti, La Rosa, Torino 1982), “Un apprendistato o il libro dei piaceri” (1969, trad. it. di Rita Desti, ivi, 1981), “Agua viva” (1973). È letta e amata da un pubblico vastissimo, anche se ritenuta talvolta “difficile”. Dopo anni di progresso nella solitudine, muore di cancro nel ’77. Escono postumi “L’ora della stella” (1977), “Un soffio di vita” (1978), e numerosi altri libri tra cui una vasta raccolta di articoli, interviste e scritti vari dal titolo “La scoperta del mondo” (1984).
“Vicino al cuore selvaggio”, l’opera più recentemente tradotta in italiano, è quindi la sua prima. Quando uscì, nel 1944, l’orizzonte letterario, in Brasile, prevedeva o il romanzo regionalista o il romanzo intimista. Clarice meno che ventenne, nutrita di letture disordinate, lavora e sente in tutt’altro modo, e attraverso la scrittura va alla scoperta del mondo. Il risultato è qui un testo polifonico: su una medesima tonalità – l’unità narrativa – si dispiega una simultaneità di melodie. Il passato e il presente avanzano in onde concentriche, e il tempo già trascorso diventa sempre più prossimo. La critica l’accosta alla Wolf, a Joyce (dal quale deriva la citazione in epigrafe: “Era solo. Era abbandonato, felice, vicino al cuore selvaggio della vita”), se non altro perché la storia, i personaggi, sono pallidi nuclei intorno a cui lampeggiano momenti dell’essere.
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Cara Fernanda, trovare tra le mie mail l’indicazione di questo tuo articolo è stata quiete in mezzo a tempeste. Non posso non soffermarmi, perché la mia devozione a Clarice Lispector è talmente grande e, ormai posso dirlo, antica. L’ho scoperta a 24 anni (ormai quasi trenta anni fa) e attraverso la sua opera ha rappresentato e rappresenta ancora per me un Apprendistato, termine a lei caro. Sei qui riuscita a riportare il vero sapore dell’Apprendistato, che vive nella passione, sei riuscita a stemperare il senso ontologico, riportando la blatta, in breve, a quel che ci può dire veramente una blatta schiacciata, se ci accorgiamo di lei con una certa luce. Clarice è difficile, affascinante com’è, ma difficile è far rivivere l’incanto che sa produrre con la parola. Tu ci sei riuscita e grazie per questi momenti quieti, grazie ad Anna Maria Farabbi che ha saputo fartela scoprire e, a noi, restituire. Patrizia
L’occasione di scriverne, adesso, dopo anni, un bel po’ a dire il vero, è derivata dalla ricerca di una persona che chiedeva dove poteva trovare questo libro “irreperibile”. Scomparso dalle librerie internettiane e anche dalle altre, nelle diverse città, stava invece bene in vista in una delle librerie di casa. Ogni tanto rileggo quello e anche gli altri testi che ho a suo tempo acquistato, sempre della Lispector (quando la conosci vuoi incontrarla ancora), così è accaduto che lo riprendessi in mano e lo rileggessi, per offrire uno sguardo a chi non l’ha ancora mai aperto.
Grazie per le tue parole, per le quali ti sono grata. ferni
grazie per le tue parole sulla grande, affascinante,misteriosa Lispector da rileggere e riscoprire.
Strordinaria Ferni.
un abbraccio a te e ad Anna Maria.
lucetta
Che passione nelle tue parole. Ti ringrazio per questo squarcio su un universo tanto vasto, cara Fata Madrina.
Grazie a tutte voi che so essere delle raffinate ed attentissime lettrici di Lispector.
f
bellissima pagina per attraversare un inizio, nel mio caso
e le tue parole invitano a farlo
grazie ferni
Persa e ritrovatami nell’immenso fascinoso mondo di Clarice che adoro e la tua magnifica pubblicazione… Ti sono grata e ad Elina per avermi segnalato questo tuo per me di vitale importanza lavoro eccellente…Vi stringo affettuosamente… Bea
Seduttivo!
grazie a voi ma è l’autrice che porta ad un lavoro fitto, intenso e continuato su se stesse,leggetela, assolutamente non può essere messa da parte.
f.
“Ed è solo attraverso la totale perdita dell’identità, nello spaesamento, nel disorientamento che G.H. comprende che il vivere, ciò che crediamo comune, che nemmeno stiamo a guardare, è “cosa sovrannaturale”, che “essere io” – come scrisse Alfredo Giuliani in occasione della prima edizione italiana di La passione secondo G.H. – “non è una peculiarità umana, perché proviene da una fonte anteriore e assai più grande, da una materia infinitamente più ricca e sconosciuta.“
Certo una corrente sotterranea – ma non iniziativa, quanto forse terrena, umile, concreta – porta dai leggendari rishi che creavano mondi a queste frasi, così distruttive di ogni tradizione nel loro proprio inverarla. Appunto, si tratta di già sempre svegliarsi a questa avventura, assumersela nel proprio cervellino travalicandolo nella meraviglia che esso stesso esista. Fa un po’ fatica, ed essendo relativi spesso veniamo a mancare. Ma io voglio ipotizzare che anche il venire a mancare, il “non stare nemmeno a guardare”, sia parte di quel vivere soggettivo-creativo che preesiste al (pre-sentendo) il mondo.
Non conoscevo questa autrice, ma la tua presentazione-fiume, così passionale e algidamente affastellata di fatti, me la rende molto interessante. La parte sulla blatta mi dà quasi l’impressione di un Kafka rovesciato, non chiuso fuori dal recinto del sacro (per cui è la colpa che assurge a via per la verità), ma semmai chiuso dentro. Comunque, se non arrancassi eternamente dietro a troppi libri, mi ci precipiterei subito.
Per leggere Clarice Lispector non aiuta certo la fretta, la corsa.Anzi serve una lentezza grande, un rallenty alla moviola in cui ogni cosa trova una soluzione in macro,serve appunto perdere il quotidiano ritratto e serve ri-trarsi in altri s-pro-fonda-menti in cui non ci sono appoggi se non il baratro in cui cadere cedendosi
f
Appena terminato. Avevo bisogno dal profondo di leggere qualcosa in merito, come ciò.