felice casorati- ritratto di silvana cenni
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Si esporrebbe ad un fuoco incrociato di critiche chiunque tentasse di ripercorrere per intero, all’interno di un’unica mostra, le vicende artistiche del secolo che da non molto abbiamo abbandonato. Un secolo quanto mai complesso. Privo di un vero corpo centrale, ma pieno di sporgenze. Caratterizzato da scure strettoie e improvvise aperture luminose. Nel quale hanno convissuto l’ordine e la confusione, la chiarezza e l’ambiguità. Attraversato sia da impetuosi movimenti artistici, che da figure solitarie, non meno determinanti. Un secolo che molto ha prodotto poiché molto si è comprato, tant’è vero che, ancor oggi, sul singolo giudizio non poco influiscono le pressioni del mercato. Peraltro, è proprio la sua inafferrabilità a testimoniare come meglio non si potrebbe l’epoca che ha rappresentato: un mondo in rapidissima trasformazione politica, scientifico-tecnologica e culturale.
Ben vengano, dunque, le ricognizioni ravvicinate, a “volo radente”. Mostre che si propongono non solo di allineare sequenze più o meno giustificate di opere e di autori, ma anche di contestualizzarli, motivandone la presenza all’interno di un percorso non solo visivo. Così ha sempre fatto Forlì, sin dal 2006 quando, negli ampi spazi, allora appena ristrutturati del Museo di San Domenico, dedicò una rassegna a Marco Palmezzano, per non dire di Guido Cagnacci (2008) o di Melozzo (2011). Ora, quindi, non sorprende, ad un anno esatto dalla mostra di Adolfo Wildt, a cui pare agganciarsi in modo naturale, trovare una rassegna intitolata: “Novecento – Arte e vita in Italia tra le due guerre” (a cura di Fernando Mazzocca, coadiuvato da un comitato di studiosi presieduti da Antonio Paolucci – aperta sino al 16 giugno). Essa intende fissare lo sguardo, attraverso oltre cinquecento opere, tra dipinti e sculture (ma anche manifesti, arredi e moda), su quanto accadde in Italia tra la fine della Prima Guerra mondiale e la parte declinante del Fascismo. In tutto, circa trent’anni. Trenta lunghi anni, caratterizzati da un progetto “solidificante”, dopo la crisi delle avanguardie.
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felice casorati- concerto
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Come poi andarono le cose è noto a tutti: questi artisti, nel volgere il loro sguardo al passato, in direzione della grande tradizione pittorica italiana, stabilirono un punto di congiunzione ideale con i valori portanti dell’ideologia del tempo, che, guarda caso, andava proprio cercando di posizionarsi sopra una solida pedana culturale. Questo accadde con convinzione d’intenti: “Un’arte che è l’espressione plastica dello spirito Fascista” scriverà Sironi nel 1933, per poi aggiungere, sempre tra le righe del “Manifesto della pittura murale”: “Vi è una profonda incompatibilità tra i fini dell’arte Fascista e tutte quelle forme d’arte che nascono dall’arbitrio, dalla singolarizzazione, dall’estetica particolare di un gruppo, di un cenacolo, di un’accademia (…). Epoche spirituali in decomposizione”. Il passaggio dalla teoria alla pratica fu veloce e ogni forma di individualismo fu guardata con grande sospetto, al pari di una pericolosa devianza.
Forlì, picconata e ricostruita proprio negli anni presi in esame dalla mostra, si presenta come una scenografia perfetta, “ideale”: le sintesi razionaliste, la sua struttura architettonica e urbanistica, il valore dell’ombra intesa come prolungamento silenzioso di un pensiero forte e combaciante, qui, più ancora che in altri centri romagnoli (ma non solo romagnoli), accompagnano il visitatore sin quasi all’interno della mostra. Un percorso che parte dalla stazione ferroviaria, per proseguire lungo viale della Libertà (ex viale Benito Mussolini), sino alla trapezoidale piazza Aurelio Saffi, col suo imponente palazzo delle Poste. Arte e architettura stabiliscono, dunque, un dialogo intenso, diretto, utilissimo per meglio comprendere il clima del tempo. Anche se, poi, è con una diversa “Città ideale” che simbolicamente si apre la rassegna, quella raffigurata nella celebre tempera su tavola proveniente da Urbino, dipinta alla fine del ‘400: capolavoro di prospettive altrettanto silenziose e metafisiche, ma rischiarate da una luce diversa. Infatti, accanto a questo primo quadro, sono stati appesi il “Ritratto di Silvana Cenni” di Casorati e poco lontano una “Piazza d’Italia” di De Chirico, due tele non certo fissate all’asta della retorica e del trionfalismo.
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giorgio de chirico- sala d’apollo (violon)
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Va detto che trovare all’interno delle sale una serie di autori che con il sarfattiano gruppo “Novecento” poco niente hanno a che fare (quasi si fosse voluto rendere politicamente meno acuto l’angolo di penetrazione), oltre a disorientare, innesca l’inevitabile conta delle assenze: facile pensare a Tozzi, ad esempio, o alle sculture figurative di Fontana. Una volta allontanato il pensiero che si siano voluti trascinare verso l’esterno autori la cui vicenda artistica è strettamente legata al Fascismo, va anche ribadito che ingiusta è anche l’operazione opposta, cioè far passare la teoria (colta anche tra i discorsi dell’inaugurazione) che, in fondo, in quel periodo “erano tutti fascisti”.
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pablo picasso
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ubaldo oppi-giovane sposa
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achille funi- la terra
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Non c’è bisogno di ribadire che, Derain e Picasso in Europa, così come Severini o De Chirico, ristabilirono un contatto con la tradizione, attraversando territori interiori decisamente diversi. Ne è una conferma la tela chiamata a chiudere il tragitto espositivo: “La fuga dall’Etna”, dipinta da Guttuso. Infatti, proveniente dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma, il pittore siciliano la dipinse nel 1940, proprio l’anno in cui il regime impose la chiusura di Corrente, il movimento artistico attorno al quale si riunirono coloro che desideravano prendere le distanze dall’autarchia imperante. Pittori “di figura” anch’essi, però guardavano al Picasso di Guernica (1937) e non a quello classicheggiante della “Grande Bagnante” del 1921-22 (portato a Forlì in occasione di questa rassegna).
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cagnaccio di san pietro- donna allo specchio
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Siamo, dunque, nel Novecento, ma non all’interno del gruppo denominato “Novecento”, nato grazie all’intuizione critica di Margherita Sarfatti. Le premesse facevano ben sperare: “Dichiaro che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualcosa che possa assomigliare all’arte di Stato: l’arte rientra nella sfera dell’individuo…” scriverà Benito Mussolini sul Popolo d’Italia nel ‘23, in concomitanza con la prima mostra milanese dei sette fondatori del gruppo: Anselmo Bucci, Leonardo Marussig, Ubaldo Oppi, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba e Mario Sironi. Riuniti, come detto, per ristabilire i valori della tradizione, ripensata al fiorire della pittura tre-quattrocentesca. Successivamente, Mussolini, che con la Sarfatti mantenne rapporti non solo culturali, pensò bene di prendere le distanze da quei suoi primi convincimenti, specie quando essa fu accusata, dalla parte “meno sensibile” del Fascismo, di favorire troppo la vocazione artistica e poco la propaganda.
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Una mostra da visitare, non fosse che per l’alta qualità delle opere esposte, a cominciare dall’immagine che compare in ogni manifesto: ”Maternità” di Severini del 1916. L’elenco sarebbe troppo lungo: da “L’architetto” di Mario Sironi del 1922 a “Le maschere” di Antonio Donghi del 1924, da “In tram” di Virgilio Guidi del 1923 ai “Tre chirurghi” di Ubaldo Oppi del 1926. Impossibile dar conto anche solo degli autori. Oltre a quelli già citati: Carrà, Balla, Depero, Cagnaccio di San Pietro, Dottori, Conti, Prampolini, Ferrazzi, Soffici, Carena, Pirandello, per ricordarne alcuni. Non meno significativa è la presenza degli scultori: naturalmente Arturo Martini, ma anche Domenico Rambelli, Libero Andreotti, Pietro Melandri, e poi Biancini, Baroni, Thayaht, Messina, persino Manzù. Davvero molto ampia, per essere una ricognizione ravvicinata.
Silvio Lacasella
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tullio crali– incuneandosi nell’abitato
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Riferimenti in rete:
http://www.mostranovecento.it/informazioni.html
http://www.mostranovecento.it/la-mostra.html
http://www.mostranovecento.it/galleria.html
https://www.facebook.com/media/set/?set=a.533888676645536.120005.209879935713080&type=3
INFORMAZIONI UTILI:
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… e come memoria di quel lontano novecento un documento dell’Istituto Luce
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Bellissimo e stimolante articolo. Grazie per queste ricorrenti ricognizioni su mostre d’arte serie e arricchenti, ben lontane dalle (dolciastre) mostre-evento molto pubblicizzate e, talvolta, deludenti.
aprire un mondo all’occhio e porgergli ascolto…
un viaggio articolato, da cominciare o proseguire con occhi attenti e critici
grazie
Proprio davanti a casa mia una margherita è nata nell’asfalto, ai margini della strada. Ecco, alcuni artisti del Ventennio, pur in un periodo molto cupo e pieno di soffocante retorica, hanno dipinto quadri molto belli. E questo doppiamente sorprende
Mario Tozzi, veramente un’assenza sconcertante.
http://www.catalogogeneralemariotozzi.it/