braulio matos
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Tra le prime riflessioni filosofiche ingenue su cui a chiunque capita di attardarsi non mancano mai quelle che vertono sullo scarto tra il tempo dell’orologio e il tempo percepito. Non per niente time è il sostantivo più usato nella lingua inglese, spesso metaforizzato in senso spaziale (tempo come distanza, quantità, movimento), forse per esorcizzarne l’intangibilità. È spiazzante scoprire che il proprio cronometro interiore è sfasato rispetto alla durata oggettivamente misurabile degli eventi – o del vuoto di eventi – che esperiamo. Avvertiamo i tempi dilatarsi o contrarsi a seconda delle emozioni prevalenti, dell’intensità degli stimoli, dell’attività immaginativa in cui siamo impegnati, e persino della temperatura corporea. Ne Il mistero della percezione del tempo (Einaudi, pp. 328, € 9.99) Claudia Hammond si intrattiene su alcune di queste anisocronie, dalle più comuni – «il tempo vola quando ci si diverte», «se guardi l’acqua non bolle mai» e «il tempo accelera col passare degli anni» – alle avventure di time warping sperimentate in situazioni estreme. Tra queste, Hammond cita la vicenda di Chuck Berry: non il re del rock, bensì l’omonimo paracadutista neozelandese che, tuffatosi in picchiata da 1700 metri, si accorse che le ali del deltaplano si stavano staccando. Quanto durarono, per Chuck Berry, i quindici secondi che lo separavano dallo schianto? Un’eternità, ebbe poi modo di raccontare, durante la quale poté considerare le sue modeste probabilità di sopravvivenza e escogitare un piano per attutire l’urto. Un caso complementare è quello di Michel Siffre, speleologo francese che visse in isolamento sotto le Alpi francesi per verificare gli effetti della deprivazione sensoriale sulla percezione del tempo. Sguarnito di strumenti con cui cadenzare le ore e i giorni, Siffre sottostimò la durata della sua permanenza sotterranea. Quando i colleghi lo vennero a riprendere dopo i due mesi concordati, pensava che gli mancassero ancora venticinque giorni di inenarrabile noia. Ecco un dato controintuitivo su cui riflettere: come mai talvolta la percezione del tempo trascorso è inversamente proporzionale alla percezione dello scorrere del tempo? Hammond battezza questo fenomeno il «paradosso della vacanza»: lì per lì sembra che le settimane volino; guardandosi indietro, l’intervallo si espande, e pare di essere stati via per il doppio o il triplo dei giorni. Il motivo, suggeriscono gli psicologi consultati dall’autrice, va cercato nel duplice regime temporale che regola la nostra vita mentale. Una temporalità prospettiva scandisce in presa diretta il flusso dell’esperienza vissuta, come una sorta di pacemaker a ritmo variabile che emette le sue pulsazioni da un centro cerebrale a tutt’oggi non identificato. Una temporalità retrospettiva invece ricostruisce il ricordo dell’evento, attribuendogli una durata tanto più estesa quanto maggiore è il numero di momenti significativi che rientrano nel suo arco. Ragion per cui il tempo passa in un baleno quando l’attenzione è occupata a registrare esperienze salienti, mentre si amplia nella memoria di un passato ricco di contatti pregnanti con il mondo. E viceversa, naturalmente. La penuria di sollecitazioni dirotta l’attenzione sul tempo in sé, percepito come vuoto, insulso, e dunque interminabile. Per questo l’acqua non bolle mai e la giornata di un depresso tende a essere più lunga di quella di un innamorato. A guardarsi indietro, invece, i valori si invertono. «Se gli anni si accorciano man mano che invecchiamo è colpa della monotonia del contenuto memoriale e della conseguente semplificazione dello sguardo sul passato» ipotizzava William James con abbondante anticipo sulla massa di ricerche empiriche che oggi pervengono alla stessa conclusione. Il limite più evidente delle ricerche riportate da Hammond nel suo saggio aneddotico e divulgativo è proprio questo: che si parli della durata elastica degli eventi ricordati, dei circuiti mentali coinvolti nell’anticipazione del futuro, delle difficoltà a datare con precisione eventi storici recenti o dell’influenza della lingua sul nostro modo di percepire il tempo, i dati sperimentali aggiungono poco alle intuizioni filosofiche più perspicue: «la vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti» (Kierkegaard); «c’è un solo modo di dimenticare il tempo: impiegarlo» (Baudelaire); «il tempo di cui disponiamo ogni giorno è elastico» (Proust); «non mi preoccupo mai del futuro, arriva sempre abbastanza presto» (Einstein).
Valentina Pisanty
Da Alias – 14.4.13
Perché il tempo accelera sempre piú, man mano che si diventa adulti? Mentre rallenta quando abbiamo la febbre o subiamo un rifiuto? E perché il nostro orologio interiore spesso va a una velocità diversa rispetto a quello che abbiamo al polso? Un viaggio memorabile nei meccanismi intellettuali, sentimentali e fisici che regolano lo scorrere dei minuti, delle ore e degli anni – in breve, della nostra vita.
Avete mai provato a passare un giorno senza mai guardare che ora è? Impossibile. Eppure, sebbene il trascorrere del tempo domini ogni istante delle nostre giornate, quel che sappiamo a riguardo è ben poco. In vacanza le giornate volano, ma quando ci ripensiamo sembrano eterne come quando siamo malati o tristi. E come mai esiste chi vede i mesi come tessere del domino o i secoli come una spirale? Per non parlare dell’enigma rappresentato da chi perde la memoria e, paradossalmente, anche la capacità di immaginare il futuro…
Di questo tema si sono occupati approfonditamente biologi, psicologi, filosofi, scrittori e neuroscienziati, e proprio attingendo a studi, esperimenti e ricerche, ma anche a riflessioni e romanzi, Claudia Hammond riesce a offrirci un’avvincente sintesi in materia.
Un apporto fondamentale per comprendere i meccanismi che governano un’esperienza fluida, mutevole e imprendibile, creata in modo costante e sempre nuovo dalla nostra mente.
Lettura di alcune pagine dall’introduzione
http://www.einaudi.it/var/einaudi/contenuto/extra/978880621472PCA.pdf
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braulio matos