donatella violi- le città invisibili
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Da pellegrino a turista
«L’identità continua ad essere il problema che è stato nel corso di tutta la modernità» – dice Douglas Kellner, aggiungendo che «nella società contemporanea l’identità, lungi dallo scomparire, è piuttosto ricostruita e ridefinita». Tuttavia, solo un paio di paragrafi dopo egli avanza dei dubbi sulla fattibilità di una «ricostruzione e ridefinizione» del sé sottolineando che «oggi l’identità diventa un gioco liberamente scelto, una presentazione teatrale del sé» e che «quando uno cerca di cambiare radicalmente identità a suo piacimento, rischia di perdere il controllo […]» (1). L’ambivalenza di Kellner riflette l’ambivalenza stessa del problema così come oggi si presenta. Oggi si sente parlare di identità e di problemi connessi più di quanto se ne sia mai parlato nei tempi moderni. E nonostante ciò, ci si può chiedere se l’ossessione del momento non sia semplicemente un altro di quei casi che seguono la regola generale secondo la quale le cose si scoprono soltanto “ex post facto”, quando svaniscono, falliscono o cadono a pezzi.
A mio avviso, se è vero che l’identità «continua ad essere il problema», non si tratta del «problema che è stato nel corso di tutta la modernità». Al contrario, se il «problema dell’identità» moderno consisteva nel costruire una identità e mantenerla solida e stabile, il «problema dell’identità» postmoderno è innanzitutto quello di come evitare ogni tipo di fissazione e come lasciare aperte le possibilità. Nel caso dell’identità come in altri casi, la parola chiave della modernità era creazione; la parola chiave della postmodernità è riciclare. Oppure si può dire che, se «il medium che era il messaggio» della modernità era la carta fotografica (pensiamo agli album di famiglia che si ingrossano implacabilmente, documentando pagina dopo pagina ingiallita il lento aumentare di eventi che portano all’identità, eventi irreversibili e non cancellabili), in ultima analisi il medium della postmodernità è il videotape (cancellabile e riutilizzabile, pensato per non trattenere le cose per sempre, che fa spazio agli avvenimenti di oggi unicamente a condizione che quelli di ieri siano cancellati, trasudando il messaggio dell’universale «fino a maggior chiarezza» di ogni cosa valutata degna di essere registrata). Il principale motivo d’ansia dei tempi moderni, collegato all’identità, era la preoccupazione riguardo alla durabilità; oggi riguarda invece la possibilità di evitare ogni impegno. La modernità è costruita in acciaio e cemento. La postmodernità in plastica biodegradabile.
L’identità come tale è un’invenzione moderna. Dire, come è stato spesso detto, che la modernità ha portato allo sradicamento (“disembedding”) dell’identità, o che ha reso l’identità sgravata, è un pleonasmo – dal momento che l’identità non è mai diventata un problema, ma è stata un problema sin dall’inizio – è nata come problema (il che significa, come qualcosa che qualcuno deve risolvere – come un compito), e può esistere solo come problema; era un problema, e quindi pronto a nascere, precisamente a causa di quella esperienza di sottodeterminazione e libero-fluttuare che è poi stata “ex post facto” definita “disembedding”. L’identità non si sarebbe mai congelata in forma visibile e afferrabile se non nella forma sradicata e sgravata. Si pensa all’identità quando non si è sicuri della propria appartenenza; e cioè, quando non si sa come inserirsi nell’evidente varietà di stili e moduli comportamentali, e come assicurarsi che le persone intorno accettino questo posizionamento come giusto e appropriato, in modo che entrambe le parti sappiano come andare avanti l’una in presenza dell’altra. «Identità» è il nome dato al tentativo di sfuggire a questa incertezza. Quindi «identità», anche se palesemente nome, si comporta come un verbo, sebbene un verbo di sicuro strano: appare solo al futuro. Sebbene troppo spesso sia stato ipostatizzato come attributo di un’entità materiale, l’identità ha lo statuto ontologico di un progetto e di un postulato. Dire «identità postulata» significa dire una parola di troppo, dal momento che non può esserci altra identità che quella postulata. Identità è una proiezione critica di ciò che è richiesto da e/o si cerca in ciò che esiste; o, più esattamente, un’asserzione obliqua dell’inadeguatezza o incompletezza di quest’ultimo.
L’identità è entrata nella mentalità e nella pratica moderna già sotto forma di compito individuale. Era compito dell’individuo trovare una via d’uscita dall’incertezza. Non per la prima e non per l’ultima volta problemi creati socialmente dovevano essere risolti da sforzi individuali, e malattie collettive curate da medicine private. Non che i singoli fossero lasciati alla loro libera iniziativa, e che ci si fidasse della loro acutezza; piuttosto il contrario – il fatto di mettere la responsabilità individuale per la formazione personale all’ordine del giorno, diede vita a una moltitudine di allenatori, insegnanti, consulenti e guide, tutti convinti di avere una conoscenza superiore delle identità che loro stessi raccomandavano e di come fare ad acquisire e tenere strette tali identità. I concetti di costruzione dell’identità e di cultura (ovvero, l’idea di incompetenza individuale, di necessità di una crescita collettiva e dell’importanza di maestri abili ed esperti) potevano solo nascere e di fatto nacquero insieme. L’identità sradicata si nascose simultaneamente dietro la libertà di scelta individuale e la dipendenza dell’individuo da una guida esperta.
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Da LA SOCIETA’ DELL’INCERTEZZA- Società editrice il Mulino 1999- Bologna.
Traduzione di Roberto Marchisio e Savina Neirotti