alexander grishkevich
Gli undici brevi racconti che compongono questa opera, forniscono una biografia scarna, ma precisa, affilata nella scrittura come sa fare l’autrice Agota Kristof, nata, nel 1935 a Köszeg, un villaggio ungherese, “privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono”.
Scrittrice di “nicchia” come si suole dire di chi non va in cerca di presenzialismi, di facili onori, di fasti e allori, la Kristof anche di questo materiale più strettamente biografico fa un uso da en-tomologa. Racconta per squarci episodi dell’infanzia , periodo che si intuisce felice e spensierato, ma evita accuratamente ogni sommovimento emozionale anche quando narra gli scherzi che con il fratello maggiore ordiva nei confronti del fratello minore.
Soprattutto ci interessa e le interessa esporre la sua formazione : lettrice già a quattro anni, avida di libri che trovava in casa ma anche nella pluriclasse dove insegnava come maestro suo padre e dove veniva inviata per punizione dalla madre.
Penso che mai punizione sia stata più gradita per un bambino. Leggere, leggere, poi inventare storie perché la scrittura arriverà un po’ più tardi. E le storie continuano nel sonno, diventano sogni.
L’infanzia è lettura, gioco, attenzione all’ambiente presente negli odori, nei sapori, nei colori ; l’aula del padre sa di gesso, di inchiostro e di carta, ma anche di quiete e di silenzio e per associazione di neve, e la cucina della madre sa di carne bollita, di latte, di marmellata, di pipì dell’ultimo nato, e insieme di rumori e di calore estivo anche d’inverno per la stufa che ardeva a cucinare i pranzi.
Manca completamente una sola descrizione sia della madre che del padre; essi agiscono, si compiono nei ruoli del loro lavoro e genitoriale. Piuttosto tipico della Kristof cancellare la fisicità per dire i comportamenti. Mai compiacersi di un rigo scritto e infatti già giovanissima riesce a trasformare in poesie ciò che le si era presentato in forma di narrazione.
Per Agota bambina esiste una sola lingua per esprimersi, leggere, raccontare: l’ungherese.
E’ per lei una lingua così intima , ben padroneggiata e universale che non pensa che ve ne possano essere altre, che non crede che un essere umano possa pronunciare parole che lei non riesca a capire.
Quando in seguito alla rivolta d’Ungheria del 1956 , è costretta ad emigrare in Austria dapprima non vuole imparare il tedesco, lingua di antichi oppressori, quindi il russo , lingua degli attuali dominatori, imposta nelle scuole come un “atto di resistenza passiva naturale, non concordata , che si mette in moto da sé.” Eppure il tedesco le serve per sopravvivere , per chiedere il latte per la sua piccola.
Abbiamo un racconto che parla della migrazione dei profughi ungheresi verso l’occidente, bene accolti, accuditi , eppure Agota non cessa di sentirsi esule, estranea ad un mondo che non ha più la lingua naturale ( materna) per nominarlo. E’ una sensazione tragica che altri avvertono :
“ Due di noi sono tornati in Ungheria nonostante la condanna alla prigione che li aspettava. Due altri, uomini giovani e celibi, sono andati più lontano, negli Stati Uniti, in Canada. Altri quattro, ancora più lontano, nel posto più lontano di tutti, oltre la grande frontiera. Queste quattro persone di mia conoscenza si sono uccise nei primi due anni del nostro esilio. Una con i sonniferi, una con il gas, le altre due impiccandosi. La più giovane aveva diciotto anni. Si chiamava Gisèle.”
Deciderà di fermarsi in un cantone svizzero di lingua francese e si accorge che le parole che apprende dalle compagne di lavoro in fabbrica non le bastano più. E’ con ritrosia che frequenta un corso di francese, ma è troppo impellente il bisogno di leggere, di tornare a scrivere. Agota , infatti, si scopre analfabeta. Nessuno conosce la sua lingua e lei è sorda davanti alla lingua che le parla attorno.
Ma una lingua acquisita non si parlerà mai correttamente e non si scriverà mai senza errori. Anche la lingua dell’esilio è dunque una lingua nemica perché sfugge sempre, ma soprattutto, conclude Agota Kristof, perché sta uccidendo la sua lingua materna. “ Questa lingua , il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, delle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. E’ una sfida. La sfida di un’analfabeta.” , così scrive Agota.
Quindi, anche se armata di dizionari, deve infine cedere di fronte all’impellenza di scrivere e di leggere in francese anche gli scrittori che hanno scritto in altre lingue. Scrivere in esilio, come in collegio, è una questione di sopravvivenza, un modo per sopportare gli anni “non amati”, quelli del lavoro in una fabbrica di orologi dove compone poesie al ritmo delle macchine, come in collegio, quando pensava poesie al ritmo della notte e del silenzio della camerata.
La scrittura esercita la memoria , la memoria parla in ungherese e quindi consente di non perdere completamente la lingua materna. E di evitare di sentirsi un senza patria.
Leggendo questo smilzo libretto ho pensato ai tanti analfabeti che incontriamo, gli extracomunitari che qualcuno deride per il loro zoppicante linguaggio parlato. So che molti di loro nel loro paese hanno studiato, molti sono diplomati e , qui, ora si ritrovano analfabeti. Deve essere straniante, doloroso e insano. Analfabeti, non ci si potrà mai confrontare, tantomeno assimilare.
Narda Fattori
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alexander grishkevich
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L’analfabeta è un racconto autobiografico, creato per una rivista di Zurigo. Kristof, nata in Ungheria nel ’35 , fuggita dal suo paese nel ’56, nella biografia racconta di sé, della sua vita strappata dalle origini, del rapporto mai facile con la scrittura, fin da subito si può dire, cioè da quando, a quattro anni, leggeva tutto ciò che le capitava a tiro. Raccontando i suoi esordi afferma che furono i compagni di scuola ad ascoltare i suoi racconti e ad attribuirle i primi successi. Questo comporta scrivere in modo tale che il testo venga detto, venga conosciuto attraverso uno scambio orale e non una lettura personale e questo porta la scrittrice, ormai già trasferitasi in Svizzera, a mantenere dei ritmi di scrittura proprio in funzione dell’oralità della loro trasmissione, riducendo ad uno spazio minimo gli iterventi di un possibile narratore, e spogliando al massimo ogni commento ai fatti o ai pensieri presenti nel testo. Come se la parola fosse il ponte tra l’autrice e il lettore che si incontrano e si parlano, o meglio lei dice e l’altro ascolta una riflessione che, in questo testo specifico, è sull’arte di scrivere, i moventi che hanno portato l’autrice ad amare la scrittura ma anche a riapprendere linguaggio e parola all’interno di una vita diversa, nuova, se pur una persona profuga per cui ogni segmento di storia che si fa capitolo è il cammino forzoso di una integrazione non sempre accettata poiché dentro vi sono parti vitali della propria storia, non solo squarci e prospettive su temi letterari, ma duri diversificati scontri incontri con fatti che sono diventati temi cari alla sua scrittura e si sono trasformati in letteratura. La frontiera e l’infanzia, la memoria e l’appartenenza come elementi che sempre si toccano e si ragguagliano facendo i conti sempre con la lingua, anch’essa elemento di frontiera e limite da superare o da vivere, da trasformare in segno e comunicazione, da costruire come veicolo di trasporto di sé e in sé. L’aver lasciato prestissimo, a nove anni , il proprio paese ed esserrsi ritrovata in una città di frontiera, dove un nodo di persone differenti e soldati presenti come occupanti la sua terra, mescolano i propri dialetti non deve essere stata una situazione facile, come non facile lo studio del russo, come seconda lingua obbligatoria a scuola, spiegata da professori che non lo conoscono e a cui viene imposto lo studio entro termini di tempo brevissimi. Per eliminare il russo si usa il tedesco, il francese, anche se ridotto all’osso, stringato ed elementare se non crudele per l’assenza di concessioni poetiche, con cui l’autrice evidenzia una violenza culturale acuminata, appuntita e rigida contro paesi che vengono ritenuti di nessuna importanza.
La battaglia con un alfabeto oscuro è però solo l’inizio, perché dopo la fuga in Austria, e da lì in Svizzera, sceglie di scrivere in francese. Solo – lei dice – per poter essere letta. Ed è un’altra lingua nemica, del tutto sconosciuta, contro la quale inizia “una lotta accanita e lunga, che di certo durerà per tutta la mia vita. Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco“. Non sono rari gli scrittori che scelgono di articolare pensieri e affetti in un diverso idioma, per recuperare parti di sé o sfuggire al dolore imponendo un filtro emotivo ai ricordi. Nel caso dell’emigrazione forzata, l’esiliato è costretto ad appropriarsi di un altro mondo linguistico, e la nostalgia finisce per coagularsi intorno alla lingua perduta dell’infanzia, lingua dimenticata, proibita, salvata. Pensiamo al russo di Nabokov, le cui vocali a forma di arancia niente hanno a che vedere con quelle inglesi simili a limoni, come diceva ai suoi studenti; al tedesco “incantato” nei sussurri dei genitori che Canetti scelse quale lingua di scrittura; all’inglese del rifugiato ebreo Fred Uhlman, che affida al suo personaggio più noto, protagonista di L’amico ritrovato, il bisogno di tagliare via un passato drammatico, fino a rinnegare la lingua madre; al francese atipico dell’argentino Bianciotti, veicolo di recupero di antichi familiari suoni piemontesi.
L’apprendistato linguistico di Kristof risulta lento e faticoso, frastagliato, passa per un lavoro in fabbrica che offre conforto materiale e non facilita il contatto umano; soprattutto, distrugge la speranza di aver partecipato a qualcosa di importante, di aver ripreso in mano la propria vita. Dopo cinque anni parla francese, e ancora non lo sa leggere: “non so come ho potuto vivere senza la lettura per cinque anni”. Imparerà con la figlia che intanto va a scuola, e seguendo corsi per stranieri. Ma il paese ospitale che ha offerto rifugio e protezione, accolto i profughi con cioccolato e frutta coccolandoli come in un “giardino zoologico”, diventa un deserto sociale e culturale da attraversare per giungere a quella “che chiamano l’integrazione, l’assimilazione”. Molti soccombono. Lei, tornata “analfabeta” come recita il titolo, riapprende la vita in una lingua “nemica”, diversa, pesante, povera di ritmo e di vocabolario, imposta dal caso e dalla necessità, ricusata senza appello perché “sta uccidendo la mia lingua materna”. Nel suo lavoro di tessitura associativa, Kristof sostiene che il francese distrugge anche la memoria, i suoni dell’infanzia e gli eventi precedenti la fuga dall’Ungheria. Diventa lo spartiacque fra il prima e il dopo, fra la realtà e il sogno, “come se la mia memoria rifiutasse di ricordare il momento in cui ho perso una parte importante della mia vita”.
La trasmigrazione linguistica sembra la radice remota del senso di estraneità che pervade una scrittura precoce, conseguenza del talento affabulatorio infantile, e fin da subito cifra della rottura, compagna dei “giorni cattivi” e degli anni “non amati”. Quando, separata dai genitori, entra in collegio in una città sconosciuta, scrivere sarà l’unica soluzione per sopportare il dolore del distacco, il senso di abbandono e la perdita della libertà, resi più acuti dalla noia delle ore di silenzio obbligato. Finiti rapidamente i compiti, Agota scrive un diario, inventando un codice privato in cui ricostruisce il suo mondo. “Ho lasciato in Ungheria il mio diario della scrittura segreta, e anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno di fine novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo”.
Sul filo degli anni, Kristof ha registrato questa mancanza e l’impotenza che ne deriva nei testi brevi, fulminei e fulminanti appena pubblicati in Francia da Seuil (C’est égal, 2005) e già tradotti in italiano con il titolo della storia che l’autrice dice di sentire più vicina, La vendetta (Einaudi, 2005). È di nuovo un recupero di scritti del passato, slegati tra loro e non autobiografici, se non per la consapevolezza, amarissima, che “forse fuori c’è una vita, ma in questa vita non succede niente. Almeno per me. Per gli altri può darsi che qualcosa succeda, possibile, ma non m’interessa più” (Penso). Ma tutti sono clandestini della vita, l’estraneità al mondo è quasi un mestiere: il venditore non vende, il ladro non ruba, lo scrittore non scrive. L’uomo che trascorre il tempo in attesa di una lettera che gli riveli le sue origini non riesce ad affrontare la realtà quando la riceve; l’altro, che passa le giornate vicino al telefono sperando di essere chiamato anche solo per errore, finisce per sottrarsi al desiderato incontro con una donna sconosciuta.
In quelle pagine degli anni settanta la piccola Agota che abbandona la città natale rivive nel bambino in lacrime di fronte al trasloco dei vicini, perché “lasciare una casa per un’altra è triste come se avessero ucciso qualcuno” (La casa). E infatti la vecchia casa diventa il suo interlocutore quando a sua volta gli tocca partire. Torna spesso a trovarla per chiederle se soffre quanto lui e, diventato ricco, ne fa costruire una esattamente uguale, con la veranda e la vigna che si arrampica sui muri. Ma la nuova casa del bambino cresciuto, così come la nuova lingua della scrittrice ritrovata, non rimargina la ferita, e l’uomo se ne va senza dire nulla a nessuno, altrove, in un’esistenza di aerei, navi, treni e alberghi. “Sarà in questa o in un’altra vita? Tornerò a casa, una casa che non ho mai avuto, o troppo lontana perché me ne ricordi, perché non era, non è amai stata veramente casa mia” (Casa mia).
Se in L’analfabeta il tormento che anima il processo creativo si stempera un poco attraverso la scrittura, risorsa ultima cui attingere per ricostruire, qui non rimane che l’osservazione impotente: “qualcuno canta qualche cosa. Fa lo stesso, non è nemmeno bello, è una canzone triste, antica” (Fa lo stesso). La canzone triste e antica che rende alla fine tutto uguale è il fil rouge che lega L’analfabeta all’ultimo racconto (Mio padre), il più autobiografico nel senso letterale del termine. Kristof vi narra il ritorno nella nazione d’origine per il funerale del padre. Trentasei ore di treno e ventiquattro di sosta nel passato di un luogo praticamente sconosciuto, col pensiero remoto di rubare l’urna per interrarla nel paese natale, sulla riva del fiume, nella terra nera. E la subitanea tragica presa di coscienza che quel posto non lo conosce, perché da nessuna parte suo padre ha passeggiato con lei tenendola per mano.
L’Indice
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Agota Kristof. L’analfabeta- Casagrande Editore
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Intervista ad Agota Kristof: http://www.einaudi.it/speciali/Intervista-ad-Agota-Kristof
Complimenti per la recensione. Della Kristof ho letto “Trilogia della città di K.” e “La vendetta”. Metto in lista anche “L’analfabeta”. Ciao :)
letto da qualche mese, l’ho trovato utilissimo per comprendere meglio la costruzione degli altri. Da leggere anche Ieri, edizioni gli struzzi di einaudi.
fa molto pensare questo scritto e la recensione di Narda. Interessanti, spunti per capire meglio se stessi e gli altri. Non conoscevo questa scrittrice. Grazie
Grazie per queste presentazioni di autori poco noti in Italia, grazie per le relative sempre acute e accurate recensioni, grazie per la cultura iconica che in questo luogo Fernirosso ci elargisce col suo notevole buon gusto.
lucetta f.