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«L’uomo gioca soltanto se è uomo nel pieno significato della parola ed è completamente uomo soltanto se gioca» – scriveva Friedrich Schiller nelle Lettere sull’educazione estetica dell’umanità. Due secoli più tardi, nella Berlino guglielmina di fine Ottocento, Walter Benjamin sedeva al proprio scrittoio dove non solo leggeva e usava l’alfabetario, ma giocava, ritagliava figurine e collezionava oggetti: sono queste alcune delle attività ludiche, descritte nei testi di Walter Benjamin, Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario (Raffaello Cortina, pp. 384). Curato da Francesco Cappa e Martino Negri, che firmano l’intensa introduzione al volume e due ottime letture di matrice pedagogica dell’opera di Benjamin, il libro si confronta con sei costellazioni concettuali: bambini, libri, lettura, giocattoli, teatri e educazione. Sono questi i temi dell’infanzia benjaminiana attorno ai quali si snodano i capitoli del volume, che nella traduzione di Isabella Amaduzzi accoglie testi capaci di rendere perspicua la valenza estetica e pedagogica del gioco nel percorso intellettuale del filosofo. Nel libro, la prosa sempre iconicamente satura e rapsodica dell’Infanzia berlinese intorno al millenovecento è, infatti, messa in dialogo con le recensioni e gli articoli scritti da Benjamin per i quotidiani tedeschi degli anni venti: con passi tratti da Strada a senso unico e Immagini di città, ma pure con estratti dal monumentale e incompiuto torso del Passagen-Werk, apparso in italiano con il titolo I «Passages» di Parigi. Basterebbe, d’altronde, ricordare i titoli di queste opere per sottolineare il significato dell’infanzia, delle grandi città europee e delle immagini nella riflessione benjaminiana attorno alla modernità. Anche perciò, Figure dell’infanzia traccia un affascinante percorso in una possibile pedagogia del filosofo tedesco, dispiegata in immagini e parole; mai esplicitamente formulata, essa si lascerebbe ricostruire attraverso le raffigurazioni del bambino e delle sue attività presenti nella produzione di Benjamin. Prende così il via un avvincente viaggio, che coinvolge un intero immaginario poetico, dei cui fondamenti ci si può avvale per sviluppare una vera e propria «archeologia dell’infanzia»: un itinerario estetico e pedagogico nei resti e nei frammenti del passato grazie al quale si matura «l’impressione complessiva che la storia non sia puramente edificante, ma prevalentemente malinconica», come Benjamin del resto sostiene nelle Tesi di filosofia della storia. Sgomberato il campo da una concezione romantica del bambino, l’infanzia di cui parla l’autore non è uno stato concluso di presunta grazia o felicità, ma costituisce un momento inesausto e carico di presentimento nella vita di ciascun individuo. Attraverso il ricordo, l’infanzia relegata nel passato può essere dialetticamente recuperata e rivivificata in una figura e ciò avviene in quel momento di illuminazione che Benjamin definisce «tempo-ora». Grazie a una estetica fondata sugli oggetti dell’infanzia, la pratica dialettica del gioco riesce a cristallizzare in una figura le esperienze vissute e accumulate, i luoghi e le emozioni che appartengono ormai solo al passato. La «figura» rappresenta perciò una totalità che non si lascia mai cogliere appieno, perché è scissa in immagini frammentarie dalla memoria di chi ricorda. Ci si deve, quindi, accontentare di lacerti di memoria evocati dagli oggetti per ricostruire la figura dell’infanzia, confidando nel fatto che «nell’analisi del piccolo momento singolo» è «possibile ricostruire il cristallo dell’accadere totale», come si legge negli Elementi di teoria della conoscenza, teoria del progresso del Passagen-Werk. Dagli scritti raccolti nel volume emerge, perciò, un quadro di immagini dell’infanzia, che si regge su una convinzione espressa ancora nel Passagen-Werk: «immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità». Nella trasposizione dalla fissità delle immagini alla fluidità della lingua, l’infanzia rappresenta per Benjamin una fase di transizione nella vita umana, un momento di risveglio, un’allegoria fra due mondi ontologici e cronologici. Da ciò discende la magia dell’infanzia e dei suoi oggetti, che a loro volta diventano tramite verso un mondo altro che ancora non si è realizzato. Gli scritti raccolti in Figure dell’infanzia lasciano, così, cogliere una prospettiva messianica, perché nelle immagini dialettiche dell’infanzia, evocate e trascritte da Benjamin, «il pensiero si arresta di colpo in una costellazione carica di tensione» e «si cristallizza in una monade», come si legge nelle Tesi di filosofia della storia. Anche per questo motivo, l’infanzia si è prestata con particolare efficacia alla riflessione di Benjamin che, da vero materialista storico, l’ha affrontata come una monade, appunto, in cui è possibile «riconosce il segno di un arresto messianico dell’accadere». La pedagogia latente di Benjamin ricostruita nel volume mira a un’educazione etica ed estetica dell’individuo, mentre rievoca un’intera tradizione di testi e immagini per l’infanzia della storia tedesca. Accanto agli oggetti e ai giocattoli, i libri illustrati per l’infanzia, spesso salvati dall’oblio dall’acribia feticista dei collezionisti, svolgono, infatti, un ruolo di prim’ordine nella pedagogia dell’autore. Il Bilderbuch für Kinder (1792-1847) di Friedrich Justin Bertuch e gli Alte vergessene Kinderbücher di Karl Hobrecker (1924) si impongono, ad esempio, all’attenzione di Benjamin in quanto «enciclopedie magiche» del passato, il cui valore pedagogico si proietta nel futuro grazie alla «amorosa immersione esegetica» dell’autore nel mondo dei libri per bambini: così Gershom Scholem definì la passione dell’amico per l’infanzia. Le riproduzione di alcune pagine del Bilderbuch e di altri libri per bambini in Figure dell’infanzia si rivela, quindi, funzionale a illustrare il significato della sinergia fra parola e immagine, quella sinergia che più tardi avrebbe sostanziato la prospettiva malinconica e messianica dalla quale Benjamin studiò l’Orbis pictus attorno a sé. In questo contesto, il gioco del collezionista imparato da bambino mise Benjamin in grado, da un lato, di osservare dalla prospettiva messianica dell’ebraismo la tradizione tedesca e, dall’altro, di recuperarne e montarne le immagini in un collage dal valore etico e estetico. Sospesa fra presentimento e prefigurazione, l’infanzia costituisce, infatti, il momento ideale dell’evoluzione individuale dalla cui prospettiva osservare con disincanto, anche in età adulta, la realtà e aprirsi ingenuamente all’immaginazione. Così, nel testo intitolato Cantiere di Figure dell’infanzia, Benjamin definisce folle l’idea di realizzare giocattoli adatti ai bambini, difendendo al contrario la loro approssimazione intuitiva e ingenua alla realtà e al gioco stesso. Alludendo alla propria futura attività di collezionista e collagista che tecnicamente sarebbe stata influenzata dall’evoluzione del cinema, Benjamin pone perciò qui al centro della propria riflessione pedagogica un fondamento della sua più adulta teoria gnoseologica, secondo la quale i bambini mettono «vari materiali in un rapporto reciproco, nuovo e discontinuo, che viene loro giocando. I bambini, in questo modo, si costruiscono il proprio mondo oggettuale da sé, un piccolo mondo dentro a quello grande».
Raul Calzoni
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Riferimento:
Alias – 9.12.12
Personalmente ritengo, seguendo Schiller e le riflessioni che C. G. Jung ha fatto sulla frase citata all’inizio dell’articolo, che il “gioco” non riguardi, o non dovrebbe riguardare soltanto l’infanzia, ma appartenere all’esistenza dell’uomo in quanto tale: il gioco come possibilità di mantenere una tensione tra realtà e fantasia, tra bisogno di sapere e consapevolezza di non sapere, tra immagini di sé consolidate e i risvolti più oscuri che ci spiazzano, ecc., in una parola un gioco continuo, un confronto, tra coscienza e inconscio che impedisca di rimanere “ingenuamente” ancorati e “adesivamente” aggrappati a quel poco che riusciamo a mettere in luce come fosse “la” verità.
personalmente parto dal “presupposto” che la presunta realtà sia fantasia, o meglio essendo frutto di un pensiero ipotetico, non può dirsi reale o meglio non può dirsi l’unica realtà, ma una tra le molteplici nel polimorfismo della percezione e ricostruzione=creazione del mondo. Infanzia è lo stato in cui noi tutti viviamo, inconsapevoli di ciò che sia il luogo, su cui comunque costruiamo i nostri apparati ludici, in cui viviamo e che non è solo attorno ma contemporaneamente in noi, annidato e composito, composto da immanenza e contingenza mai come limiti, ostacoli se non per scelta, quella che ci definisce adulti e dunque stanziali alla periferia del reale progresso a cui un infante è disposto, mettendo tutto se tsesso in gioco come parte dell’intero sistema da cui non si sente escluso:lui è tempo spazio gioco nello stesso gesto del ludere. Se noi avessimo tale consapevolezza sempre forse riusciremmo a percorrere più universo di quanto non si riesca a fare oggi dopo 200000 anni che siamo, in qualche modo, in scena.fernanda f.
Mi inviti a nozze, Fernanda, rendendo più esplicito e chiaro ciò che intendevo. Abitualmente parlo di “cosiddetta realtà”, ma non sempre trovo risposta. Grazie.
luciana