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«La scelta del “capriccio”, libero sfogo fantastico in bilico tra arcano e grottesco, tra realtà illusorie e presenze inquietanti, lega fra loro alcuni liberi spiriti delle arti europee tra Sette e Novecento.»
È questo il tema di un articolo, a firma Beatrice Ferrario, pubblicato nel numero 293 di Artedossier dello scorso mese di Novembre che, con le citazioni iniziali da “Il rosa Tiepolo” di Roberto Calasso, risulta letterariamente delizioso.
Ho preferenze, ma non ho pregiudizi di genere artistico, i valori di contenuto e di significato possono essere espressi nelle forme più disparate ed è certo che è possibile stabilite e riconoscere affinità espressive anche in opere distanti nel tempo e nel linguaggio, infatti, nell’articolo in questione il problema non è se e quanto il parallelismo di Tiepolo, Piranesi e Goya con Emilio Vedova sia appropriato e coerente.
Quel che mi preme evidenziare è che mentre per Tiepolo, Piranesi e Goya il comune interesse tematico è diretto e concreto, nel senso che tutti hanno effettivamente realizzato almeno una serie di incisioni che sviluppano il tema del “Capriccio” e le immagini portate ad esempio sono appunto incisioni, nel caso di Vedova l’analogia è, per così dire, indiretta o virtuale nel senso che il riferimento non è un ciclo o un’opera ma un’interpretazione critica, nello specifico il saggio di Aurora Garcia intitolato “Sogno e Veglia” contenuto nel volume di Germano Celant “Emilio Vedova… in continuum” (Milano 2011).
Aurora Garcia legge nell’opera di vedova “le polarità indistinguibili” “del Tiepolo” e “del Piranesi” e nell’articolo della rivista si riporta la seguente citazione: «impregnamento e compenetrazione della pittura nelle tele direttamente attraverso le mani dell’artista, mediante un procedimento vicino alla tecnica grafica; ma qui è l’uomo che, fisicamente, sostituisce il torchio.»
La metafora del corpo-torchio e suggestiva, ma considerato l’argomento dell’articolo, sopratutto in riferimento alla particolare tecnica espressiva, ci si poteva anche ricordare che la grafica costituisce un ambito non secondario del corpus artistico di Emilio Vedova con numerose incisioni e litografie, invece nulla, non un cenno non un’immagine (l’unica foto riprodotta ritrae Vedova in tenuta da lavoro davanti a un dipinto).
Insomma l’articolo è un esempio dell’atteggiamento, più volte stigmatizzato, di non attribuire valore all’opera incisoria anche dei più noti e affermati artisti: un esempio delle “miopi dimenticanze” alle quali si fa riferimento nel post Pro Memoria.
Vedova iniziò a praticare l’incisione fin dai primissimi anni sessanta instaurando un parallelo poetico con i grandi clicli pittorici (Immagini del tempo; Cicli della protestq; Scontri di situazione…) ma “giocato sui differenti formati e sulla diversa sintassi linguistica dei mezzi espressivi adottati” (la citazione è tratta da un testo di Roberto Budassi, sul rapporto tra Vedova e l’incisione, nel numero 3 del 2005 di “Prova d’Artista”, il periodico pubblicato da Corrado Albicocco che è stato anche stampatore ed editore di Vedova) ed è stato tra i pochi affemati maestri a considerare la grafica non un surrogato della pittura da demandare alle capacità imitative e riproduttive di abili “negri”.
La predilezione di Vedova per il bianco e nero lo porta a ritenere naturalmente congeniale la stampa calcografica e litografica a un solo colore. Le lastre o le pietre sono personalmente e direttamente realizzate da Emilio Vedova e forse non poteve essere diversamente data la gestualità del segno che mantiene il senso di immediatezza anche in tecniche per loro natura indirette, probabimente anche grazie agli stampatori che lo hanno affiancato il cui lavoro non verrà mai abbastanza riconosciuto.
È tutta questa complessità operatività e di relazione che renderebbe legittimo accostare vedova ai sommi maestri dell’incisione, invece si ignora o volutamente si finge di ignorare la produzione contemporanea in campo incisorio.
Basta così poco ad alimentare il “Complesso di Cenerentola” relegando l’incisione al ruolo di arte “minore”, priva di considerazione.
Poi nello stesso numero della rivista, poche pagine più avanti, la rubrica “in tendenza”, che analizza gli andamenti di mercato, si occupa proprio di Vedova (solo dei dipinti ovviamente).
È solo una fortuita coincidenza o c’entra qualcosa?
Mah! …Commenterebbe un anonimo lettore di questo blog.
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Celebra Vedova, Venezia!
“Da anni, Vedova va raccogliendo eventi ed indizi, sapendo che, quando si cammina sul filo del rasoio un istante di minor tensione basta a rovinare tutto. La sua pittura s’inoltra nella dimensione del terrore, dove le grandi idee dell’umanità diventano lampi di luce e vortici di tenebra.” Quella energica e violenta tensione gestuale e narrativa -così ben focalizzata da Argan- che si muove sul bilico degli opposti tra luce e ombra, segno e spazio, astrazione e forma, ha permeato l’intero percorso di Emilio Vedova (Venezia, 1919 – 2006). L’artista che dipingeva l’anima della sua malinconica città e che si è profuso per mantenerla al centro del dibattito internazionale. Che ha influenzato generazioni di studenti dell’Accademia di Belle Arti e che rispecchia i conflitti e le inquietudini dell’artista contemporaneo è ora ricordato, dalla città lagunare, attraverso due importanti mostre: Omaggio a Vedova, allestita al Padiglione Venezia –a carattere di memoria, in attesa delle retrospettive che si terranno rispettivamente a Roma (ottobre 2007) e a Berlino (2008)- e la personale, concordata prima della sua scomparsa, all’isola di Sant’Erasmo. Location immersa in un’atmosfera sospesa e silenziosa dove si erge la restaurata Torre Massimiliana, ottocentesca fortificazione austriaca, che ospita un’accurata e ben allestita selezione d’opere, alcune delle quali ancora inedite, appartenenti ai suoi celebri cicli.
Dai Plurimi/Binari ai Frammenti/Schegge, dagli Arbitri ai Cosiddetti Carnevali. Introducono l’esposizione al piano terreno due grandi lastre in zinco incise, dove è facile leggere l’influenza del disegno settecentesco veneziano e la drammaticità inquietudine delle incisioni di Piranesi, seguite da cinque Arbitri (1977/1979), tecniche miste e fotocollage su carta e cartone. Da Tortura ad Assoluto, gli Arbitri sono frammenti spettrali, intrisi di dolore, evidenziati dai volti straziati e deformi che emergono dall’oscurità più profonda. Il pescatore, collage a colori del ‘46, precede invece la sala dove un montaggio video abbraccia l’arco temporale tra il ‘53 e il 2004 e approfondisce il proficuo sodalizio con Luigi Nono che tra le altre cose portò alla messa in opera di Intolleranza ’60 e Prometeo. Era la fine degli anni Cinquanta quando Vedova avvia una nuova ricerca pittorica che lo induce ad abbandonare la superficie del quadro e limitare il colore ai grigi, bianchi e neri per approdare ai Plurimi/Binari, sei dei quali inediti, provenienti dal ciclo Lacerazione ‘77-’78, sono allestiti nelle sale del primo piano. Dall’esigenza di oltrepassare la forma nascono superfici polimateriche articolate ed estensibili attraverso binari. Alfabeti postmoderni apparentemente derivanti dall’action painting sono invece orientati verso l’espressionismo astratto di Franz Kline ma non escludono la derivazione dinamico-futurista, data dalle strutture tridimensionali che permettono alla pittura di fuoriuscire dallo spazio precostituito ed invadere l’ambiente. “Aperture di mondi spirituali metafisici nei vecchi trittici attraverso cerniere che si snodano in multiple alternative muovono un mondo di scontro in questo correre-scorrere da complesse traversate stratificazioni”, si legge dagli appunti dell’artista.
Su ritagli di legno asimmetrici si stagliano anonime maschere e materiali di scarto a concretizzare l’essenza veneziana e al contempo riflettere la condizione esistenziale della società contemporanea. Sono gli assemblaggi dadaisti, i Cosiddetti Carnevali dove il nero s’ispessisce per scarnificare violentemente il bianco. Come apparizioni stranianti si presentano invece i fotogrammi che compongono i Frammenti/Schegge e introducono Il grande Tondo (Golfo, Mappa di Guerra), del 1991. L’opera appartiene alla serie di installazioni realizzate durante la guerra del Golfo, work in progress dove l’artista ha continuato a trasformare e correggere stratificazioni di materia che inglobano frammenti cartacei e fil di ferro aggrovigliati sullo sfondo di un’intensa poesia visiva. L’ambivalenza, il senso di contraddizione e conflitto sono alla base della poetica di questo grande artista visceralmente veneziano ma anche estremamente aperto al nuovo ed alla sperimentazione, incapace di placare ribellione e protesta ma non di evocare la poesia della sua città. Raccogliendone i detriti, evidenziandone la nebbia, gli specchi d’acqua e gli spazi infiniti. “Relitti della laguna affiorano in tutte le sue opere, non solo in quelle dove proprio pezzi di corda, legni di barca, stracci di vela sono materialmente presenti”, scrive Cacciari nella presentazione in catalogo, “è densa acqua della laguna anche il suo colore, nei momenti di più dolorosa malinconia.” (roberta vanali – exibart – pubblicato sullo speciale Biennale n.41)
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Emilio Vedova è uno dei maggiori esponenti della pittura informale italiana. Così afferma da pittore: “Le mie opere non sono creazioni, ma terremoti. Non sono pitture, ma soffi”. Nato a Venezia nel 09/08/1919, da una famiglia di artigiani-operai, inizia a lavorare intensamente da autodidatta fin dagli anni trenta: figure e architetture. Influenzato dall’impressionismo durante il suo apprendistato di pittura, nel 1942 Emilio Vedova entra a far parte del gruppo di “Corrente” (Guttuso, Birolli, Lanaro ecc).
Antifascista, dopo l’8 settembre 1943 Emilio Vedova partecipa alla Guerra di liberazione nelle file della Resistenza romana. Successivamente milita, col nome di battaglia di “Barabba” probabilmente scelto per la folta barba che ne avrebbe contraddistinto il volto per tutta la vita, in una formazione partigiana molto attiva sull’altipiano bellunese. Nel corso di un rastrellamento “Barabba” è ferito ma riesce fortunosamente a evitare di essere catturato dai nazifascisti.
Nel 1946, a Milano, Vedova è tra i firmatari del manifesto “Oltre Guernica”. Nello stesso anno a Venezia è tra i fondatori di “Nuova Secessione Artistica Italiana”, pubblicando il manifesto redatto da Marchiori assieme a Renato Birolli, Ennio Morlotti, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Alberto Viani, Bruno Cassinari, Renato Guttuso, Leoncillo e Carlo Levi. Successivamente, su sollecitazione di Guttuso, il gruppo adotta la denominazione di “Fronte Nuovo delle Arti” con altri artisti che vi partecipano quali Consagra, Corpora, Afro Basaldella, Turcato per esempio.
Nel 1948 Emilio Vedova partecipa alla sua prima Biennale di Venezia, manifestazione che lo vedrà spesso protagonista come nel 1952 in cui gli viene dedicata una sala personale, nel 1960 in cui riceve il Gran Premio per la pittura e nel 1997 dove riceve il prestigioso Leone d’Oro alla carriera.
All’inizio degli anni cinquanta realizza i suoi celebri cicli di opere: “Scontro di situazioni”, “Ciclo della Protesta”, “Cicli della Natura”. Nel 1952, Vedova diventa un membro influente del “Gruppo degli Otto” insieme a Afro Basaldella, Birolli, Corpora, Santomaso, Morlotti, Moreni e Turcato. Nel 1954, alla II Biennale di San Paolo, vince un premio che gli permetterà di trascorrere tre mesi in Brasile la cui estrema e difficile realtà lo colpirà profondamente.
Nel 1961 realizza al Teatro La Fenice le scenografie e i costumi per “Intolleranza ‘60” di Luigi Nono con il quale collaborerà anche nel 1984 al “Prometeo”.
Dal 1961 lavora ai “Plurimi”, prima quelli veneziani e poi quelli berlinesi realizzati a Berlino tra il 1963 e il 1964 tra cui i sette dell’“Absurdes Berliner Tagebuch ‘64” presenti alla Documenta di Kassel nel 1964 dove ha esposto anche nel 1955 nel 1959 e poi nel 1982. Dal 1965 al1967 lavora allo “Spazio/Plurimo/Luce” per l’Expo di Montreal.
Intensa è anche l’attività didattica nelle Università americane, alla Sommerakademie di Salisburgo e all’Accademia di Venezia. La sua carriera artistica è caratterizzata da una costante volontà di ricerca e forza innovatrice.
Negli anni settanta realizza i “Plurimi Binari” dei cicli “Lacerazione” e i “Carnevali” e negli anni ottanta i grandi cicli di “teleri” fino ai “Dischi”, “Tondi”, “Oltre” e “…in continuum…”. Negli anni ’89-90 lavora ai Monotipi. Riceve numerosi e prestigiosi premi e riconoscimenti. Nel 1998 la grande antologica al Castello di Rivoli.
Emilio Vedova muore il 25 ottobre 2006 a neanche un mese dal decesso della moglie Annabianca.
Nell’anno 2007 si tengono mostre prestigiose: “Ricordando Vedova” presso la Galleria Poli Art di Milano, “Emilio Vedova” presso Sant’Erasmo Torre Massimiliana di Venezia, “Vedova. Monotypes” Fondazione Peggy Guggenheim di Venezia e infine la mostra “Emilio Vedova 1919-2006” presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Sempre nel 2007 la presenza alla 52. edizione della Biennale di Venezia con “Omaggio a Emilio Vedova. Dialogo con Georg Baselitz” nel Padiglione Venezia.
Nel 2008 “Emilio Vedova 1919-2006” presso la Berlinische Galeerie Landesmuseum für Moderne Kunst, Fotografie und Architektur di Berlino.
Nel 2009 La Fondazione Emilio e Annabianca Vedova apre al pubblico due spazi che hanno segnato l’agire artistico del Maestro: uno dei Magazzini del sale e lo studio.
Uno dei nove Magazzini, il primo a sinistra per chi guarda dal Canale della Giudecca, grazie ad una convenzione stipulata tra il Comune di Venezia è lo spazio destinato ad accogliere le opere di Emilio Vedova. La vita del Maestro si intreccia in più occasioni con i Magazzini: tra la fine degli anni ‟60 e i primi anni ‟70 utilizzerà temporaneamente il quarto modulo dei Magazzini come suo studio-laboratorio.
Invece lo Studio di Vedova a Dorsoduro 51, proprio sui bordi delle sue amate Zattere alla Salute, è stato l’ultimo grande atelier dove Emilio ha lavorato a partire dalla prima metà degli anni Settanta. Dopo lo studio nella Chiesa di San Gregorio, dopo quello ai Magazzini del Sale, che lasciò dopo averli salvati dalla demolizione, ecco un ex squero del ‘500 dalle pareti sghembe e ondulate illuminato da ampi e luminosi lucernari, un lungo spazio leggermente curvo ritmato da alte e fitte capriate.
Nel 2012 dal 30/06 al 25/11 la mostra “Emilio Vedova. Lacerazione. Plurimi/Binari ’77/’78” a cura di Fabrizio Gazzarri. Presenta per la prima volta insieme 3 cicli Lacerazione completi (II, III e il IV, inedito) e alcuni Plurimi/Binari singoli. I cicli sono installati nello Spazio Vedova, un tempo studio dell’artista, esattamente dove nacquero tanti anni fa.
Colori squillanti. Forse proprio per questo, partendo da Kandinsky e Schömberg, s’è sempre parlato dell’uso sonoro del colore, dovuto anche alla sua frequentazione con Luigi Nono. E proprio al musicista veneziano aveva dedicato i suoi ultimi tre lavori grafici, riuniti in un libro d’arte, Al gran sole carico d’amore, da Egidio Fiorin, per le edizioni Colophon, nel luglio scorso. Vedova e Nono si erano incontrati nel 1942. Poi, nel ’60, il compositore aveva dedicato un’opera all’amico. Nono amava la gamma cromatica di Vedova perché vi trovava un’analogia con l’improvvisazione e la sonorità della musica dodecafonica. Colori guizzanti, lampeggianti, si diceva.
Sebastiano Grasso nel Corriere della sera del 26 ottobre 2006 scrive: “L’artista liberava il furore che aveva dentro di sé, con gesti repentini che diventavano forme astratte. E che lasciavano anche perplessi se recitate con una punta di stramberia. Ricordo, agli inizi degli anni Settanta, una sua performance al castello di Pavia, in occasione d’una mostra a favore dei fuorusciti spagnoli. C’ero andato con Rafael Alberti, di cui Vedova era amicissimo. Dopo i soliti discorsi di circostanza, era intervenuto Vedova. Aveva biascicato qualcosa, commuovendosi platealmente. D’un tratto aveva cominciato a tempestare di pugni un suo grande quadro. Gli astanti lo guardavano tra stupore e divertimento. Ma quella di Emilio era una maniera di esprimere la sua collera contro il franchismo. Teatrale? Certamente. Ma efficace.
La recita faceva parte del personaggio e c’era, in lui, in questo, un certo compiacimento. D’altronde egli stesso faceva di tutto per alimentare l’aneddotica che gli fioriva attorno. Un esempio? Qualche anno addietro, due ufficiali della Guardia di Finanza erano andati nel suo studio fingendosi interessati all’acquisto di alcuni dipinti. “Quanto costa, questo?”. “Due-tre milioni”, rispondeva la moglie Annabianca, che aveva capito chi erano i due. “Ma che dici, sei impazzita, per quel quadro ci vogliono cento milioni!”, urlava Emilio, dal fondo dello studio. La scena s’era ripetuta più volte, anche se la moglie aveva cercato di avvertirlo con gesti e gestacci. Finale? Un miliardo e 200 milioni di multa (ridotta, poi, a un miliardo). L’anno dopo, una seconda visita. Stavolta, Vedova aveva capito tutto e subito. Così, dopo essersi allontanato, s’era ripresentato nudo: “Così mi avete lasciato l’altra volta”, aveva detto agli agenti esterrefatti.
Furore, s’è detto. Ma il suo furore non ha conosciuto scuole o correnti. Vedova, a suo tempo, aveva rimesso in discussione il Futurismo e la sua partecipazione a Corrente, a Oltre Guernica, al Fronte nuovo delle arti, al Gruppo degli Otto, all’Action painting, all’Art brut, sino all’Informale coi quali aveva avuto sempre un rapporto di scambio, mai di subordine. In realtà, Vedova ha sempre agito come una forza della natura. L’artista veneziano, che di Venezia ormai era diventato un elemento del paesaggio come San Marco e l’isola di San Giorgio, viveva i suoi dipinti. Una pennellata era un colpo di nervi, un gesto bilioso e selvaggio. E del selvaggio aveva anche l’aspetto, l’istinto vigile. Natura e carattere si fondevano, diventavano ritmo. Angoscia e lirismo, lucidità e pazzia. Di un finto pazzo, però, che in realtà era un genio”.
Eugenio Da Venezia
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Vedova/Piano: l’opera nell’opera- La Fondazione Emilio e Annabianca Vedova.
Non chiamatelo “museo”. Non dategli una definizione. Nessuna suonerebbe appropriata per questo luogo dell’arte contemporanea immaginato dal pittore Emilio Vedova già nelle sue conversazioni degli anni ’80 con l’amico architetto Renzo Piano.
Un’esperienza totalmente innovativa da vivere nel suggestivo ed affascinante spazio del primo dei nove Magazzini del Sale delle Zattere, a Venezia, luogo caro all’artista, in cui visse e operò.
Un “contenitore in movimento” che ripercorre la circolarità e gli slanci propri del segno di Vedova, uno spazio in cui le opere diventano seducenti scenografie di sé stesse, esaltando spinte, tensioni ed invasioni spaziali attraverso il proprio insito dinamismo, che si ripercuotono come una eco fino all’esterno della propria superficie, nell’ampiezza dello spazio espositivo.
Un museo in movimento, in cui per la prima volta è l’arte a raggiungere lo spettatore, e non viceversa.
Renzo Piano, affiancato dall’architetto Alessandro Traldi e dall’ingegnere Massimo Milan, lascia inalterata la lunga navata trecentesca del Magazzino, con le sue imponenti capriate in legno e le sue pareti di mattoni ancora trasudanti di sale.
La pedana, leggermente inclinata, accentua la fuga prospettica verso l’alloggiamento delle opere, e nasconde gli impianti che utilizzano fonti di energia rinnovabile. Una sofisticata macchina leonardesca, ispirata al sistema di funi e carrucole con cui Vedova amava spostare i suoi enormi quadri, preleva con i suoi bracci mobili ed orientabili le gigantesche opere dall’archivio sul fondo della navata. Sospese nello spazio a differenti altezze, le opere la percorrono oscillando, avvicinandosi lentamente agli spettatori e disponendosi una per volta nello spazio, leggere nonostante la mole, come attrici silenziose sulla scena.
Gli spettatori a loro volta si avvicinano ad esse, immergendosi nell’arte di Vedova e nella sua stessa proiezione spaziale. Trenta opere circa, esposte a rotazione secondo tre differenti percorsi artistici, segnano il culmine espressivo di Vedova. Entrano in dialogo con lo spazio, creando tra loro una continuità formale in cui la stratificazione drammatica di colore e materia coinvolge lo spettatore, proiettandolo nell’intimo sentire dell’artista, fatto di luce e tenebra, gioia e dolore, in perenne conflitto con l’assurdo mondo.
Emilio Vedova al lavoro nel suo studio
Lo spazio espositivo è stato inaugurato in Giugno, in concomitanza con la 53a Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, proprio per sottolineare il forte legame tra l’artista e la Biennale.
Questo spazio è solo il primo degli interventi della Fondazione Vedova: poco distante, sempre alle Zattere, c’è lo studio dell’artista; presto verrà integrato al percorso della Fondazione come sala espositiva, non solo del pittore veneziano ma anche di artisti moderni e contemporanei da sempre in continua dialettica con l’opera di Emilio Vedova. La Fondazione ha inoltre lo scopo di istituire un Centro per il Restauro di opere dell’Arte Moderna e Contemporanea.
Info:
Fondazione Emilio e Annabianca Vedova
Dorsoduro 46
Venezia. T.: 041 5226626
www.fondazionevedova.org
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RIFERIMENTI IN RETE:
http://morsuraaperta.blogspot.it/2012/12/cenerentola-dellarte.html
http://robertavanali.blogspot.it/2007/07/da-anni-vedova-va-raccogliendo-eventi.html
http://www.eugeniodavenezia.eu/it/amici_pittori.php?id=6
http://arsvoix.blogspot.it/2009/11/vedovapiano-lopera-nellopera.html
Che meraviglia! Davanti all’arte sempre trovo nuova linfa e nuovo stupore.