Li Wentao
Venite, giapponesi!
Sulla nave eravamo quasi tutte vergini. Avevamo i capelli lunghi e neri e i piedi piatti e larghi, e non eravamo molto alte. Alcune
di noi erano cresciute solo a pappa di riso e avevano le gambe un po’ storte, e alcune di noi avevano appena quattordici anni ed erano ancora bambine. Alcune di noi venivano dalla città e portavano abiti cittadini all’ultima moda, ma molte di più venivano dalla campagna, e sulla nave portavano gli stessi vecchi kimono che avevano portato per anni – indumenti sbiaditi smessi dalle nostre sorelle, rammendati e tinti più volte. Alcune di noi venivano dalle montagne e non avevano mai visto il mare, tranne che in fotografia, e alcune di noi erano figlie di pescatori che conoscevano il mare da sempre. Forse il mare ci aveva portato via un fratello, un padre o un fidanzato, o forse un triste mattino una persona cara si era buttata in acqua e si era allontanata a nuoto, e adesso anche per noi era arrivato il momento di voltare pagina.
Sulla nave la prima cosa che facemmo – prima di decidere chi ci piaceva e chi no, prima di raccontarci a vicenda da quale isola venivamo e perché eravamo partite, e anche prima di impegnarci a imparare i nomi delle altre – fu confrontare le fotografie dei nostri mariti. Erano bei giovanotti con gli occhi scuri, i capelli folti e la pelle liscia e perfetta. Avevano il mento forte. Un bel portamento. Il naso dritto e pronunciato. Somigliavano ai nostri fratelli e padri rimasti a casa, però erano vestiti meglio, con redingote grigie ed eleganti, completi tre pezzi, all’occidentale. Alcuni di loro erano in posa sul marciapiede, davanti a case di legno dal tetto spiovente con lo steccato bianco e il praticello ben curato, e alcuni nel vialetto d’accesso, appoggiati a una Ford Model T. Alcuni sedevano su una sedia dall’alto schienale rigido nello studio del fotografo, le mani giunte con compostezza e lo sguardo fisso nell’obiettivo come se fossero pronti a sfidare il mondo. Tutti quanti avevano promesso di venire a prenderci a San Francisco, il giorno del nostro arrivo al porto. Sulla nave ci chiedevamo spesso: ci piaceranno? Li ameremo? Li riconosceremo dalle foto, quando li vedremo per la prima volta sul molo? Sulla nave dormivamo giù di sotto, in terza classe, al buio e in mezzo al sudiciume. I nostri letti erano brandine di metallo accatastate una sopra l’altra, con materassi duri, sottili e scuriti dalle macchie di altri viaggi, altre vite. I nostri cuscini erano imbottiti di pula di grano. I passaggi fra le cuccette erano disseminati di avanzi di cibo, e i pavimenti bagnati e scivolosi. C’era un solo oblò, e la sera, dopo la chiusura del boccaporto, il buio si riempiva di sussurri. Farà male? I corpi si giravano e rigiravano sotto le coperte. Il mare saliva e scendeva. L’aria era umida e soffocante. Di notte sognavamo i nostri mariti. Sognavamo sandali di legno nuovi e lunghissime pezze di seta color indaco, e sognavamo di vivere, un giorno, in una casa con il camino. Sognavamo di essere belle e alte.
Sognavamo di essere tornate nelle risaie, da dove avevamo voluto disperatamente fuggire. I sogni delle risaie erano sempre incubi. Sognavamo le nostre sorelle più grandi e carine, vendute alla casa delle geishe da nostro padre perché il resto della famiglia potesse sfamarsi, e ci svegliavamo con la sensazione di soffocare. Per un istante ho creduto di essere lei. Nei primi giorni sulla nave soffrivamo il mal di mare, e non riuscivamo a tenere giù niente, e dovevamo continuamente correre al parapetto. Alcune di noi erano talmente frastornate che non riuscivano nemmeno a camminare, e rimanevano sdraiate nella cuccetta in uno stato di torpore apatico, incapaci di ricordare il proprio nome e tanto meno quello del loro nuovo marito.
Ricordamelo un’altra volta, sono la signora…? Alcune di noi si stringevano il ventre e pregavano ad alta voce Kannon, la dea della misericordia – Dove sei? – mentre altre preferivano diventare verdi in silenzio. E spesso, nel cuore della notte, un’onda violenta ci svegliava di soprassalto e per un breve istante non riuscivamo a capire dove eravamo, perché i nostri letti continuavano a muoversi, perché il nostro cuore batteva dallo spavento. Terremoto, era il primo pensiero che ci veniva in mente di solito. Allora allungavamo la mano verso le nostre madri, che avevano dormito strette a noi fino al mattino della partenza. Stavano dormendo, adesso? Stavano sognando? Pensavano a noi giorno e notte? Camminavano ancora per la strada con le braccia cariche di pacchi, tre passi dietro ai nostri padri che non portavano nulla? Ci invidiavano in segreto perché eravamo partite? Non ti ho forse dato tutto? Si erano ricordate di stendere all’aria i nostri vecchi kimono? Si erano ricordate di dar da mangiare ai gatti? Si erano assicurate di dirci tutto quello che c’era da sapere? Tieni la tazza con entrambe le mani, non stare sotto il sole, non parlare più del necessario. Quasi tutte, sulla nave, eravamo preparate, e sicure che saremmo diventate brave mogli. Sapevamo cucinare e cucire. Sapevamo servire il tè, disporre i fiori e rimanere sedute per ore sui nostri piedi piatti e larghi, senza dire assolutamente nulla di significativo.
Una ragazza deve mimetizzarsi dentro la stanza: deve essere presente senza rivelare la propria esistenza. Sapevamo come comportarci ai funerali, e sapevamo scrivere brevi poesie malinconiche sul passare dell’autunno, lunghe né più né meno diciassette sillabe. Sapevamo strappare le erbacce, spaccare la legna e trasportare l’acqua, e una di noi – la figlia del risaiolo – sapeva camminare per tre chilo- metri fino al paese con un sacco di riso da trentacinque chili sulla schiena senza versare una goccia di sudore. Dipende tutto da come respiri. Quasi tutte avevamo ottime maniere ed eravamo estremamente cortesi, tranne quando ci arrabbiavamo e imprecavamo come marinai. Quasi tutte parlavamo sovente come vere signore, con un tono di voce acuto, e fingevamo di sapere molto meno di quel che sapevamo, e ogni volta che passavamo accanto ai marinai stavamo attente a camminare con passettini leziosi e gli alluci decorosamente rivolti verso l’interno. Perché quante volte le nostre madri ci avevano detto: Cammina come una cittadina, non come una campagnola!
Sulla nave ogni notte ci infilavamo nelle cuccette delle altre e restavamo sveglie per ore, a discutere del continente sconosciuto che ci aspettava. Si diceva che i suoi abitanti mangiassero solo carne e avessero il corpo coperto di peli (noi eravamo perlopiù buddiste, e non mangiavamo carne, e avevamo peli solo nei punti giusti). Gli alberi erano enormi. Le pianure sconfinate. Le donne erano grossolane e alte – parecchio più alte, avevamo sentito, dei nostri uomini più alti. La lingua era dieci volte più difficile della nostra, e le usanze erano imperscrutabili. I libri si leggevano dalla fine al principio, e la gente si insaponava dentro la vasca. Ci si soffiava il naso con pezze sporche, che venivano rimesse in tasca e poi ritirate fuori e usate di nuovo. Il contrario di bianco non era rosso, ma nero. Che ne sarà di noi, ci chiedevamo, in una terra così estranea? Immaginavamo il nostro arrivo – un popolo di gente più piccola della media, armata solo dei propri manuali – in un paese di giganti. Ci avrebbero riso dietro? Sputato addosso? Oppure, peggio ancora, non ci avrebbero prese sul serio? Eppure anche la più riluttante di noi doveva ammettere che era meglio sposare uno sconosciuto in America che invecchiare con un contadino del villaggio. Perché in America le donne non dovevano lavorare nei campi, e c’erano riso e legna in abbondanza per tutti. E ovunque andassi gli uomini ti aprivano la porta, ti salutavano alzando il cappello ed esclamavano «Prima le signore» e «Dopo di lei». Alcune di noi sulla nave venivano da Kyoto, avevano la pelle chiara e delicata, ed erano sempre vissute nella penombra delle stanze sul retro. Alcune venivano da Nara, e pregavano gli antenati tre volte al giorno, e giuravano di sentir ancora suonare le campane del tempio. Alcune erano figlie di contadini della prefettura di Yamaguchi, ragazze con i polsi grossi e le spalle larghe che non erano mai andate a letto dopo le nove. Alcune venivano da un piccolo villaggio nella prefettura di Yamanashi e avevano da poco visto treno per la prima volta. Alcune venivano da Tokyo e ave – vano visto tutto, parlavano un giapponese raffinato e non si mischiavano troppo con le altre. Molte venivano da Kagoshi ma, e parlavano uno stretto dialetto del sud che quelle di Tokyo fingevano di non capire. Alcune venivano da Hok kaido, dove faceva freddo e nevicava, e avrebbero continuato a sognare quel paesaggio bianco per molti anni. Alcune venivano da Hiroshima, che in seguito sarebbe esplosa, ed erano fortunate a trovarsi sulla nave, anche se naturalmente allora non lo sapevano. La più giovane tra noi aveva dodici anni, e veniva dalla sponda orientale del lago Biwa, e non aveva ancora cominciato a sanguinare. I miei genitori mi hanno data in moglie per i soldi del fidanzamento. La più vecchia aveva Niigata, e aveva passato tutta la vita a prendersi cura del padre invalido, la cui morte recente l’aveva resa al contempo felice e triste. Sapevo che avrei potuto sposarmi solo se fosse morto. Una di noi veniva da Kumamoto, dove non c’erano più uomini da sposare – erano partiti tutti l’anno prima per cercare lavoro in Manciuria – e si considerava fortunata ad aver trovato un marito purchessia. Ho dato un’occhiata alla foto e ho detto al sensale: «Va bene». Una di noi veniva da un villaggio di tessitori di seta nella prefettura di Fukushima, e aveva perso il primo marito per colpa dell’influenza, e il secondo per colpa di una donna più giovane e bella che viveva sull’altro versante della collina, e adesso stava andando in America a sposare il terzo. È sano, non beve, non gioca, mi basta sapere questo. Una di noi era un’ex ballerina di Nagoya che si vestiva con eleganza, aveva la pelle bianca e luminosa e sapeva tutto quello che c’era da sapere sugli uomini, ed era a lei che ogni sera rivolgevamo le nostre domande. Quanto durerà? Con la lampada accesa o al buio? Le gambe su o giù? Gli occhi aperti o chiusi? E se non riesco a respirare? E se mi viene sete? E se lui è troppo pesante? E se è troppo grosso? E se non mi vuole? «Gli uomini sono molto semplici, in realtà» rispondeva. E poi cominciava a spiegare.
Sulla nave a volte restavamo sveglie per ore nell’oscurità umida e dondolante della stiva, piene di desiderio e paura, e ci chiedevamo come avremmo potuto resistere ancora per tre settimane. Sulla nave avevamo con noi, dentro i bauli, tutto quello che ci sarebbe servito per la nostra nuova vita: kimono di seta bianca per la prima notte di nozze, kimono di cotone colorato da indossare tutti i giorni, kimono di cotone tinta unita per la vecchiaia, pennelli da calligrafia, grosse barrette d’inchiostro nero, sottili fogli di carta di riso sui quali scrivere lunghe lettere a casa, minuscoli Budda di ottone, statuette d’avorio del dio volpe, bambole con le quali dormivamo dall’età di cinque anni, sacchetti di zucchero grezzo per comprare favori, trapunte di stoffa a colori vivaci, ventagli di carta, manuali di conversazione inglese, sciarpe di seta a fiori, lisce pietre nere del fiume che scorreva dietro casa nostra, una ciocca di capelli di un ragazzo che una volta avevamo toccato, e amato, e al quale avevamo promesso di scrivere pur sapendo che non l’avremmo mai fatto, specchi d’argento che ci aveva regalato nostra madre, le cui ultime parole ci risuonavano ancora nelle orecchie. Vedrai: le donne sono deboli, ma le madri sono forti.
Sulla nave ci lamentavamo di tutto. Cimici. Pidocchi. Insonnia. La vibrazione monotona e costante del motore, che penetrava perfino nei nostri sogni. Ci lamentavamo del tanfo delle latrine – enormi voragini che si aprivano in mare – e del nostro stesso odore, che maturava lentamente e sembrava sempre più intenso giorno dopo giorno. Ci lamentavamo della freddezza di Kazuko, di Chiyo che si schiariva la gola, e di Fusayo che canticchiava senza sosta la canzone dei raccoglitori di tè, facendoci pian piano impazzire tutte quante. Ci lamentavamo per le nostre forcine scomparse – chi di noi era la ladra? – e per il fatto che le ragazze di prima classe non ci salutavano mai da sotto i loro parasole di seta viola quando ci passavano accanto sul ponte superiore. Ma chi si credono di essere?Ci lamentavamo del caldo. Del freddo. Delle coperte di lana ruvida. Ci lamentavamo delle nostre lamentele. Sotto sotto, però, eravamo quasi tutte felicissime, perché presto saremmo state in America con i nostri nuovi mariti, che negli ultimi mesi ci avevano scritto spesso. Ho comprato una bella casa. Potrai piantare i tulipani in giardino. Le giunchiglie. Quello che vuoi. Possiedo una fattoria. Gestisco un albergo. Sono il presidente di una grande banca. Ho lasciato il Giappone da diversi anni per avviare la mia impresa e posso mantenerti senza problemi. Sono alto un metro e settantanove centimetri, non soffro di lebbra né di malattie polmonari e nella mia famiglia non ci sono casi di pazzia. Sono originario di Okayama. Di Hyogo. Di Miyagi. Di Shizuoka. Sono cresciuto nel villaggio vicino al tuo e ti ho vista anni fa a una fiera. Ti manderò i soldi del viaggio appena possibile.
Sulla nave tenevamo i ritratti dei nostri mariti dentro minuscoli medaglioni ovali che portavamo appesi al collo con lunghe catene. Li tenevamo dentro borsette di seta, dentro vecchie lattine di tè, dentro scatole di lacca rossa, e den tro le spesse buste marroni con le quali erano stati spediti dall’America. Li tenevamo dentro la manica del kimono, che toccavamo spesso, per assicurarci che ci fossero ancora. Li tenevamo infilati tra le pagine di Venite, giapponesi!, Consigli per andare in America, Dieci modi per far felice un uomo, e di vecchi e logori volumi dei sutra buddisti, e una di noi, che era cristiana, e mangiava carne, e pregava un dio diverso dai capelli lunghi, teneva il suo fra le pagine della Bibbia di re Giacomo. E quando le chiedevamo chi le piacesse di più – l’uomo della fotografia o il Signore Gesù – lei sorrideva misteriosa e rispondeva: «Lui, naturalmente».
Alcune di noi sulla nave custodivano segreti, che avevamo giurato di non rivelare mai ai nostri mariti. Forse il vero motivo per cui stavamo andando in America era rintracciare un padre perduto che aveva abbandonato la famiglia anni prima. È andato nel Wyoming a lavorare nelle miniere di carbone e non ci ha più dato sue notizie. O forse avevamo lasciato una figlia piccola, nata da un uomo di cui ricordavamo a malapena il viso – un cantastorie che aveva trascorso una settimana al villaggio, o un monaco buddista errante che aveva chiesto ospitalità per una notte lungo la strada del monte Fuji. E pur sapendo che i nostri genitori si sarebbero presi cura di lei – Se resti al villaggio, ci avevano avvertito, non ti sposerai mai – ci sentivamo lo stesso in colpa per aver anteposto la nostra vita alla sua, e sulla nave piangemmo per lei ogni notte per molte notti di fila, e poi un mattino, al risveglio, ci asciugammo gli occhi e dicemmo: «Adesso basta», e cominciammo a pensare ad altro. A quale kimono indossare il giorno dell’arrivo. A come pettinarci. A cosa dire quando lo avremmo visto per la prima volta. Perché adesso eravamo sulla nave, con il passato dietro le spalle, e non potevamo più tornare indietro. Sulla nave non potevamo immaginare che avremmo sognato nostra figlia ogni notte fino al giorno della nostra morte, e che nel sogno avrebbe sempre avuto tre anni come l’ultima volta che l’avevamo vista: una figura minuscola con un kimono rosso scuro accovacciata ai margini di una pozzanghera, incantata davanti a un’ape morta che galleggiava sull’acqua. Sulla nave mangiavamo tutti i giorni le stesse cose e respiravamo tutti i giorni la stessa aria viziata. Cantavamo le stesse canzoni e ridevamo delle stesse battute, e al mattino, quando la temperatura era mite, uscivamo dagli angusti alloggi della stiva e passeggiavamo sul ponte con i nostri sandali di legno e i nostri leggeri kimono estivi, fermandoci di tanto in tanto a contemplare lo stesso sconfinato mare blu. A volte un pesce volante atterrava ai nostri piedi, dibattendosi senza fiato, e una di noi – di solito la figlia di un pescatore – lo raccoglieva e lo ributtava in acqua. Oppure un banco di delfini appariva dal nulla e per ore saltava di fianco alla nave. In un mattino calmo e senza vento, con il mare piatto come una lastra di vetro e il cielo di un azzurro brillante, il fianco nero e liscio di una balena spuntò all’improvviso dall’acqua e poi scomparve, e per un istante ci dimenticammo di respirare. Era come guardare nell’occhio del Budda. Sulla nave stavamo per ore sul ponte con il vento nei capelli, a guardar passare gli altri viaggiatori. Vedevamo sikh del Punjab con il turbante che fuggivano a Panama dalla loro terra natia. Vedevamo facoltosi russi bianchi che fuggivano dalla rivoluzione. Vedevamo braccianti cinesi di Hong Kong che andavano a lavorare nelle piantagioni di cotone del Perù. Vedevamo King Lee Uwanowich e la sua famosa banda di gitani, che possedeva un grande ranch in Messico e si diceva fosse la più ricca banda di gitani del mondo. Vedevamo un terzetto di turisti tedeschi scottati dal sole, e un bel prete spagnolo, e un inglese alto e rubizzo di nome Charles, che tutti i pomeriggi alle tre e un quarto si avvicinava al parapetto e camminava avanti e indietro sul ponte a passo svelto. Charles viaggiava in prima classe, aveva gli occhi verde scuro e il naso aguzzo, parlava perfettamente giapponese ed era il primo bianco che molte di noi avessero mai visto, e non ci stancavamo mai di lui. Era un professore di lingue straniere dell’università di Osaka, e aveva una moglie giapponese, e un figlio, ed era stato in America parecchie volte, e rispondeva alle nostre domande con pazienza infinita. Era vero che gli americani avevano un forte odore animale? (Charles disse: «Be’, io ce l’ho?» e ci permise di avvicinarci per annusarlo). E quantoerano pelosi? («Come me, più o meno» rispose Charles, poi si tirò su le maniche per mostrarci due braccia coperte di peli marrone scuro che ci fecero rabbrividire). E avevano davvero i peli sul petto? (Charles arrossì e ci disse che non poteva mostrarci il petto, e noi arrossimmo e gli spiegammo che non glielo avevamo chiesto). E le tribù di pellerossa selvaggi vagavano ancora nelle praterie? (Charles ci disse che tutti i pellerossa erano stati respirammo di sollievo). Ed era vero che in America le donne non dovevano inginocchiarsi davanti al marito, né coprirsi la bocca quando ridevano? (Charles contemplò una nave all’orizzonte, poi sospirò e disse: «Purtroppo sì»). E uomini e donne ballavano davvero guancia a guancia per tutta la notte? (Solo il sabato, spiegò Charles). E i passi di danza erano molto difficili? (Charles rispose che erano facili, e la sera dopo ci impartì una lezione di foxtrot sul ponte illuminato dalla luna. Piano, piano, veloce, veloce). E il centro di San Francisco era davvero più grande di Ginza? (Ma certo). E in America le case erano davvero tre volte più grandi delle nostre? (Proprio così). E ogni casa aveva un pianoforte in salotto? (Diciamo una casa su due, rispose Charles). E credeva che saremmo state felici laggiù? (Charles si tolse gli occhiali, abbassò su di noi i bellissimi occhi verdi e disse: «Oh sì, molto»).
Alcune di noi sulla nave non riuscirono a trattenersi dal fare amicizia con i marinai, che venivano dai nostri stessi villaggi, conoscevano le parole delle nostre canzoni, e ci chiedevano continuamente di sposarli. Siamo già sposate, spiegavamo, eppure alcune si innamorarono comunque. E quando ci chiedevano un incontro a quattr’occhi – quella sera stessa, mettiamo, sul ponte di corridoio, alle dieci e un quarto – noi ci guardavamo i piedi per un istante, poi respiravamo a fondo e rispondevamo: «Sì», e quella era un’altra cosa che non avremmo mai raccontato ai nostri mariti. È stato quel suo modo di guardarmi, avremmo pensato in seguito. Oppure, aveva un bel sorriso. Una di noi sulla nave rimase incinta, ma senza saperlo, e nove mesi dopo, quando il bambino nacque, sottolineò per prima cosa la grande somiglianza con il nuovo marito. Ha i tuoi stessi occhi. Una di noi si buttò in mare dopo aver passato la notte con un marinaio, e lasciò un breve biglietto sul cuscino: «Dopo di lui non può esserci nessun altro». Un’altra si innamorò di un missionario metodista di ritorno a casa che aveva incontrato sul ponte, e malgrado il missionario la implorasse di lasciare il marito per lui appena arrivata in America, lei gli rispose che non poteva. «Devo rimanere fedele al mio destino» disse. Ma avrebbe continuato a immaginare per sempre la vita che non aveva vissuto. Alcune di noi sulla nave erano meditabonde per natura, preferivano tenersi in disparte, e passarono quasi tutto il viaggio sdraiate a faccia in giù nella cuccetta, pensando a tutti gli uomini che si erano lasciate alle spalle. Il figlio del fruttivendolo, che fingeva sempre di non notarci, ma ci dava un mandarino in più ogni volta che sua madre non era in negozio. Oppure l’uomo sposato che una volta avevamo atteso per due ore su un ponte, sotto la pioggia, a tarda notte. E per cosa? Un bacio e una promessa. «Tornerò domani» aveva detto. E anche se non lo avevamo più rivisto, sapevamo che avremmo rifatto tutto in un istante, perché stare con lui era come essere vive per la prima volta, e anche meglio. E spesso, prima di prendere sonno, ci scoprivamo a pensare al giovane contadino con cui parlavamo tutti i pomeriggi tornando da scuola – il bel ragazzo del villaggio vicino, con quelle mani che riuscivano a far spuntare dalla terra la più ostinata delle piantine – e a nostra madre, che sapeva tutto e spesso ci leggeva nel pensiero, e che ci aveva guardate come se fossimo pazze. Vuoi passare il resto dei tuoi giorni accovacciata in un campo?(Avevamo esitato e quasi risposto di sì, perché non avevamo sempre sognato di diventare nostra madre? Non era quello che avevamo sempre voluto essere?)
Sulla nave ciascuna di noi doveva compiere delle scelte. Dove dormire, di chi fidarsi, con chi fare amicizia e come. Se dire o non dire qualcosa alla vicina che russava o parlava nel sonno, o alla vicina dai piedi ancora più maleodoranti dei nostri, che spargeva i suoi vestiti per tutto il pavimento. E se qualcuna chiedeva il nostro parere su una certa pettinatura – lo stile «a grondaia», per esempio, che impazzava sulla nave – che secondo noi non le stava affatto bene, le faceva sembrare la testa troppo grossa: le dicevamo la verità oppure rispondevamo che le donava tantissimo? Ed era giusto lamentarsi del cuoco, che veniva dalla Cina e sapeva cucinare un solo piatto – il curry di riso – che ci serviva un giorno dopo l’altro? Ma se avessimo detto qualcosa e lui fosse stato rimandato in Cina, dove spesso il riso mancava del tutto, sarebbe stata colpa nostra? E qualcuno ci ascoltava, in ogni modo? A qualcuno importava qualcosa di noi? Da qualche parte sulla nave c’era un capitano, e si diceva che tutte le mattine all’alba una bella ragazza uscisse dalla sua cabina. E naturalmente morivamo tutte dalla voglia di sa pere: era una di noi, oppure una delle donne di prima classe? Sulla nave, a volte, ci infilavamo nella cuccetta di un’altra nel cuore della notte e ci sdraiavamo tranquille accanto a lei, parlando dei ricordi di casa nostra: il profumo delle patate dolci arrostite all’inizio dell’autunno, i picnic nel boschetto di bambù, le ore passate a giocare a ombre e demoni nel cortile del tempio in rovina, il giorno in cui nostro padre era uscito a prendere un secchio d’acqua dal pozzo e non era più tornato, e da quel momento nostra madre non lo aveva più nominato neppure una volta. Era come se non fosse mai esistito. Per anni ho continuato a scrutare dentro quel pozzo. Discutevamo delle nostre creme per il viso preferite, dei benefici della polvere di piombo, della prima volta che avevamo visto la fotografia di nostro marito, dell’impressione che ci aveva fatto. Sembrava una persona seria, e così ho deciso che andava bene. Ogni tanto ci scoprivamo a dire cose che non avevamo mai detto a nessuno, e una volta cominciato era impossibile fermarsi, e ogni tanto tacevamo di colpo e restavamo abbracciate fino all’alba, quando una di noi si staccava dall’altra e diceva: «Ma durerà?» E quella era un’altra scelta che dovevamo compiere. Se rispondevamo di sì, che sarebbe durata, e tornavamo da lei – se non quella notte, la successiva, o quella dopo ancora – ci dicevamo che avremmo dimenticato tutto nell’istante in cui fossimo scese dalla nave. E d’altra parte era un’ottima pratica per il matrimonio. Alcune di noi non si sarebbero mai abituate a stare con un uomo, e se ci fosse stato un modo per andare in America senzasposarsi, lo avrebbero trovato.
Sulla nave non potevamo sapere che quando avremmo visto i nostri mariti non li avremmo riconosciuti. Che tutti quegli uomini berretto di maglia e cappotto nero sdrucito che ci aspettavano giù sul molo sarebbero stati così diversi dai bei giovanotti delle fotografie. Che le fotografie che ci avevano mandato erano vecchie di vent’anni. Che le lettere che ci avevano scritto erano state scritte da altri, professionisti della bella calligrafia che di mestiere raccontavano bugie e conquistavano cuori. Che nel sentir gridare i nostri nomi dalla terraferma, una di noi si sarebbe girata coprendosi gli occhi – Voglio tornare a casa– ma tutte le altre avrebbero abbassato la testa, si sarebbero lisciate la gonna del kimono e sarebbero scese dalla passerella per uscire nel giorno ancora tiepido. Questa è l’America, ci saremmo dette, non c’è nulla di cui preoccuparsi. E ci saremmo sbagliati Prima notte Quella notte i nostri nuovi mariti ci presero in fretta. Ci presero con calma. Ci presero dolcemente, ma con decisione, e senza dire una parola. Sicuri che fossimo le vergini promesse dai sensali, ci presero con squisita premura. Adesso dimmi se ti fa male. Ci presero supine sul nudo pavimento del Minute Motel. Ci presero in una stanza di second’ordine del Kumamoto Inn, giù in centro. Ci presero nei migliori alberghi di San Francisco dove un giallo potesse mettere piede a quell’epoca. Il Kinokuniya Hotel. Il Mikado. L’Hotel Ogawa. Ci diedero per scontate, sicuri che avremmo fatto tutto quello che ci dicevano. Per favore, girati verso il muro e mettiti a quattro zampe. Ci presero per i gomiti e dissero piano: «È ora». Ci presero prima che fossimo pronte, e poi continuammo a sanguinare per tre giorni. Ci presero con i nostri kimono di seta bianca attorcigliati sopra la testa, e noi credemmo di morire. Pensavo che mi stesse soffocando.Ci presero con bramosia, con cupidigia, come se avessero aspettato di prenderci per mille anni più uno. Ci presero anche se avevamo ancora il mal di mare e il terreno non aveva smesso di oscillarci sotto i piedi. Ci presero con violenza, usando i pugni quando cercavamo di resistere. Ci presero anche se li mordevamo. Ci presero anche se li picchiavamo. Ci presero anche se li insultavamo – Vali meno del dito mignolo di tua madre– e gridavamo aiuto (non venne nessuno). Ci presero anche se ci prostravamo ai loro piedi e li imploravamo di aspettare. Non possiamo farlo domani? Ci presero di sorpresa, perché non tutte le nostre madri ci avevano spiegato in dettaglio cosa sarebbe accaduto quella notte. Avevo tredici anni e non avevo mai guardato un uomo negli occhi.Ci presero scusandosi per le loro mani ruvide e callose, e noi capimmo subito che erano contadini e non bancari. Ci presero con comodo, da dietro, mentre ci affacciavamo alla finestra per ammirare le luci della città sotto di noi. «Sei contenta adesso?» ci chiesero. Ci legarono e ci presero a faccia in giù su moquette logore che puzzavano di muffa ed escrementi di topo. Ci presero con frenesia, sopra lenzuola macchiate di giallo. Ci presero facilmente, e senza troppe cerimonie, perché alcune di noi erano già state prese molte volte. Ci presero da ubriachi. Ci presero bruscamente, precipitosamente, senza badare al nostro dolore. Credevo che mi sarebbe esploso l’utero. Ci presero anche se stringevamo le gambe e dicevamo: «No, ti prego». Ci presero con cautela, come se temessero di romperci. Sei così piccola. Ci presero freddamente, ma con abilità – Nel giro di venti secondi perderai completamente il controllo– e noi capimmo che c’erano state molte altre prima di noi. Ci presero mentre guardavamo il soffitto senza battere ciglio e aspettavamo che fosse tutto finito, senza renderci conto che era appena cominciato. Ci presero con l’aiuto dell’albergatore e di sua moglie, che ci immobilizzarono a terra per impedirci di scappare. Nessun uomo ti vorrà quando lui avrà finito. Ci presero come i nostri padri avevano preso le nostre madri ogni notte al villaggio, nell’unica stanza della capanna: inaspettatamente, senza preavviso, mentre scivolavamo nel sonno. Ci presero alla luce della lampada. Ci presero alla luce della luna. Ci presero al buio, e non riuscimmo a vedere niente. Ci presero in sei secondi e poi ci crollarono addosso con piccoli fremitie sospiri, e noi pensammo, Tutto qui? Ci misero un’infinità di tempo, e noi capimmo che il dolore sarebbe durato settimane. Ci presero in ginocchio, mentre piangevamo aggrappate alla colonna del letto. Ci presero concentrandosi intensamente su una misteriosa macchia sulla parete che vedevano solo loro. Ci presero mormorando ri petutamente «Grazie» in un familiare dialetto di Tohoku che ci mise subito a nostro agio. Mi sembrava di sentire mio padre. Ci presero urlando in rozzi dialetti di Hiroshima che comprendevamo a malapena, e capimmo che avremmo trascorso il resto della nostra vita con un pescatore. Ci presero in piedi, davanti allo specchio, costringendoci a guardare il nostro riflesso. «Col tempo finirà per piacerti» ci dissero. Ci presero con garbo, per i polsi, e ci chiesero di non gridare. Ci presero con timidezza, e con grande difficoltà, mentre cercavano di capire cosa fare. «Scusa» dissero. E: «Questa sei tu?» Ci dissero: «Aiutami» e noi li aiutammo. Ci presero con grugniti. Ci presero con gemiti. Ci presero con urla e lunghi lamenti protratti. Ci presero pensando a un’altra donna – lo capimmo dal loro sguardo perso in lontananza – e poi ci maledissero quando non trovarono il nostro sangue sulle lenzuola. Ci presero con goffaggine, e noi non ci lasciammo più toccare per tre anni. Ci presero con una maestria che non avevamo mai conosciuto, e capimmo che li avremmo desiderati per sempre. Ci presero mentre gridavamo di piacere e poi ci coprivamo la bocca per la vergogna. Ci presero rapidamente, più volte e per tutta la notte, e il mattino dopo appartenevamo a loro.
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Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare- 2012 Bollati Boringhieri editore
Titolo originale The Buddha in the Attic, Traduzione di Silvia Pareschi
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Li Wentao
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Un libro che parla di partenze senza speranza. Storie di donne costrette a un destino che non hanno scelto – di Giulia Valsecchi
La testa delle vergini non ciondola: la più grande ha trentasette anni, la più piccola dodici e sono tutte in fila sulla stessa nave in partenza dal grande impero che ha nel nome l’origine del sole. Che sia per sradicamento, devozione innocente o sacrificio, la traversata è una scossa continua che accoglie l’avanzata di un corpo unico femminile. La voce di un coro di formiche operose e atterrite, vittime di false promesse da cui scorre una successione di versi e versioni di un passato da annullare per accettare mariti mai visti, naturalizzati americani e fotografati ancora giovani e aitanti.
Non c’è memoria del proprio nome, né di quello che si acquisirà, serve piuttosto confrontare gli scatti, scambiarsi precetti morali o di asservimento coniugale, predisporsi insieme a quel che presto sarà un mancato riconoscimento sulle coste di San Francisco. Perché nella terra dei giganti i mariti non incarnano il fresco approdo, il risveglio di civiltà tanto decantato in patria, ma dietro un kimono per ogni occasione le vergini scoprono che quei barlumi di rinascita erano malefiche illusioni.
Come eroine fraterne a Cassandra e al suo esilio, anche per ogni sposa giapponese le parole muoiono prima delle immagini. Quel che è stato imposto loro come monito di virtù da padri e madri, perde a confronto con i sogni condivisi in viaggio a contendersi profili di uomini assegnati per corrispondenza. Solo così alcune famiglie hanno potuto sfamarsi, vendendo una femmina che apprenderà l’arte della mimesi e dell’invisibilità. Alle spalle, la Seconda guerra incombe e una schiera di piccoli piedi piatti è pronta a lasciare le risaie per affondare nell’umido della terza classe dove cuccette luride si sostituiscono alle vite.
Assomiglia a un terremoto il viaggio per mare che lascia segni dentro lo stomaco e ben oltre l’arrivo, dopo tre settimane, sulle coste occidentali statunitensi. Qualcuna ha preso le acque prima, si è rifiutata di proseguire e rinunciare a un amore in carne e ossa conosciuto sul ponte della nave, tutte le altre subiscono amplessi che infrangono le già fioche speranze d’essere felici. Anche il lavoro è sofferto dietro a mariti giardinieri, schiavi nei campi e non impiegati di banca. Ma le mogli convivono in buon ordine dentro abitazioni malmesse ritrovandosi all’alba lavandaie, cameriere, prostitute, bottegaie o chine su terreni che mai avranno il diritto di possedere.
Altre bombe riserva la guerra poco prima di Pearl Harbour. Altre scosse confinano tutte le famiglie nemiche del governo in campi di prigionia imposti dall’Executive order rooseveltiano e ricordano la rassegnazione dei pochi sopravvissuti oggi al grande jishin, quando i morti del sisma custodiscono un onore impossibile ai vivi che non saranno più gli stessi. Una sposa, nuova Medea, ha soffocato il figlio con la cenere prima di partire per l’esilio al di là delle montagne, altre hanno appreso dalle americane l’arte della lusinga e, da amanti clandestine dei loro uomini, sono state punite con gravidanze indesiderate.
Le abitazioni e province deserte, impregnate del fumo di lettere e ricordi bruciati per non lasciare traccia, trattengono allora un’ultima speranza di salvezza e il sogno dei vecchi abitanti di incontrarsi ancora. Il rimpianto dei giapponesi disciplinati contro il disordine e la sporcizia dei nuovi immigrati. E tra chi se ne è andato piangendo o cantando restano campi incolti e ristoranti chiusi: un’altra nave è salpata accanto al destino incrociato di Ellis Island e alla risposta muta di Ada, la pianista di Campion che sposa uno sconosciuto e baratta il proprio corpo con i tasti del piano. Ma alle picture brides è negato il ritorno, proprio come ai nomi dei fiori giapponesi che i loro figli hanno già dimenticato.
«Da anni volevo raccontare la storia delle migliaia di giovani donne giapponesi – le cosiddette “spose in fotografia” – che giunsero in America all’inizio del Novecento. Mi ero imbattuta in tantissime storie interessanti durante la mia ricerca e volevo raccontarle tutte. Capii che non mi occorreva una protagonista. Avrei raccontato la storia dal punto di vita di un “noi” corale, di un intero gruppo di giovani spose». Julie Otsuka
Julie Otsuka è nata in California. Si è laureata in Belle Arti alla Yale University e ha conseguito un Master of Fine Arts alla Columbia University. È anche pittrice. Oggi vive e lavora a New York. Il suo primo romanzo, When the Emperor Was Divine (2002), dopo aver scalato le classifiche con duecentosessantamila copie vendute negli Stati Uniti, è considerato un classico contemporaneo: con questo libro, unanimamente giudicato dalla critica un capolavoro, Julie Otsuka ha vinto l’Asian American Literary Award, l’American Library Association Alex Award e una Guggenheim Fellowship.Sito dell’autrice http://www.julieotsuka.com
Credo sia un libro importante su una delle tante violenze perpetuate sulle donne. Ancora oggi, non più giapponesi ma indiane, si dura su spose bambine, spose ignare. Nel silenzio clamoroso, nel buio di un medioevo che tarda a morire.
Narda
la stessa cosa accadde anche alle italiane, quando sbarcarono dalle navi negli stati uniti.Il film di Crialese,Nuovomondo, lo testimonia prefettamente.
una corale meravigliosa, una delle più belle letture degli ultimi tempi