NEL FARE POESIA…stare dentro…- Antonio Porta

agostino arrivabene- pandora incuba l’incubo

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«Nel fare poesia» suggerisce lo ‘stare dentro’. Dentro che cosa? Il linguaggio, naturalmente, e subito quello della poesia, come ci è trasmesso da Omero a Ungaretti, dalla Bibbia a Pound; ma il linguaggio della poesia ‘sta dentro’ la lingua, come la storia degli uomini ce la consegna, non fissata per sempre ma in continua trasformazione perché la lingua a sua volta ‘sta dentro’ l’oceano prelinguistico, l’esperienza immediata, il sentimento che ne scaturisce, e perfino l’estasi dell’esserci.
Poeta è colui che attraversa queste stratificazioni come un palombaro, in discesa e in ascesa, e prova un’irresistibile vocazione a rendere conto di queste discese-ascese. Ad esse si lega la forma della poesia, inventata di volta in volta come linguaggio dell’espressione. Di questo rapporto stretto un poeta è certamente autocosciente ma non può fare della sola autocoscienza il fine del proprio operare, come non può fare poesia fidandosi solo del proprio impegno artigianale. Un poeta sa di essere un artigiano perfino maniacale ma ha da temere il suo sapere ‘formale’ se diventa come un arto fantasma staccato dal corpo.
La poesia è dunque conoscenza? Mi pare una semplificazione. La poesia rende conto innanzitutto di se stessa, della radicalità delle proprie scelte linguistiche. Nel rendere conto del prelinguistico non può però pregiudicare i propri esiti che rimangono imprevedibili anche rispetto a un’esperienza ben codificata. Soltanto nel momento decisivo del fare linguistico la poesia si mette a disposizione di significati che da lei possono scaturire, magari a dispetto della stessa volontà del poeta, a dispetto delle sue rimozioni e reticenze.
Allora, che cosa può dire un poeta del prima e del dopo quell’assoluto della forma per cui lavora? Che cosa può dire di più di quello che è in una forma e che in definitiva non gli appartiene più?
Qualcosa può dire sul proprio metodo di lavoro e indicare le tracce di quel percorso che, tra intenzioni e ricerca formale, tra ossessioni prelinguistiche e stimoli linguistici quasi allo stato puro, lo ha portato a cristallizzare una soluzione tra le infinite possibili. Il metodo, certamente, pur nella consapevolezza della iperdeterminazione delle scelte, delle molteplici concause che aleggiano intorno alla individuazione di un aggettivo, di un sostantivo, di un verso.
Che tipo di conoscenza può dunque venirci da un linguaggio iperdeterminato quindi polisemico? C’è un’analogia che resiste nel tempo, quella con il linguaggio del sogno, anche perché l’interpretazione dei sogni passa attraverso la tradizione della letteratura, come è sempre stato riconosciuto. Oscillando tra menzogna e verità, tra folgorazione realistica e ombra mitica, il linguaggio del sogno si giustifica con la sua stessa esistenza; non si può non sognare. Il linguaggio della poesia corrisponde a una necessità analoga: non si può non esprimersi, non si può non mangiare.
La poesia è l’evidenza dell’esserci nella sua forma più essenziale, più spoglia. Il paradosso sta nel fatto che ci nutre con domande più che con risposte. Interrogare la propria necessità è funzione irrinunciabile della poesia come interrogare la vita, in un nodo a treccia.
L’accento politico della poesia è conseguenza dell’accento etico della sua necessità, che allunga le radici fino al territorio della libertà di pensiero, legata proprio al mondo della polis, alla storia delle sue lotte e delle sue trasformazioni, che la lingua di tutti esprime in prima istanza così come richiede, in un momento successivo, l’opera del poeta-palombaro.

Antonio Porta– 26.2.1985- Da Nel fare poesia, Sansoni, Firenze 1985.

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agostino arrivabene- studio per s.sebastiano

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DIETRO LA POESIA

Chi negli ultimi due o tre anni, che mi appaiono decisivi, si è impegnato nello scrivere versi cercando di raggiungere mete inconsuete, cercando quindi di fare, si è trovato di fronte a molti problemi di varia natura. Alcuni possono essere facilmente elencati e sono di situazione: il vuoto, ad esempio, apertosi con l’affondamento in gruppo della quarta generazione, erede malaccorta di un Montale male interpretato o immersa solo nella superficie degli eventi «sociali» (nessuno è riuscito a calarsi nel reale); o la mancanza di linguaggio che, evidentemente, ne deriva, nel deserto delle forme disossate e ammucchiate alla periferia; o la constatazione dello smarrimento generale penetrato dallo sgomento per la gran mole di fatti e di parole «nuove» che giravano un po’ dappertutto e che, tutto sommato, nutrivano germi non inefficaci, come la necessità che lo scrittore partecipi ai movimenti e agli sconvolgimenti della società, ma dal di dentro. Vedremo dopo il come, ma in opposizione alle ostentazioni dell’io continuamente ricucinate e servite come piatti di primo ordine quando venivano rifiutate di istinto; o una sfiducia generale nella letteratura in un certo momento completamente inascoltata e isolata, e nei compiti dello scrittore, cui ha contribuito il neorealismo con il suo ovvio fallimento. Compiti che solo in un secondo tempo sono stati rimeditati e ci si è accorti, con minor smania di risultati immediati, di quanto complessi e pesanti e difficili da assumersi siano, e quanto estranei all’adesione alla prassi politica.
Altri problemi erano occasionali e, in un certo senso, minori, per il fatto d’essere derivati dai precedenti. Non tutti però hanno avuto la fortuna di risolverli. E sono la mancanza di assistenza critica, di contatti finalmente liberi e disinteressati, di convergenze necessarie all’operazione poetica.
Un secondo genere di problemi può essere definito di soluzione e naturalmente deriva dai precedenti, conservando una natura più strettamente personale o almeno ristretta a un piccolo gruppo, che è poi il solo che conta, inutile scandalizzarsi, composto dagli amici che scrivono nel modo che approviamo.
Base negativa ai problemi di soluzione (da risolvere nell’atto dello scrivere) e, in parte, irrazionale, è l’avversione per il poeta-io, quello che ci racconta tutto ciò che gli è capitato. Secondo tale individuo il fatto accaduto personalmente al poeta è, solo per questo, di grande interesse e dovrebbe essere il solo significante. Si tratta di quei poeti che si fanno fotografare con il profilo un po’ appuntito dalle meditazioni sullo sfondo di emblematici fiumi. Insomma: gli ultimi crepuscolari pascoliani, un po’ maledetti, ancora. E non si creda sia la normale avversione per i padri e di amore per i nonni: anche i nonni non ci ispirano simpatia. Forse gli avi. Ma sotto l’apparenza irrazionale sta un motivo plausibile, la causa necessaria: perché si è capito che la poesia deve giungere da altri luoghi e avere altra sostanza: senza negare con ciò l’importanza delle spinte derivanti dalle reazioni personali o dalla personalità, in generale: problema vitale nel momento di mettersi a scrivere, risolto da una indispensabile consapevolezza che ci fa spingere in certe direzioni e non in altre, ovviamente. Si è avvertita, insomma, l’importanza dell’evento, di qualunque genere, politico o naturale, e da questo evento sentiamo toccata l’intera comunità degli uomini e non più, soltanto, la persona del poeta: e lì ci specchiamo, noi, uomini. È utile precisare che vogliamo trovare immagini dell’uomo o degli uomini e delle cose.
In questo senso abbiamo interpretato la poetica degli oggetti, la poesia in re, non ante rem; poiché certi oggetti o cose o eventi rilevati e ricomposti in un unicum ci faranno calare nel reale (non confondiamo reale e realtà).
Naturalmente, sia detto tra parentesi, non desideriamo cercare la poesia. Probabilmente, pensiamo, la poesia si trova dopo, quando nasce da versi che trovano la loro forza e la loro densità in autentica violenza o struggimento o risentimento, scoprendo il reale. Ci sarà più o meno carica quanto maggiori o minori saranno state la forza consapevole del poeta e la sua capacità di penetrazione tra le cose.
Direttamente alla poetica degli oggetti si riallaccia un altro problema. Quello del vero e della verità: naturalmente in simbiosi con la ricerca delle immagini e il bisogno di specchiarci. Qualcosa vogliamo trovare, alla fine. Non abbiamo però la presunzione di scoprire l’ombrello; la verità intera, lo sappiamo prima per ragioni di apertura di metodo e di atteggiamento non dogmatico, rimarrà nascosta. Ma le cose che manovriamo e i fatti che accadono sono certamente in relazione con essa: e proprio per avvicinarci ci serviamo del concetto di vero, che si rivela attraverso gli oggetti e gli eventi. Attraverso il vero possiamo scorgere la nostra immagine e, magari, intuire la verità, svelare il reale. Per ben servirsi del vero è necessario raccoglierne una corona o una linea, ampliando le ricerche in tutte le direzioni possibili, mettendosi in agguato da molti punti di vista. […]

in “La Palpebra rovesciata”, quaderni di Azimuth, Milano, 1960, pagg. 35-41. Poi, con varianti, in I novissimi, a cura di Alfredo Giuliani, Einaudi, Torino 1965.

Riferimento: Il Foglio Clandestino, n. 70 doppio, 2009.

ilfoglioclandestino.it

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