La vita che non siamo noi – Monica Farnetti

agostino arrivabene

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A partire dalla scrittura e dal pensiero di alcune autrici del Novecento (Anna Maria Ortese, Marina Cvetaeva, Marlen Haushofer, Clarice Lispector, Silvina Ocampo…) vi propongo di indagare il tema della diversità nell’accezione del non umano (animali, vegetali, minerali, oggetti…).  Si tratta, in questi casi, di un’alterità irriducibile eppure, e paradossalmente, toccata con mano: le autrici che ho presenti, infatti, non la rifiutano né la assimilano a sé, ma riescono a viverla– a porsi cioè in relazione con essa – senza perdersi e senza perderla.
Come fanno? Che cosa permette loro questa esperienza non pensata e forse non pensabile dentro alle coordinate della nostra cultura?
Proprio il fatto, direi, di viverla a) come esperienza e b) come impensato, con tutta la competenza di cui queste donne si sono dotate nel tempo grazie alle loro pratiche (politiche, di relazione) in queste due direzioni. Vivere il non pensato e viverlo direttamente, con tutta se stessa, e principalmente col corpo e con le sue passioni, aiuta ciascuna di queste autrici a tirare il non umano dentro al linguaggio e dentro alla vita, mentre l’ordine puro del vivere, che qui più che mai si esprime e viene sentito, segna per loro un limite rispetto al quale ogni altra alterità può risultare al confronto meno drammatica e più praticabile.

Mi piacerebbe che il titolo che ho scelto per questo intervento apparisse anche ad altri/e, come appare a me, un modo attraente e sufficientemente preciso di significare e di esprimere una delle diversità che ci riguardano, il non-umano. Intendo con questo nome alcune “classi”, chiamiamole così, di presenze non solo (o non sempre) animate che alcune scrittrici hanno significativamente messo in evidenza, individuandole e proponendole come interlocutrici elettive: animali, vegetali, minerali, oggetti1. Cercavo, e ho trovato in esse, altrettante accezioni di una diversità forte, non “solo” di cultura, pelle, lingua, sesso, genere ecc. ma anche di specie o, ancor meglio, di natura. Desideravo infatti mettermi in relazione con un’alterità non equivocabile, non negoziabile e non riducibile. E vedere cosa (mi) accade quando una delle strategie più citate e forse (forse) più proficue del discorso e delle pratiche dell’intercultura, il “mettersi al posto dell’altro/a”, non è possibile e non si dà. Ma andiamo con ordine.
Le scrittrici che hanno incoraggiato e sostengono questa riflessione sono Gertrude Stein, Anna Maria Ortese, Colette, Clarice Lispector, Marlen Haushofer e Silvina Ocampo: tutte contemporanee, sebbene vissute in parti diverse del mondo, tutte narratrici e tutte contraddistinte da una straordinaria capacità di documentare mettendo in scena, nei loro testi, la presenza del non-umano, e insieme la postura – di corpo, di pensiero e di linguaggio – che assumono nella sua prossimità le protagoniste (sempre donne) dei loro racconti2. Dico subito che cosa accade, sostanzialmente, in questi testi: accade che le protagoniste, come sempre e forse più che mai portavoci delle autrici, poste in presenza di un’alterità irriducibile (una biscia, una blatta, uno straccio, una pianta, un pezzo di vetro) non la rifiutino né la assimilino a sé, ma riescano a viverla – a porsi, cioè, in relazione con essa – senza perdersi e senza perderla.
Come fanno? Cosa permette loro questa esperienza non pensata e (perché) del resto difficilmente pensabile dentro alle nostre coordinate culturali? Proprio il fatto, si direbbe, di viverla come esperienza e come impensato, con tutta la competenza di cui evidentemente si sono dotate nel tempo grazie alle pratiche (di relazione, politiche) che costituiscono, qui e sempre, il loro sapere di donne: pratiche che sono di per se stesse dell’ordine dell’esperienza e che allignano, ovvero rampollano, proprio là dove c’è dell’impensato, dove non è già tutto senso o almeno non ancora3. Approfittano insomma dell’impensato per viverlo come esperienza e dunque per pensarlo (e dirlo) attraverso l’esperienza stessa. Va da sé che non si tratta di un “pensare” comune ma di un pensare diverso, non concettuale, attinto da un sapere che non è quello già costituito, e riconosciuto lungamente come l’unico, per il semplice fatto che dentro di esso il non-umano come tale non ci sta. Su questo tuttavia tornerò fra breve, dopo aver meglio analizzato, col supporto di qualche citazione, ciò che precisamente accade nei racconti in questione.

Metodo di un mantello

Una singola ascesa verso una linea, uno scambio diretto verso un bastone, un’avventura disperata e coraggio e un orologio, tutto questo che è un sistema, che ha del sentimento, che ha rassegnazione e successo, il tutto fa un attraente nero argento (Gertrude Stein, Teneri bottoni).
Intanto la mia Pianta, giovane Fhela, aveva messo un fiore […]. Credo che ella fosse venuta da grandi lontananze, ma nulla in lei lasciava intendere consolazione che da questo fatto le venisse. […]. Era come gonfia di luce, e malinconica: una maturità stupenda, una trepidazione di non so che attesa […]. Non mi era stato difficile intuire […] qualcosa di meraviglioso che sempre doveva essere davanti al suo pensiero, e la faceva taciturna e arcana (Anna Maria Ortese, Fhela e il lume doloroso).

 Sono lì, sulle mie ginocchia, immobili e in agguato. L’una si aggrappa con la coda al bracciolo della poltrona, lascia pendere la testa lungo la mia gonna, e tasta l’aria e il tessuto con le estremità della sua lingua vibrante. L’altra, arrotolata come una morbida fune, ora lascia che la mia mano la sollevi […]; ma trasale e si tende al minimo movimento della cagna accucciata poco distante. Non importa, è la prima tregua fra di noi, l’ora ambigua e calma in cui possiamo, le bisce e io, fare assegnamento su quelle che seguiranno: già mi sembra che si umanizzino, e loro credono che io mi stia addomesticando (Colette, La pace tra le bestie).

 La blatta mi guardava con la sua corazza di scarabeo, col suo corpo scoppiato tutto cannule e antenne e cemento molle – e tutto ciò era innegabilmente una verità precedente alle nostre parole; tutto ciò era innegabilmente la vita che fino a quel momento io non avevo voluto (Clarice Lispector, La passione secondo G.H.).

 Le barriere tra l’uomo e l’animale cadono molto facilmente. Apparteniamo a un’unica grande famiglia […]. La mia simpatia, d’altronde, ha ben poco a che vedere col discernimento. In sogno metto al mondo dei figli, e non sono soltanto umani, tra loro ci sono gatti, cani, vitelli, orsi e altre curiose creature pelose. Eppure, prorompono tutte dalla mia persona, e in loro non vi è nulla che possa spaventarmi o provocarmi disgusto. Acquista un aspetto sconcertante solo a scriverlo, con parole umane e una scrittura umana. Questi sogni forse dovrei disegnarli con dei ciottoli sul muschio verde, oppure tracciarli nella neve con un bastone. Ma ancora non ne sono capace (Marlen Haushofer, La parete).

 Fingeva di essere uguale a tutti quelli della sua specie. Un po’ lanuginoso, un po’ grigio, un po’ sfilacciato, stava riempiendosi di grinze come qualsiasi mortale. […] Nascosto sotto un armadio viveva dimenticato, raggomitolato, inerte. Gli stracci normali invece venivano ripiegati su un ripiano, continuamente ricercati dai loro padroni di casa […]. E fu così che conobbe, in quello stato di ozio che lo caratterizzava, Pier. Nessuno ignorava che era servito per pulirgli la pipì, negligente com’era nelle prime tappe della vita. […] lo misurò, lo annusò, lo seguì, lo trascinò, lo riconobbe, poi appoggiò la testa e gli ascoltò il cuore che sicuramente palpitava in qualche posto rigonfio del corpo. Era l’ora più rosea del pomeriggio che aiuta a non dimenticare mai quando l’emozione s’impossessa dell’organismo palpandone tutti i sensi4 (Silvina Ocampo, E così via).

 Le voci narranti o le figure agenti che di volta in volta si e ci mettono di fronte al non-umano – sia esso un animale, un vegetale o un oggetto -, per prima cosa ed evidentemente non lo negano, ma gli aprono uno spazio e lo accolgono presso di sé5. In secondo luogo, non cancellano la sua differenza e anzi, date le circostanze di un’alterità tanto irriducibile, ne riconoscono quasi pacificamente (nel senso in cui si usa dire: “questo è pacifico”) la singolarità. In terzo luogo, e questo è importantissimo, non si mettono al suo posto, e non praticano in alcuna forma la posizione del “come se”: senza infingimenti, e rinunciando a un sapere immaginario che porterebbe all’idealizzazione dell’altro, vi si rapportano invece mettendo in gioco radicalmente la propria alterità rispetto ad esso, o la sua rispetto a sé. In quarto luogo, stabiliscono con esso una relazione, che non è antropocentrica e nemmeno antropomorfica ma relazione tuttavia6, e forse delle più franche. Infine, testimoniano del fatto che la relazione è possibile perché ne va, nell’altro, di sé, vi è nel non-umano un tratto che le costituisce e la relazione è un invito più che mai perentorio, o un’occasione quantomai educativa, a giocarsi insieme la somiglianza e la diversità.

L’altro è l’Altro infatti, come si sa, quando non è un altro qualunque ma qualcuno/qualcosa in cui noi ci riconosciamo7; è l’altro che assumo in me (più precisamente, che ho già assunto e chissà quando) perché è il tramite di una mia identificazione; è chi o che cosa mi preme, che mi sta a cuore e da vicino mi riguarda, con cui oltre ad averci a che fare io, per così dire, ho “a che essere”. Il che non viene meno, anzi, qualora questo altro sia così altro da me come lo può essere, di primo acchito, non soltanto un cane o un cavallo ma addirittura una blatta o una biscia, e ancor meglio un elemento inorganico o un oggetto inanimato. La nostra diversità, se ne approfitto, può condurmi infatti tanto più profondamente a me stessa quanto più, come diversità, è potente e stridente. Questa è in fondo la legge dell’Altro, dell’alterità, dell’Unheimliche e di tutto quel che ne viene8. Una legge che in questo frangente si fa chiarissima, didattica, come spiegata ai bambini. Questa è, anche, la lezione della Lispector, di cui voglio riportare alcuni passaggi che sono stati per me illuminanti e decisivi.

Mi è accaduta una cosa che io, per il fatto di non sapere come viverla, ho forse vissuto come se fosse stata un’altra?
Sinora ritrovarmi era possedere già un’idea di persona, e in questa inserirmi: in quella persona organizzata io mi incarnavo e non avvertivo neppure il grande sforzo di costruzione che era vivere.

Ieri ho perso per ore e ore il mio meccanismo umano. Se avrò coraggio, mi lascerò andare […]. Ma ho paura di quel che è nuovo e ho paura di vivere quel che non capisco – voglio sempre avere la garanzia perlomeno di pensare che capisco, incapace come sono di abbandonarmi al disorientamento.

La vita umanizzata. Io avevo umanizzato troppo la vita.

 Non calcolavo che si trattava di quel grande disincontro.

Io avrei affrontato in me stessa un grado di vita così primario da essere prossimo all’inanimato.

La mia domanda, se c’era, non era: “che cosa sono?”, bensì “fra chi sono?”.

 La cosa che io vedevo era la vita che mi guardava. Come chiamare altrimenti quell’orribile e crudele materia prima […] – era un fango dove, con insopportabile lentezza, si muovevano le radici della mia identità. […] Così stavano le cose – così, dunque. La verità è che io avevo guardato la blatta viva e in lei scoprivo l’identità della mia vita più profonda.

 Quello era per la prima volta fuori di me e al contempo alla mia totale portata, incomprensibile, ma alla mia portata.

 Ma se i suoi occhi non mi vedevano, la sua esistenza mi esisteva – nel mondo primario in cui io ero entrata, gli esseri si esistono a vicenda come modo di vedersi.

 “Ah, voglio tornare a casa mia” mi sono detta d’un tratto poiché la luna umida aveva suscitato in me saudade, rimpianto della mia vita.

 E dei coccodrilli mi ripugna quel loro strascicarsi solo perché io non sono un coccodrillo.

 Vivere la vita che non è più quella del mio corpo […]. Tutta la parte […] che non mi appartiene – è quella che tocca nella mia frontiera con ciò che ormai non è me, e alla quale mi do.

 La cosa avrebbe dovuto cominciare attraverso un iniziale spogliarsi dell’umano costruito.

 Sento che “non umano” è un’ampia realtà, e che non vuol dire “disumano”, al contrario: il non umano è il centro che irradia da un amore neutro in onde hertziane.

 Saremo la materia viva che si manifesta direttamente, ignorando la parola, superando il pensare che è sempre grottesco.

 Io ho a mano a mano che designo – ecco lo splendore di avere un linguaggio. Ma ho assai più a mano a mano che non riesco a designare. La realtà è la materia prima, il linguaggio è il modo in cui ne vado alla ricerca – e in cui non la trovo. […] Il linguaggio è il mio sforzo umano. Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote. Però – ritorno con l’indicibile.

 La mia vita non ha senso soltanto umano, è assai più grande – è così più grande che, in rapporto all’umano, non ha senso9.

  La stessa Lispector ci riconduce quindi là dove avevamo lasciato sospeso il discorso: al punto, cioè, della qualità del pensiero esperito da queste figure umane, messe in scena nei racconti, di fronte al non-umano. E’ un altro modo di pensare, facevo notare; è un altro modo, preciso adesso, di stare nel pensiero, di concepirlo e di farne esperienza. E’ per l’appunto un modo di pensare che passa attraverso l’esperienza e (dunque) attraverso il sentire. E’, vorrei meglio dire, un esperire la realtà (di cui il non-umano è parte e, in questo momento, rappresentazione) attraverso il sentire10. E’ uno stare nella realtà scopertamente, direttamente, senza occultarla dietro a cortine di parole o concetti, ed esponendosi al rischio dell’incontro.

E’ mettere in campo, come insegna più perentoriamente e più limpidamente di chiunque altro María Zambrano, un pensare che ha fondamento nel sentire, un fidarsi dell’intelligenza che c’è nelle emozioni e viceversa un contare sulla dimensione affettiva del pensiero. E’ di conseguenza – là dove l’insegnamento di María Zambrano si fa così vicino a quello di altre pensatrici del Novecento – il lasciar vivere e correre il desiderio dell’altro, letteralmente il desiderio di altro; è il piacere di prendersene cura, e la capacità di stare in compresenza amorosa con esso11. E riprendo qui il punto che ho già indicato come massimamente importante: non mi sostituisco all’altro né lo conduco a me, ma mantengo la consapevolezza della mia esistenza separata. Mi relaziono all’altro in quanto tale, che resta tale, resta altro, mentre ha a che fare e a che essere con me. Rinvio quindi, su questo, al pensiero e alle parole di Edith Stein, filosofa dell’empatia, e delle sue interpreti12. E mi avvio a concludere indicando quale sia secondo me la portata politica della posizione che ho illustrato attraverso il tema del non-umano e la lettura dei testi delle autrici che mi sono venute incontro: la posizione, cioè, del pensare l’Altro/a non in termini concettuali ma attraverso il sentire e attraverso la relazione, spostandosi dalla via del pensiero “tradizionale”, dal modo di pensare convenzionale, nei limiti del quale l’Altro/a è, di per se stesso/a, un’impasse insuperabile, un “pensiero” che fa cortocircuito da quando Freud – era il lontano 1919 – ci ha rivelato nientemeno che l’Altro/a è (in) noi13. Figuriamoci poi se questo Altro è molto, “troppo” Altro, e mette in discussione quel poco che giureremmo di sapere di noi stessi/e. E ci fa scoprire, come è accaduto alla Lispector, che il nostro sapere è “grottesco”, il nostro linguaggio imparlabile, la nostra vita priva di “senso”.

 La portata politica dunque, oltre che teorica, di questa posizione è secondo me nel suo mostrare la praticabilità di una soggettività trattenuta dal divenire coscienza, coscienza di un io tirannico e moralista nonché ammantato di tutti quelli che Teresa De Lauretis definisce gli aspetti “lesivi” della soggettività14. E’ nell’indicare una forma di conoscenza senza violenza e senza potere, dove è in azione una soggettività che non si nutre della supposta sovranità dell’io sul mondo ma si lascia definire nella e dalla relazione. E’, infine, nel rendere plausibile una dimensione di esperienza in cui finalmente corpo e linguaggio non si contrastano, ma solidarizzano per tirare dentro al linguaggio, e dentro alla vita, tutta la vita, compresa quella che (non) siamo noi. Dopo di che, dopo cioè che tanto si è espresso ed è stato sentito qualcosa che assomiglia all’ordine puro del vivere, si è segnato un limite rispetto al quale ogni altra alterità può risultare al confronto meno drammatica, e con ciò intendo dire meno impraticabile e più comprensibile.

Monica Farnetti, Tutte le signore di mio gusto-La tartaruga Edizioni

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Bibliografia

 Boella, Laura, Cuori pensanti, Tre Lune, Mantova 1998.

Boella, Laura e Buttarelli, Annarosa, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Cortina, Milano 2000.

Brezzi, Francesca, a cura di, Amore ed empatia. Ricerche in corso, Angeli, Milano 2003.

Buttarelli, Annarosa, Una filosofa innamorata. María Zambrano e i suoi insegnamenti, Bruno Mondadori, Milano 2004.

Chiti, Eleonora, Farnetti, Monica, Treder, Uta, a cura di, La perturbante. Das Unheimliche nella scrittura delle donne, Morlacchi, Perugia 2003.

Colette, La pace tra le bestie [1958], trad. it. di Anna Morpurgo, La Tartaruga, Milano 2004.

De Lauretis, Teresa, Pratica d’amore. Percorsi del desiderio perverso [1994], trad. it. di Simona Capelli, La Tartaruga, Milano 1997.

De Lauretis, Teresa, Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano 1999.

De Monticelli, Roberta, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003.

Farnetti, Monica, “La lente scura”, in Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005.

Fimiani, Mariapaola, Kurotschka, Vanna Gessa, Pulcini, Elena, a cura di, Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, Editori Riuniti, Roma 2004.

Fraire, Manuela, a cura e con una lettura di, Lessico politico delle donne: teorie del femminismo, Angeli, Milano 2002.

Freud, Sigmund, Il perturbante [1919], in Opere 1917-1923 (vol. IX), trad. it. di Cesare Musatti, Boringhieri, Torino 1977.

Giardini, Federica, Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia, Sossella, Roma 2004.

Haraway, Donna J., Testimone_Modesta@FemaleManc_incontra_Oncotopo.Femminsimo e tecnoscienza [1997], trad. it. di Maurizio Morganti, cura e revisione della trad. di Liana Borghi, Feltrinelli, Milano 2000.

Haushofer, Marlen, La parete [1968], trad. it. di Ingrid Harbeck, e/o, Roma 2002.

Lispector, Clarice, La passione secondo G.H. [1964], trad. it. di Adelina Aletti, La Rosa, Milano 1982.

Nussbaum, Martha C., L’intelligenza delle emozioni [2001], trad. it. di Rosamaria Scognamiglio, Il Mulino, Bologna 2004.

Ocampo, Silvina, E così via [1987], trad. it. di Alessandro Meregalli e Angelo Morino, Einaudi, Torino 1989.

Ortese, Anna Maria, Fhela e il lume doloroso [1937], in Il porto di Toledo, Adelphi, Milano 1998.

Pulcini, Elena, Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

Stein, Edith, Il problema dell’empatia [1916], trad. it. di Elio Costantini e Erika Schulze Costantini, Studium, Roma 1998.

Stein, Gertrude, Teneri bottoni. Oggetti, cibo, stanze [1914], trad. it. di Marina Morbiducci e Edward G. Lynch, Liberilibri, Macerata 1989.

Zambrano, María, Filosofia e poesia [1939], trad. it. di Lucio Sessa, Pendragon, Bologna 2002.

 Note

 1 E’ evidente che inteso in questo senso e chiamato con questo nome il non-umano diverge, per esempio, dalle identità complesse e “postumane” su cui lavora Donna J. Haraway, Testimone_Modesta@FemaleManc_incontra_Oncotopo: sebbene la sua “politica dell’accumulazione flessibile” dell’identità sia di fondo implicata anche nel mio discorso. Dialogano sostanzialmente con lei, con significative aperture di prospettiva, alcune delle autrici (penso soprattutto a Elena Pulcini e a Rosi Braidotti) e degli autori di Mariapaola Fimiani, Vanna Gessa Kurotschka, Elena Pulcini, a cura di, Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale.

2 I testi di riferimento sono, nell’ordine: Gertrude Stein, Teneri bottoni. Oggetti, cibo, stanze; Anna Maria Ortese, Fhela e il lume doloroso; Colette, La pace tra le bestie; Clarice Lispector, La passione secondo G.H.;  Marlen Haushofer, La parete; Silvina Ocampo, E così via. Preciso che assumo consapevolmente come forma di narrazione anche la scrittura descrittiva, tutta tesa a cogliere nel proprio disegno la nudità delle forme, di Gertrude Stein.

3 E’ un aspetto ben sviluppato in Federcica Giardini, Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia.

4 Ho citato rispettivamente da: Gertrude Stein, Teneri bottoni. Oggetti, cibo, stanze, p. 45; Anna Maria Ortese, Fhela e il lume doloroso, pp. 128-129; Colette, La pace tra le bestie, pp. 94-95;Clarice Lispector, La passione secondo G.H., p. 110; Marlen Haushofer, La parete, p. 237; Silvina Ocampo, E così via, pp. 92-93.

5 Su questo tema, per quanto riguarda la Ortese che ne fa una specie di dolente leit-motif di tutta la sua opera, ho lavorato di recente in un saggio dal titolo “La lente scura”.

6 Su questo punto vedi ancora Federica Giardini, Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia.

7 Faccio riferimento soprattutto ai dialoghi con e agli studi di Manuela Fraire su questo argomento; della sua riflessione vi sono ampie premesse nel volume a sua cura Lessico politico delle donne: teorie del femminismo. Avviso quindi che in questo paragrafo adotto, per comodità ma anche per polemica, esclusivamente la forma maschile del fantomatico “Altro” della psicoanalisi.

8 Vedi per esempio gli esiti di una rilettura femminile della categoria freudiana dell’Unheimliche in Eleonora Chiti, Monica Farnetti, Uta Treder, a cura di, La perturbante. Das Unheimliche nella scrittura delle donne.

9 Ho citato Clarice Lispector, La passione secondo G.H., rispettivamente dalle pp. 5, 6, 6, 8, 10, 17, 22, 50, 57, 68, 98, 104, 113, 116, 156, 156, 160-161, 163.

10 Che il sentire inizi a modificare la concezione del pensiero lo dice il linguaggio stesso dei titoli di molta bibliografia filosofica: vedi indicativamente Laura Boella, Cuori pensanti; Laura Boella e Annarosa Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein; Francesca Brezzi, a cura di, Amore ed empatia; Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata. María Zambrano e i suoi insegnamenti; Teresa De Lauretis, Pratica d’amore; Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire; Giardini, Federica, Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia; Martha C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni; Elena Pulcini, Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura.

11 Tutta l’opera di María Zambrano si fonda su questo presupposto e lo lavora. Si veda però specificamente almeno Filosofia e poesia.

12 Vedi Edith Stein, Il problema dell’empatia, e in merito essenzialmente Laura Boella e Annarosa Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, nonché Francesca Brezzi, a cura di, Amore ed empatia. Ricerche in corso.

13 Mi riferisco a Sigmund Freud, Il perturbante.

14 Vedi Teresa De Lauretis, Soggetti eccentrici.

Da La vita che non siamo noi  [IV Laboratorio Raccontar(si), 2004: atti in corso di stampa]

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