Angela Chermaddi: mistici e offertorio, quando il pane è se stessi

Luciano Romano

Vorrei proporre all’attenzione un luogo scandalosamente altro, stati d’animo scandalosamente diversi da quelli comuni e abituali, una lettura che trasporta in un paese lontano ma non straniero, che rivela quello di cui noi possiamo avere solo un vago presentimento.
Condizione necessaria è l’adesione a una dimensione religiosa dell’esistenza.
In questo mondo affogato nei troppi desideri, nella frenesia del tutto e subito, proporre il distacco, la pazienza, l’accompagnamento ( e la partecipazione) in un lento cammino all’offerta totale, come la cottura del pane.

 LA POESIA MISTICA e BERNARDO DE ANGELIS in “la cottura del pane”.

Troppo ampio e vario il campo della mistica che può andare da quella operosa di Caterina da Siena a quella teologica di S. Bonaventura, a quella metafisica di Echart. Dio può manifestarsi col volto accecante della luce (l’immedesimazione gioiosa di Francesco ) o con quello impenetrabile delle tenebre ( e abbiamo lo spiritualismo passionale e tragico di Jacopone  oppure la sublime e struggente Angela da Foligno).
Se restringiamo il discorso al rapporto tra mistica e poesia notiamo che sono così vicine che a volte sembrano identificarsi. I grandi mistici sono stati, soprattutto nel Medioevo ma non solo, grandi poeti.
Purtroppo in Italia, dopo il Cantico delle creature di Francesco, i Canti di Jacopone, l’ineffabile Angela da Foligno e la prosa intensa e volitiva di Caterina da Siena, non avremo più grande poesia mistica (mistica che si chiuderà nei conventi o istituti religiosi), rifiorita invece alta nella Spagna del ‘500 con Teresa D’Avila e Giovanni Della Croce.
Il mistico, che testimonia l’esperienza intraducibile di Dio, è naturalmente poeta. Nella contemplazione il mistico sperimenta una conoscenza
intuitiva, che è nostalgia e dolore della perdita in ogni poeta, ansia e desiderio di quel senso ineffabile che in lui è visione.
Egli sale per illuminazione subendo un rapporto di identificazione in cui l’anima si apre e si dilata.
Questa esperienza non può che essere accennata, suggerita, allusa se non mediante i processi analogici dell’intuizione creativa, nel linguaggio della poesia. Solo la poesia ha la virtù di scoperta senza limiti, di ampiezza senza riserve.
La parola non ha passato né futuro,  senza memoria e senza tempo, è solo un colloquio che l’anima va sviluppando tra sé e l’invisibile interlocutore divino. Vuole trasmettere un’esperienza unitiva che avviene nella sottrazione, nell’assenza, nell’annientamento di sé.
L’esperienza mistica appartiene al regno del silenzio e dell’assenza. L’io è chiamato a immergersi in una pura passività, a un suicidio metafisico per poter raggiungere l’enigma dell’Altro.
La dinamica di ogni mistica è tra amore e nulla, pieno e vuoto, vita e morte, amore e croce. L’amore chiede la pienezza di un rapporto disposto alla più totale rinuncia.
Ogni mistico percorre una sua via. Si sente chiamato e deve aprire da sé la strada.
L’esperienza è descritta come itinerario. Abbiamo così l’itinerario di S. Bernardo, i passi di Angela da Foligno, la salita del monte Carmelo di Giovanni Della Croce, il castello interiore di Santa Teresa D’Avila dove lo spazio immaginario è griglia conoscitiva.
Sono itinerari dello spirito accesi e guidati dall’amore che è la forza più viva  attiva unitiva concessa alla creatura, e che la porta a una conoscenza amorosa.
Non si può parlare di uno sviluppo della mistica. Tutti i mistici sono un coro, liberi dai legami del tempo trascendono ogni età, ogni confine di nazione. Testimoniano Dio vivente nella loro anima.
Tema comune è l’amore. Ma l’esperienza è di volta in volta unica.
L’amore di Francesco, lode e fraternità universale, non è quello di Caterina, volto violentemente all’azione e al servizio, o quello del catalano Raimondo Lullo (m. 1315) che sente l’intima melodia della linfa perenne che percorre l’albero armonioso che è l’universo.
Non importano le tappe, i gradi o le specie di rapimenti sperimentati. Importa solo la parola dell’io coinvolto nel mistero.

BERNARDO DE ANGELIS: La cottura del pane.

Bernardo De Angelis è tutto assorbito nel rapporto con Dio,  vissuto come un problema d’amore. Egli esprime un’intimità spirituale con una presenza divina indubitabile. Il desiderio di perfezione si realizza in un’unione che si desidera si cerca si perde.
Lo spasimo amoroso ( che esclude ogni misticismo paranormale) è uno struggente interrogarsi lungo l’itinerario del nulla verso la purezza dell’essere. Assistiamo a un progressivo spogliamento che persegue una povertà nuda, l’abbandono a una passività totale sulla spinta di una passione incalzante che richiede, nell’indifferenza a tutto, la perdita del proprio essere.
“..che posso dirti, se non che ogni mio gesto/ chiede di te…”
“….perché sia tu/ a muoverti nelle mie mani”
e ancora “Non so da dove tu mi parli./ Eppure so che le parole mie/ le riempie un fiato che non m’appartiene.”
Tocchiamo la grandezza straordinaria del rapporto proposto dalla fede cristiana (la possibilità di trasformare Dio in uomo  e l’uomo in Dio) in questa mistica immedesimazione in Gesù: “..e vedo il mondo/ come se tu guardassi dai miei occhi./ Io dico cose strane, me ne accorgo,/ eppure qui, seduto, non ti penso./ Sei tu a pensare in me, tu sei me stesso”.
Nel procedere della vicenda interiore l’anima si immerge in una disposizione perfetta di ascolto preparata con la purezza che esige un continuo scavo.
“L’ho lacerato, Dio, l’ho fatto a pezzi,/ l’ho sviscerato, il cuore, l’ho anatomizzato/ per togliervi anche la minima pagliuzza// E’ vero che non so se fosse questo/ l’esatto tuo volere. Forse ho travisato./ Magari sei più buono, tu, di quanto io creda”.
Protesta la sua purezza con la veemenza dell’amante non corrisposto, con un tono che nella sincerità dell’ardore quasi perde l’umiltà: “ Puoi accusarmi di ogni colpa/…però, vediamo se hai il coraggio/ di dirmi che non t’amo”.
“Io non so cosa manchi al mio amore”.
“..avere il tuo nome tra le labbra/ e non sapere altro/ che il ritmo dell’eco silenziosa/ che lo ripete”.
De Angelis è poeta della solitudine e del silenzio che solo può ascoltare la parola senza suono. Immerso in un vuoto che contiene tutta la densità.
Così ci porta l’ala impetuosa e avvolgente della sua poesia, della sua vocazione ascetica.
Attratto dall’amore divino, non va incontro ad esso con le espressioni liete e festanti, che troviamo, ad esempio, nella grande poetessa delle Fiandre contemporanea di Francesco, Hadewich, piena di colori e luci della primavera. De Angelis vede solo il suo interlocutore. La natura non è presente nemmeno come cenno simbolico ( ad eccezione di un riferimento all’erba: “Ciò che mi piace, adesso, è l’erba/ che s’innalza da terra solo un palmo./ Persino la ginestra, adesso,/ mi sembra che sia troppo superba”).
Anzi, chiede perdono se un altro qualsiasi pensiero lo ha distratto: “…T’ho forse tradito? t’ho forse confuso/ con le cose del mondo?…”
Nel suo spazio come un’ombra s’allunga, in un progressivo struggente congedo dalle cose e dagli amici, un venir meno di ogni legame col mondo: “ Cadano le sbarre infine a questa gabbia/ ed io, già scorticato allora/ vedrò abbracciarsi amore e desiderio”.
La pazienza è il mezzo per dominare la sete inestinguibile, la pazienza nel miele del silenzio diventa abitazione di Dio. “ Sei tu il mio luogo/…/ tu che sempre te ne vai”.
Troviamo in Bernardo De Angelis l’esigenza di purezza e silenzio interiore, la pazienza, che abbiamo trovato in Giovanni Ruysbroek, monaco fiammingo del ‘300, il quale annienta le passioni con l’umiltà e la semplicità. Ma l’itinerario di Ruysbroek è sempre luminoso, quasi inno alla gioia, fusione dello spirito che si innalza nella gioia in Dio.
La poesia di De Angelis può essere considerata vicina alla suggestiva poesia di Giovanni Della Croce (1542-1591), ma certamente meno complessa per l’abbondanza di senso che l’autore del “Cantico spirituale” si propone nella sua sintesi di sapere e sapore.
Oggi la contemplazione mistica guarda più alla passione di Cristo.
Katharina Emmerick, che è stata, ai primi dell’800, ponte con le grandi mistiche del passato, “amica speciale di Dio”, assumeva su di sé le sofferenze altrui. La mistica, non più nuziale (ricomparsa nelle esperienze di estasi e nelle piagnucolose pretese di affetto di Gemma Galgani, 1878-1903), ha il suo centro nell’olocausto. Amare significa patire. Le immagini nuziali sono soverchiate dal Cristo sofferente.
In Italia la mistica contemporanea è letteraria, spuria, una specie di mistica di ritorno che si esprime per lo più in forme diaristiche, in lettere e messaggi.
Troviamo una spiritualità conformata alle idee di vittimismo in Lucia Mangano (1896-1946) che, in una prosa spoglia e essenziale, descrive il confronto fra il sé difettoso e annichilato e il misterioso visitatore. La scelta come sacrificio e riparazione appare nella carmelitana Angela Gavazzi la quale, nel dettato incolore e dimesso di lettere e appunti, fa analitica rassegna dei dati interiori con distaccata oggettività.
Bernardo De Angelis è lontano da tutto questo. Tanto più lontano dall’eloquenza patetica e dalla passionalità accentuata della molto discussa Maria Valtorta.
Egli vive nella rinuncia, nell’ora inesistente, fisso nel proposito di “ saper essere vuoto/…/ perché possa apparire tu solo”. E ancora: “ Ridursi/ Non voler essere niente/ e lo spazio occupato da me,/ dal mio corpo,/ sia solo un buco di luce”.
E’ straordinario il suo abbandono fiducioso: “puoi poggiarmi dove vuoi, mio Dio,/ come un oggetto che sposti a piacimento”.
Tutta la vita tesa nel silenzio dell’ascolto. Addirittura ( chi lo conosce può confermare) il poeta parla sottovoce e, come confessa nei versi, cammina lentamente perché le scarpe non facciano rumore  “e non perda di te il mormorio che sento”.
Nell’attesa dell’ora sconosciuta, aspetta paziente che il tempo scorra.
“Devo solo regalarti un altro giorno/ e un altro giorno e un altro giorno ancora.// Devo solo regalarti anche quest’ora/ e ancora un’altra, una alla volta, e il tempo/ faccia il suo dovere: scorra”.

E’ come un lasciarsi morire per colmare la distanza che lo separa dall’Essere. E’ un lento processo di preparazione a identificarsi col pane. Imparare ad amare dello stesso amore, imitare Gesù fino a diventare pane da offrirsi in nutrimento.
Ecco la paziente cottura che troviamo nel titolo dell’opera, La cottura del pane.
Intenso, trascinante,  ma essenziale e discreto, esercita la pazienza anche come misura della lingua.
Se l’esperienza mistica sta nel superare le differenze e raggiungere l’uno, De Angelis è ben lontano dall’esprimere le contraddizioni del mistero con antitesi, ossimori e tautologie di ogni specie ( che troviamo, ad esempio, nella forma più esasperata, nella dizione della carmelitana del ‘5oo, Maria Maddalena de Pazzi), in un convulso oscillare tra diversità e uguaglianza col divino termine di paragone.
La sua poesia è la confessione di un nudo patire, accettato con dolcezza, quasi col timore che la sua assenza possa significare un abbandono della volontà dell’Altro di purificarlo.
L’anima macera lentamente sottovoce. Non ha né le grida di Jacopone, né gli entusiasmi esaltanti di Teilhard De Chardin che, nel suo “Inno dell’universo”, vede il mondo incandescente divenuto, per misteriosa espansione, un sola grande Ostia che irradia all’infinito vita e bellezza.   Né le astrattezze luminose di Edith Stein, o lo struggente interrogarsi di Simone Weil.
O, per venire in Italia, rifugge dalle vibrazioni ardenti e immaginose dell’esaltato panismo dei Canti della poetessa Donatella Bisutti nella raccolta “Rosa alchemica”.
Aspirante alla perfezione, vive in un suo luogo separato, lontano anche da sé, alla fiamma del silenzio, estenuandosi nell’attesa di varcare il confine, che non è desiderio della fine ma invocazione di una vita piena feconda, desiderio della vera patria.
Il poeta afferma che forse si dovrebbe imparare da chi si gioca la vita per una passione, ma non si sente chiamato al fare: “  Io non so progettare battaglie, lo sai./ Non so conquistarti reami/ ( può darsi che sia un mistico infedele)// Ma so forse lasciarmi morire/…/ lasciare che tutto si compia/ si consumi pian piano./ Lasciare che tutto si perda,/ meno il tuo nome”.
(Da notare che l’immobilità del mistico non è pigro abbandono ma  intensa dinamica negli stati di contemplazione adorazione.)
Il suo vivere è “..come se non./ E aspettare che passi”. E’ stare sulla cresta del nulla in punta di piedi, l’anima accordata al ritmo segreto, attenta, vibrante, e lasciar finire le cose, e, anche se la sua umanità protesta e il sangue si ribella a vivere di niente, accettare il nulla che Dio gli impone.
“Forse è vero, Dio mio, che a volte/ invidio agli uomini la vita:/ che possano nutrirsi e io digiuni”. Struggente il suo accenno al seno di donna che intenerisce, quando afferma di averle offerte intatte queste cose “ come una pagina strappata/ senza averla letta ancora”.
Con Arturo Paoli, piccolo fratello di Foucauld, condivide la pazienza del nulla ( titolo dell’ultimo testo di Paoli scritto nel 2012 a 99 anni), però, a differenza di Paoli, che dagli inferi dell’esperienza del deserto e del nulla, risale  ritrovando l’Amico, a testimoniare una mistica aperta al mondo, il bisogno di Cristo nella storia, lui scrive: “ Mi sono gettato in mezzo al nulla/…come uno che è partito”. E si chiede per quanto tempo dovrà vegliare per essere puro, perché cadano dalle vesti le polveri del mondo.
Tuttavia è pieno di commozione per le creature che non reggono la vita e sente l’impegno di portare Dio nel mondo, di essere una voce, un dito. “ Non più io: soltanto voce/ che è tutta in ciò che annuncia,/ un’onda d’aria, solo, senza corpo,/ senza nulla che sia suo, senza più storia”.
E riferito al mondo: “ Non sapevo come amarlo, un tempo./ Adesso, forse,/ come un’amante cui si lascia un figlio”.
Uomo denudato, appassionato ( e in questa passione si intende la fiamma dell’amore, la passività, e il patire), tizzone ardente, offre la sua poesia come caldo pane.
La sua missionarietà si esplica con la forza della sua parola che apre spazi che la comunicazione quotidiana non consente di esplorare.
Potremmo chiederci perché il mistico della lentezza, della pazienza, del silenzio, senta la spinta a scrivere, comunicarsi nella semplicità di versi coinvolgenti e appassionati.
Heidegger scrive che “il linguaggio è la casa dell’essere, e gli uomini abitano questa casa”. L’esserci dell’uomo è caratterizzato dal fatto che esiste come parlante, e attraverso il linguaggio diventa possibile l’incontro.
Nella poesia l’uomo è raccolto sul fondamento del proprio esserci. Essa diviene così il luogo privilegiato di congiunzione con l’Essere.

“ Tu sei tutto ciò che ho da dire”.

Bernardo De Angelis è sacerdote appartenente all’Istituzione dei Missionari Identes fondata nel 1959, per una nuova evangelizzazione che compia il restauro spirituale e culturale delle persone e degli ambienti, dallo spagnolo Fernando Rielo Pardal (Madrid 1923-New York 2004) fecondo autore di opere filosofiche  e poeta mistico. (Nella poesia di Rielo Dio è amico, compagno di giochi, nido di lacrime e riso, elargitore di baci che nella gioia della creazione continua danno vita nell’aria a fiori e uccelli).
Per imitazione e consiglio del padre fondatore tutti i missionari identes si esercitano nella poesia mistica, invitati a guardarsi dentro alla ricerca della presenza e della parola divina nel proprio intimo.
“Idente” deriva dallo spagnolo Id che significa andate. Identes sono coloro che vanno, secondo il mandato di Cristo, ad annunciare il Vangelo. I missionari, maschi e femmine, non hanno un abito particolare; le donne sono sobrie ma eleganti nel vestire con l’aggiunta di qualche piccolo gioiello e a volte un filo di trucco  – belle per il loro Sposo – ragazze dall’apparenza normalissima. Vivono di solito nel mondo in mezzo agli altri, si mantengono col proprio lavoro, abitano in casefamiglia in città o eccezionalmente in qualche convento affidato loro in custodia.
I voti sono quelli di sempre: povertà castità obbedienza. Il carisma è la santità, l’aspirazione a essere santi nella sequela e identificazione con Cristo, vivendo e testimoniando il Vangelo.
Esistono anche missionari laici, e anche sposati.
L’Ordine si va rapidamente diffondendo in tutto il mondo, affascinando tanta gioventù, specie in Asia e nelle Americhe.
E, con la chitarra a tracolla insieme a un amico, si presentò un giorno a una famiglia idente il giovane universitario Bernardo De Angelis, chiedendo di essere accolto.
A ciascuno di noi è rivolto l’invito: seguimi.
O te ne vai triste, o accetti la sfida: sii santo come io sono santo.
E, come si sa, i giovani sono attratti dall’eroismo.
Dice Bernardo che il problema della vita non richiede tanto il ragionare, quanto lo scegliere: o sì o no.
E prova a svegliarci, ad attrarci col suo sì perseverante, astinente dai desideri del mondo che ci rubano la mente, il suo sì al consentire la cottura vegliando nell’ascolto dell’ineffabile alfabeto.
E’ un sì che spiazza tutta la sofferta ricerca di una vita (sentirsi in ricerca esime da impegni), un sì che inchioda nella propria cecità e insincerità, superba volontà di capire e incapacità di amare.
I miei vari cammini, sia per altopiani e vallate (spagnole verso Santiago) o per misteri di speranza, ascensioni a vette per breviari di pietra, oppure su volti segnati dalla vita, sempre fuga erano e mai esodo vero dall’io.
Le liriche di Bernardo vanno dritte come un pugno, sfondano l’orizzonte e ti specchi nella tua verità.
Mi sono imbattuta ne La cottura del pane solo lo scorso agosto, dono dopo un incontro.
Avevo già letto i suoi commenti al Vangelo e conoscevo l’Ordine dei Missionari Identes, incuriosita dal fatto che come compito dai superiori o penitenza fosse loro indicato di scrivere poesie sulla propria esperienza di Dio ( vengono svolti annualmente concorsi mondiali di poesia mistica e musica sacra).
Il professore De Angelis teneva  una lezione a un corso di filosofia, la moltitudine dei giovani col respiro sospeso. Il dialogo rarefatto, pacato, quasi sottovoce. La forza di chi sa la direzione.
E’ questa la proposta di Bernardo De Angelis: il silenzio dell’ascolto interiore in un mondo oppresso da una pesante cappa di parole suoni e rumori. La pazienza del nulla in un mondo che ha perso ogni misura.
“L’importante, infine, è solo/ lasciare più amore che si possa”, essere un dono che si fa pane per nutrire gli altri.
La cottura del pane” è un bagno nella pienezza di ascolto e donazione.
Il nulla è già nell’esperienza di tutti, e domanda per tutti la pienezza.
Abbiamo bisogno dei mistici, di chi semina in noi il lievito per andare oltre il visibile.

Da giovane t’offrii la vita

 come fosse un legno da bruciare.

 Chissà, forse pensavo

 che fosse facile infiammarsi,

 consumarsi in pochi istanti

 come nel fuoco la falena

Non sapevo la pazienza.

 Ora te l’offro, invece,

 come un pane che si cuoce

 x

 A volte non resta, mio Dio,

 che contare i secondi

 ascoltando il cuore che batte

 ed esistere al tempo che scorre davanti

 e riempirlo d’attesa, pazienti.

 x

 Tu vedi: consumo il mio tempo

 in cose di quieta

 apocalittica pazienza:

 avvito il tappo a una bottiglia e penso

 che un gesto in meno mi separa dal tuo giorno.

 x

 E’ una cosa che ho già dato tante volte,

la mia vita,

che vuoi che sia se un’altra volta me la chiedi.

 

E’ una cosa cui sono abituato,

a vivere nell’ora inesistente,

con il piede e la fronte in altri luoghi.

 

Che vuoi che sia, perciò, se un’altra volta

dovrò strapparmi il cuore.

Aspetto che il tempo mi spogli.

 Intanto sto fermo.

 Non cerco altre cose.

 Aspetto che il tempo mi svesta

 e mi resti soltanto l’essenza.

 

 Non ho nulla da fare

 Non so se sia colpa, davvero.

 Forse tu non mi hai dato l’agire.

Devo solo esser puro.

 E le cose accadano intorno

Bernardo De Angelis è nato nel ’59, missionario idente, ha insegnato per molti anni lingue e letterature classiche nei licei e all’Istituto Patristico Agostinianum. Tra le sue pubblicazioni Il tempo ormai (testo di poesie ormai introvabile), Volavolando (racconto),  Lectio Iohannis, tre volumi di meditazione sul Vangelo: Non temo alcun male, Sapore e sapienza, Con voi tutti i giorni, la raccolta di poesie La cottura del pane, e numerose opere di carattere scientifico nel campo della patristica e della metafisica. E’ traduttore in italiano delle opere del fondatore della Congregazione Idente, lo spagnolo Fernando Rielo. E’ stato per vari anni rettore del Santuario Corpus Domini a Bologna, ora vive con due confratelli in un convento a Atessa (CH).

 Angela Chermaddi

4 Comments

  1. Ricevuto un po’ di tempo fa. L’ho letto e riletto questo breve saggio e ho riflettuto sui passi che il testo propone. La mia opinione, in breve, è che mi sembrava avesse un taglio che poco si addice a questo blog, agli obiettivi di cartesensibili, poiché nettamente, anzi decisamente, o come dice l’autrice stessa, spudoratamente di parte, quella cattolica, non solo cristiana. Poichè nel nostro blog affluiscono persone con ideologie e fedi diverse, ho ritenuto di non pubblicarlo per non ritrovarmi uno stuolo di fanatici religiosi come lettori. Di mistiche, per esempio, ne ho scritto anch’io, personalmente molto mi ha interessato l’operato di Ildegarda di Bingen, tra le mistiche una di quelle che apprezzo particolarmente, perché ha dato un’ampiezza allo sguardo, non l’ha chiuso alle pratiche chiesastiche, a quelle tipiche del monachesimo ma ha aperto cuore e mente costituendo connessioni prima impensabili tra discipline di certo non facenti parte delle pratiche consuete delle monache.Non c’è solo la croce, non c’è solo la sofferenza ma anzi entra una luce fresca di gioia e pienezza della vita. Nel testo, a mio parere, invece c’è la chiusura del credo cattolico cristiano: la sofferenza, la croce come misura della vita che, a mio parere, ha un timbro crudele, certo, senza essere il chiodo conficcato da un uomo dentro la carne di un altro come lui,c’è una regola ferrea, quanto una corona di imperatore, e non di spine da vivere nel roseto.
    “Tocchiamo la grandezza straordinaria del rapporto proposto dalla fede cristiana (la possibilità di trasformare Dio in uomo e l’uomo in Dio) ” Non credo che spetti ai cristiani alcun primato:se dio c’è è dovunque ed è ogni cosa, io compresa e tu , intendendolo come ogni altro uomo o animale o cosa,persino la cacca di una gallina è dio e non mi sento blasfema nel dirlo. C’è naturalezza in dio,così tanta che in chiesa lo si dimentica,come lo si dimentica in gesti di sconsideratezza per cui dio farebbe determinate cose e altre no. Ecco credo che questo allontani, non avvicini noi tutti,attorno a ciò che ci brilla in corpo, che lo si voglia o no, senza nemmeno dovergli dare un nome.
    Per questo ho tardato a pubblicarlo, per il taglio che ha tutto lo scritto, che dimostra altresì una notevole conoscenza bibliografica sul tema.Spero di aver fatto chiarezza sulla mia posizione. fernanda f.

  2. Cara Fernirosso,
    anzitutto grazie per aver comunque deciso, nonostente le sue perplessità, di pubblicare lo scritto di Angela Chermaddi sulle mie poesie.
    Vorrei però chiederle: che problema vede nell’essere “spudoratamente di parte”? Io penso che il nocciolo della questione non sia l’essere di una parte o dell’altra, ma nell’essere onesti. Se lo si è, si può parlare, ci si può incontrare, tanto più profondamente quanto più profondamente si vivono le proprie convinzioni (o verità: perché quando si ha quest’onestà necessariamente si conosce qualcosa della verità). Credo sia bello parlare con una persona “di parte”, come è bello parlare con una persona di cui si conosce il nome, e la famiglia, la patria, la vita, la storia.
    Non è neppure questione di primati. Certo che Dio (che io scrivo con la maiuscola, perché è una persona – anzi, da cattolico, dico che sono tre – e posso parlarci) è in ogni cosa. Ma penso anche che non sia così scontata la nostra partecipazione alla sua vita. Se lo fosse, questo me lo concederà, il mondo sarebbe un po’ diverso. Il dramma sta tutto qui.
    Lei vede chiusura nei miei testi. Può darsi che sia vero, non posso fare l’esegeta di me stesso. Però le chiedo: non è l’amore stesso (una faccia almeno dell’amore) una specie di “chiodo nella carne”?
    Grazie ancora,
    Bernardo De Angelis

    1. nel commento, che lei ha certo letto, ho spiegato i miei dubbi sulla presenza in questo blog di questa presentazione.L’incontro tra queste “non pareti” richiede tempi e modalità che non sono quelle dell’incontro personale, fisico, e non è nemmeno uno scambio epistolare. Di fatto, anche “sapendo” nome cognome, indirizzo,nazionalità e tutto il resto, di fatto, ripeto, non so nulla dell’altro e qui doppiamente non se ne sa nulla, perché molti danno connotati che non corrispondono ai veri nomi cognomi ecc. E’ difficile scegliere nelle discussioni se c’è o non c’è la bontà della parola o non sia provocazione, e qui tutto passa per la moderazione, perché non accettiamo la mancanza di rispetto. In ogni caso questo blog cerca l’uomo, non dio, e lo scrivo minuscolo, anzi lo scriverei ancora più in piccolo, perché personalmente penso che raggiunga possibilità di piccolezza che lo rendono nullo e tutto, non solo trino, come nella modesta visione che ci viene proposta nell’orizzonte della nostra piccola chiesa. Anzi sono dell’idea che tutto di dio ci sfugga, tranne semmai l’intima tensione che in ciascuno può mettere una sua sentita presenza. Di questa tensione e relazione posso occuparmi, in questo blog, se apre anche ad altre relazioni in cui centrale è l’uomo, la sua natura, modesta e meravigliosa,partecipe sempre di un infinito che lo rende questo e quello, passato remotissimo e futuro ma in cui l’amore non è un chiodo ma un chi-odo. Credo che gli uomini abbiamo manipolato se stessi e dio in una misura che non competeva e non compete loro e che il pensiero sia l’artefice spesso di grossolani camuffamenti. Dio non abbisogna di parametri, di chiodi e croci, di simboli, di chiarimenti, siamo noi, che passiamo di travaglio in travaglio ( e non a caso uso questa parola) per nascerci ma spesso per perderci.L’amore duole quando non c’è, l’altra, la percezione della presenza d’amore, è oltre questa misura e preme in noi fino ad una grandezza di meraviglia in cui si piange sì ma non per male, né per dolore. Duole invece tanta miseria umana prodotta dagli uomini nei confronti di loro pari,uomini anch’essi, penso che c’è gente che nemmeno può fermarsi “a pensare al pane” e alla sua cottura, perché vivono di miseria, in uno squallore prodotto e mantenuto tale dagli uomini. fernanda ferraresso

  3. Carissima Fernanda Ferraresso,
    chiedo scusa se mi permetto intervenire in questa discussione a distanza di tempo.
    Lo faccio solo perchè oggi ho partecipato al funerale di P. De Angelis… l’ho conosciuto personalmente e le posso solo garantire che era uno della “gente che nemmeno può fermarsi “a pensare al pane” e alla sua cottura” perché è vissuto nella miseria ma non l’avrebbe mai detto a nessuno.
    Grazie per l’ospitalità e distinti saluti.
    Cassio.

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