antonio nunziante
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La poesia vista sotto la specie del semiologo, che è anche poeta, è la cifra di questo libro, che vuole contribuire al discorso sulla poesia. Una dimensione metapoetica che vuole aiutare a rispondere ad alcune domande su uno dei generi letterari più nobili, mi verrebbe da dire il più nobile, anche se a guardare le vendite dei libri di poesia come corrispettivo dei lettori di questo genere letterario ci potrebbe far dire che la poesia è nobiltà decaduta. Lo sforzo di Daniele Barbieri si spende proprio per una rinascita della poesia dalla debacle. E si interroga su quella che è l’identità e la specificità della poesia, incentrando le sue riflessioni sul linguaggio della poesia. Che non è tanto analogabile alla langue, che rappresenta la parte codificata e più strettamente linguistica della lingua, ma “enfatizza questa componente, locale e idiosincratica, di parole”. Parole che si basa sulla contingenza del momento, sull’uso particolare individuale e personale che specifica la peculiare combinazione delle parole. Per essere più chiari, mentre il linguaggio ordinario è più aderente alla langue, il linguaggio poetico si allontana dalla langue per una quasi coincidenza con la parole. La poesia ha a che fare con la comprensione, con l’emozione e col ritmo. Ma è importante sottolineare come “la fruizione del testo poetico non si esaurisce con la comprensione”. Non è importante soltanto capire, leggendo la poesia, ma è anche un’occasione di immersione con caratteristiche di condivisione di una certa ritualità del qui ma anche dell’oltre. Questo significa che nella poesia ha importanza il ritmo, nella sua dimensione sonora e nella sua dimensione di significato. Motivo per il quale Barbieri si dilunga sulle analogie tra la poesia e la musica, con una disamina sulla metrica, metro e ritmi, che caratterizzano la poesia dalle sue origini fino ad arrivare al verso libero. La dimensione ritmica del suono, come anche la dimensione ritmica semantica (legata alle figure quali la sineddoche, la metafora, la metonimia, etc.), che si snoda in una ritmica comprensione del senso (oltre che del significato), hanno una caratteristica di fondo, che rende tipica e specifica la poesia, che è quella dell’immersività. I ritmi del significato e del significante nel loro prosodico dispiegarsi vibrano dentro chi legge e dentro chi ascolta la parola poetica, e nella loro confluenza determinano l’emozione. Ma se queste sono le caratteristiche della poesia, quali sono le specificità del poeta? O meglio chi è il poeta? Barbieri dice che bisogna distinguere “il poeta da chi scrive poesie”. Innanzitutto vale per il poeta il concetto dell’immersività totale, nel senso che non basta scrivere una poesia ogni tanto, ma si deve avere una consuetudine quasi quotidiana alla scrittura. Come non può essere sufficiente trascrivere le proprie emozioni. La poesia infatti è una creazione di un oggetto comunicativo con sue proprie caratteristiche ad hoc (abbiamo visto sopra) che riesce nella sua autonomia testuale a produrre emozioni nel lettore a prescindere dall’autore. “È un poeta dunque chi scrive poesie ponendosi il problema di come costruirle al meglio, in modo che agiscano con la massima efficacia”. E quali sono allora le regole del poeta? In effetti, il poeta non pensa alle regole quando scrive, ma segue un percorso in cui è totalmente immerso. Se regole ci sono, queste sono in primis la sensibilità (che non basta, e che comunque è difficile poter definire), e quindi un fatto di gusto di stile di assimilazione, formatosi attraverso la pratica e la frequentazione assidua della poesia e dei poeti. Insomma, il poeta, per essere tale, deve essere anche un insaziabile lettore di poesia.
Prof. Maurizio Soldini ( Sapienza Universitá di Roma)
Daniele Barbieri, Il linguaggio della poesia, Bompiani, 2011
Riferimento: AVVENIRE 27 luglio 2012
Sono una biologa marina con la passione fortissima della poesia; scrivo e leggo poesie da quando ero ragazzina. Negli ultimi due anni ho pubblicato due sillogi e ho iniziato a partecipare ai concorsi letterari. Da outsider quale sono, man mano che mi addentro nel “mondo della poesia contemporanea”, mi pongo sempre più spesso una domanda: cosa si intende oggi per poesia? La mia è una domanda che riguarda soprattutto la forma. Sulla sensibilità di chi scrive poesie non ho dubbi. Ho letto opere in sillogi premiate (anche di autori che oggi sono molto “quotati” anche all’estero), che a me sembrano piuttosto “prose poetiche” e non vere poesie, almeno per l’idea di poesia che ho io. Questa domanda me la pongo ovviamente leggendo opere scritte in versi liberi e mi chiedo: qual ‘è l’autonomia del poeta che scrive in versi liberi? Secondo il mio modesto parere (cioè, da non addetta ai lavori), comunque anche con il verso libero si dovrebbe cercare una certa musicalità (cosa peraltro difficilissima quando si scrive in versi liberi!). Mi chiedo ancora, dunque: non esiste più una “definizione di poesia”? E’ tutto affidato alla discrezionalità e al gusto di chi legge, amanti della poesia, critici letterari o membri di giuria che siano?
Ho molto apprezzato, quindi, la recensione del prof. Soldini e penso che acquisterò il libro del prof. Barbieri.
Grazie
Ester Cecere
Poeta è colui che scrive parole pregne di sentimenti, con musicalità e ritmi simili a musiche di Mozart o di Beethoven e poi devi sentire i versi confondersi con il mare.
Se muore la poesia muore anche l’anima
si discute molto di poesia e si scrive forse poca poesia e tutto di tutto un po’. Dire che se muore poesia muore l’anima mi sembra troppo,credo che l’anima abbia una vita più complessa di quanto poesia possa dire, purtoppo dire non ire, non vivere se non nel riflesso che il poeta lascia per gli altri e per sé. Poesia è libera. Le gabbie, gli schemi, le orditure sono trappole umane per vedere attraverso poesia la vita.Ogni tanto si riesce a sfiorarne un abito, il profilo di uno dei volti in cui si con-figura ma credo sia profondamente più vicina al buio delle profondità marine o a quelle cosmiche anche se inizia a percorrere un semplice grano di sabbia.
Tratto dall’intervista “Che cos’è la poesia?” – Milano, abitazione di Franco Fortini, sabato 8 maggio 1993
– Nel parlare comune, “poesia” significa due cose: per un verso è un discorso, o ragionamento, o comunicazione, in cui prevalgono elementi di ritmo, cadenze, ripetizioni, immagini che alterano i significati immediati delle parole e che gli conferiscono anche significati interiori. Poi c’è un altro significato: quando noi diciamo: “questa è poesia”, intendiamo dire qualcosa di elevato e di nobile, di rassicurante o di commovente o di rasserenante, di vivace, pungente, ecc.
Una poesia breve, di versi molto ritmati, molto connessi da assonanze o da omofonie, che cosa presenta prima di tutto? Presenta proprio la propria dimensione fonica o ritmica. Ecco per esempio alcuni versi di Marino Moretti:
“Lenta lenta lenta va
nei canali l’acqua verde
e co’ suoi cigni si perde
nella grigia immensità
Oh dolcezza del mio cuore
dei miei sensi un poco stanchi!
Vanno i cigni i cigni bianchi
sullo specchio dell’amore”
Prendiamo invece un esempio di poesia senza rime, con ritmi meno insistiti, con pause ritmiche meno folte: che cosa tenderà a venire avanti e diventare importante? Il tema, l’argomento, la vicenda. Prendiamo ad esempio alcuni versi di Pavese:
“Vent’anni è stato in giro per il mondo.
Se ne andò ch’io ero ancora un bambino
portato da donne e lo dissero morto.
Sentii poi parlarne da donne,
come in favola,
talvolta ma gli uomini più gravi lo scordarono…”
Chi ascolta i versi di Pavese fa attenzione soprattutto al racconto della vicenda dell’emigrante, e solo dopo avverte che c’è una cadenza da cantastorie, da discendente di Omero. Invece chi ascolta quei versi di Moretti, che ho detto prima – “lenta, lenta, lenta”, ecc. – ascolta prima di tutto la melodia e solo ad un secondo livello si accorge o può capire che stiamo parlando di un canale olandese.
Mi faceva impressione, poco tempo fa, leggere un passo di Goethe vecchio che affermava: “quando si hanno delle cose da dire si dicono in prosa; è quando non si ha nulla da dire che si scrivono poesie”. Questa affermazione è abbastanza sorprendente, considerando che chi diceva queste cose aveva scritto una massa di poesie sterminata per tutta la sua vita. La poesia non vuole comandare, non vuole persuadere, non vuole indurre, non vuole dimostrare. Certamente la poesia si impone, ma riesce ad imporsi con l’autorità dell’istituzione letteraria che essa evoca o rivive, con l’adempimento di un rituale, di un cerimoniale.
In altre parole si può dire che anche la poesia più apparentemente privata chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore non individuale del linguaggio, produce un senso. Tutte le forme del codice poetico, non solo le forme liriche, sono state all’origine forme di comunicazione: poi la storia della cultura le ha trasformate, le ha redistribuite e una parte di quelle forme di comunicazione sono state messe da parte, sono divenute il modo poetico di comunicare. –
è molto importante l’ ultima frase: “il poeta, per essere tale, deve essere anche un insaziabile lettore di poesie”. Verissimo ! Ed è proprio leggendo che si ampliano i territori delle nostre conoscenze, soprattutto perché si viene a contatto con infinità di linguaggi, stili, atteggiamenti, posizioni, storie, impressioni e musiche completamente diverse fra di loro. In fondo il linguaggio dell’ arte esiste proprio perché si è sempre calato nel suo mistero e nel fuoco che divampa venendone a contatto, e ognuno brucia di una fiamma uguale ma diversissima dalle altre. Ecco perché alla fine è sempre difficile giungere ad un pensiero comune. Ricordiamoci che la poesia era iniziata come un canto (l’ Iliade, l’Odissea, la Divina Commedia… solo per citarne alcuni) e come tale rimaneva perché doveva raccontare delle storie e nello stesso tempo doveva “suonare” la sua melodia. Forse noi, oggi, abbiamo altri mezzi per raccontare altre storie, basta ricordare che una volta l’ arte era al centro della società, poi, dopo la rivoluzione industriale, questo posto è stato preso dalla scienza e l’ arte è stata spostata ai margini di essa, e l’ artista a sua volta è diventato “un anarchico” ma, ha continuato a raccontare le sue “storie” in una maniera diversa, e ognuno ha preso la sua strada, più semplice, più tortuosa, più misteriosa. A New York c’era un poeta portoricano di nome Jorge Brandon che andava in giro per le strade leggendo in continuazione una poesia senza fine, e quando si stancava o doveva fermarsi per le esigenze della sua vita, attaccava un registratore che portava al collo, e la sua voce registrata continuava per lui. Sembrerà strano, ma tutti lo stavano ad ascoltare, e non per prenderlo in giro, perché raccontava le storie di tutti i giorni, le storie di tutti noi