TEMPIQUIETI- V. Ravagli: “Dell’invecchiare e della morte”. A Ca’ Vecchia le donne s’incontrano parlano si raccontano e …[Prima parte]

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I giorni del 5 e 6 maggio a Ca’ Vecchia hanno trasmesso, alle donne che hanno partecipato, una grande serenità, il piacere dell’incontro, la magia del ritrovarsi nei racconti delle altre, la gioia del poter condividere, di approfondire, di capire meglio ed anche di liberare i propri sentimenti, scambiandosi amicizia. Sono stati davvero Tempiquieti. L’incanto del parco, la bellezza della luna piena, hanno reso indimenticabili questi incontri. Così cerchiamo di trasmettere un poco di quella atmosfera in Cartesensibili, con Fernanda che era tra noi e raccoglie i nostri scritti, le nostre parole, con Anna Maria Farabbi, che concluderà. Aggiungeremo anche altro, scritti ricevuti sul tema o portati da noi e non letti per mancanza di tempo. Queste pagine usciranno via via, mantenendo vivo il filo che ci lega.

Vittoria Ravagli

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matteo nannini– overfloating

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Ha ragione Vittoria nell’affermare che quei due giorni a Sasso Marconi sono stati speciali. Eppure, fino ad oggi, non mi è stato affatto facile dire e scrivere di quel giorno, di quell’immersione. Ogni volta, cercando di trovare la via giusta, finiva che  perdevo la pista, perdevo cioè l’essenziale.   Erano molte le donne convenute a quell’incontro. Alcune le avevo  conosciute attraverso la rete, altre personalmente e da lungo tempo, la maggior parte però mi era sconosciuta. Ma. Non era certo quello il problema del mio inceppo. Tra loro, di età diverse, sembravano avvolgersi e svolgersi fili e fibre di sostanze all’apparenza non lavorabili in una sola  trama. Giovani e meno giovani erano, contrariamente a quanto si può pensare a causa degli acciacchi o delle prove spesso tragiche che la vita ci riserva, tutte e comunque vive, vivissime e presenti. L’una all’altra presenti. E accorciavano alla misura di un abbraccio  un gesto di affetto, la premura dell’ascolto, che solo le donne sanno scambiare reciprocamente, senza peso di legame  se non il fatto d’essere insieme, anche  in quell’acqua che sembrava all’inizio scura, dolente, di cui ciascuna aveva timore perché acqua di frattura e cordoglio e che, solo nel disfarsi della trama, non nell’annodarla, si faceva acqua vitale  e fibra da lavoro nuova, più forte e sensibile di prima. C’erano donne venute da città e paesi diversi e stavano sedute le une accanto alle altre, ciascuna scioglieva un nodo durissimo, perchè questo è la morte. Ciascuna lo faceva ascoltando le altre come altre  se stesse.  E si spiegavano, quelle donne, piegandosi ciascuna ai propri punti critici, toccando le nocche di sofferenza a lungo patite e spesso riposte, lontano dagli occhi, chiuse in parole lasciate silenti lungo il cammino. Spesso, nell’orto di poesia, cercavano la radice succulenta, il fiore di lattuga da spartire, per farne nutrimento, come se quella parola, pronunciata a voce alta, da una donna all’altra, costruisse un sentiero tra terre e tempi lontani e di tutto  disegnasse un ponte nell’oralità dei fiati come paesi di accoglienza in cui abitare sempre, senza dolore di distacchi. Gli scritti, a cui ciascuna si è appoggiata, per non perdere i tanti fili della matassa, erano i fi(g)li  di lana e di cotone, erano gigli lavorati a trama quotidianamente diversa, eppure tutti affrancati in una sola ricucitura, lungo il campo da percorrere, nell’ampiezza della vita. Una vita che ci prendeva insieme, come grani della stessa clessidra, come vertebre di un solo corpo. Mi era parso, in un primo momento, che quel loro stare in gruppo, diversamente da me che avevo camminato sempre sola, fosse un modo per essere squadra, o corpo di battaglione, e mi sentivo lontana, lontanissima da loro, perchè le sentivo né più né meno degli uomini, che nel numero fanno confluire la forza. Qui però non accadeva la stessa cosa.Tutte le donne, che pur avevano risposto alla chiamata di Vittoria Ravagli, che le aveva convocate e coordinate organizzando l’evento e l’incontro a Sasso Marconi, (vedi qui ), avevano ognuna una modalità e una voce propria. Il gruppo non era affatto uno schermo protettivo, un baluardo o una corazza contro qulcuno o qualcosa. L’argomento era il loro sangue, la lora storia, non un romanzo o una trama letteraria. Sì certo, poesia entrava ed usciva dalla loro bocca, dai loro pensieri e dal corpo tutto come nutrimento e latte di una stessa madre ma tutto era un (con)temporaneo conforto e un bagliore che non sostituiva la sostanza primaria. Altro era la cosa fondamentale di cui mi sono resa conto poi, molto dopo quell’esserci trovate insieme.  Il corpo, il corpo di quelle donne che sembravano distanti, ciascuna differente dalle altre, si era fatto un corpo per tutte, o meglio ancora: il corpo esperienziale di ciascuna  si apriva in offerta alle altre, per farne una corda con cui trarre la zattera della vita a riva, una riva di attesa, dove altre donne ancora, magari in altri tempi, avrebbero continuato a reggere la canapa del viaggio e farne aiuto, salvataggio, di corpo in corpo e di storia in storia da una donna ad un’altra donna, ciascuna madre e figlia senza distinzione. A Ca’ Vecchia, cioè,  le donne si sono incontrate e si sono dette, si sono parlate  e raccontate, di fatto costruendo quella che si può, senza sbagliare, chiamare grazia. Una grazia da non tenere per sé ma distribuire come quei semi del loto che, nell’ovario pur diseccato, contiene l’origine, l’inizio di altra vita ancora e se immersi nell’acqua, come le donne in quell’incontro sono state in sé e nelle altre attraverso la parola e nella presenza, ancora avrebbero fiorito senza paura del tempo.
Epicuro dice che il problema non è il fatto del morire , ma la paura della morte, quel sentimento che tanto ci turba e ci impedisce di raggiungere la serenità interiore.  La soluzione per lui sta in questa nota: – Quando ci siamo noi, non c’è la morte. –
E sempre lui, Epicuro, Nell’ Epistola a Meneceo, 124-127, scrive:
abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l’inganno del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell’immortalità. Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché‚ il suo arrivo lo farà… soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né  per i vivi, né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive. Peggio ancora chi dice: “bello non esser nato, ma, nato, passare al piú presto le soglie dell’Ade”.-
E ancora ci invita a ricordare che il futuro non è né nostro, né interamente non nostro ed è paradossale, in fondo, questo nostro nutrire in corpo la morte, questo nostro portarla sempre con noi e non riuscire a colloquiare con essa proprio come una compagna. Facile sembra scrivere che la morte non è niente, che si è solo passati dall’altra parte, nascosti nella stanza accanto e che nulla cambia o è cambiato, perché tutto cambia e persino un’ora dopo, o un mese o un anno dopo la scomparsa  non è più  come se l’altro e noi fossimo rimasti uguali anche  se all’altro parliamo come se nulla fosse e niente si fosse spezzato. L’essere fuori dalla vista non significa essere fuori dai pensieri e da sè. Le donne, penso che questo lo sappiamo con tutto il corpo, perché questo è fortemente legato all’atto della nascita, dove comunque il cordone ombelicale, che lega il passato al futuro, viene reciso, di fatto, per vivere e questo richiede un distacco che esse hanno partecipato ma che non significa, nella realtà dei fatti, distanza. C’è nella distanza, anzi, un luogo in cui tutto vive e questo hanno ribadito le donne di tutti i gruppi presenti, rivoltando la zolla della morte hanno messo alla luce ancora un seme di vita, la sua continuità.

Donne degli horti  –  Mantova

Gruppo 7 – donne per la pace –  Mantova

Donne di poesia – Modena

Gruppo Marija Gimbutas – Sasso Marconi

Gruppo ’98 Poesia – Bologna

 Aderiscono all’iniziativa le Associazioni di donne:

Anassim –  Bologna                

Armonie – Bologna                 

Casa delle donne per non subire violenza – Bologna

Intrecci   – rete di associazioni di donne migranti e di donne native e straniere nella Regione Emilia Romagna

Tavola delle donne sulla violenza e sulla sicurezza nella città – Bologna

UDI – Bologna
a vederle così, schierate, potrebbero sembrare invincibili, eppure ognuna di quelle donne aveva e portava per tutte le altre la propria spina in corpo e l’ha mostrata. Ognuna aveva  un’incrinatura  dentro la  voce  che tutte le altre hanno sentito chiara. Ognuna aveva una frattura in sé che non teneva esposta, per questo ha smosso la sua ombra,  per poter trovare luce dentro la propria vertigine per vedere come da lì  precipita ogni presenza, perché la morte ci abita, da subito ed è certo, ci vive con costanza, conta la sabbia del nostro tempo. Attimo per attimo in questo continuo disgregarci ci rende più mature e forse persino leggere, non sempre forti in eguale misura. Le donne hanno consapevolmente voluto metterle le mani in corpo e nel farlo hanno toccato con mano il corpo della loro relazione con la morte e, dentro, hanno trovato che c’era la vita e per questo, anche se con fatica, usando ironia e ingegno, leggerezza e lungimiranza, saggezza e consapevolezza del rischio,  ciascuna di loro è riuscita a diventare sua compagna. Le donne, come sempre capita a chi lavora l’orto di una parola profonda, a chi lavora il proprio corpo e la semente dell’anima, la radice  del ceppo del pensiero, ne hanno tratto sostanza per nutrire altre relazioni, perché non ha importanza essere questo o quello ma vivere, ed è importante  essere umani, toccare e vivere anche le debolezze e le paure, la sostanza della nostra fragilità. L’umanità, se viene vissuta senza essere tradita è un  tradurre in ognuna di noi ciò che è essenziale, ed è qualcosa che travalica la nostra breve misura e si fa acqua da cui nascere e di cui dissetarsi, misura partecipata dell’immenso in cui tutto è, stabilmente, senza perdite per lutto. Per questo si è scelto di dare ad ogni voce uno spazio proprio, senza essere ricondotto al gruppo. Ogni donna una voce precisa da cui chi ascolta trarrà la propria fibra, il filo  da dare da torcere alla propria paura, e alla morte , per trovare il suono adatto e il peso che non ci schiacci, per tenerci vive in questa nostra compagnia, che non ha recinti o distanze, non ha gruppi o barriere, è l’unità di un corpo che si vede per momenti e istanti sempre, e tutti propizi. Anche le poesie saranno offerte senza mittente perché per noi, la poesia, non ha solo un destino ma tutti quelli di coloro che l’ascoltano e la ospitano, la rendono di volta in volta nuovamente viva.

Le ringrazio tutte, quelle donne, ringrazio le loro voci, tutte sono in me, come quei semi del loto avuti in dono il secondo giorno. Sono immersi in me, nell’acqua della presenza viva,  sono fiori vivissimi di poesia.

Fernanda Ferraresso

matteo nannini– overfloating


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La morte e l’invecchiamento 

Mi è parso necessario evidenziare l’aspetto collettivo delle due questioni, correlate entrambe al tempo. Accanto alla dimensione personale, che peraltro nelle nostre società individualiste è quella che prevale, vorrei sottolineare che sia il tema della morte che quello dell’invecchiamento, sono percepiti alla luce di modalità e richieste sociali, dalle  quali è impossibile prescindere. Cosa forse più evidente quando si affronta il tema del decadimento, stretto da una morsa dove da una parte c’è una precisa chiamata all’efficienza e alla produttività, quindi ad essere “socialmente” attive, sostenuta nell’immaginario dalla martellante pubblicità di vecchi dentierati senza grasso superfluo vestiti da universitari, e dall’altra c’è un modello desueto di una saggezza da capo sioux che raramente troviamo in una popolazione di vecchi sempre più ossessionata dai graffiti sui muri, dalla paura dello straniero e dall’insofferenza del prossimo.
Ma come evidenziato anche dagli interventi delle altre, molti sono i margini che ci lasciano la consapevolezza e la riflessione, e soprattutto una sana ironia nell’affrontare la questione.
La morte si presenta invece in una veste più tragica e privata, dovuta a quello che ci sembra un evento ineluttabile, un non poter rimandare che può sottrarci e la vita nostra e quella delle persone che amiamo, interrompendo relazioni e fissando per l’eternità l’irrisolto di una relazione, di un non detto. Ma ha anche un condizionamento sociale più antico e stratificato, che agisce su livelli non consci ed è finalizzato a accrescere la paura.
Sto studiando le società matriarcali, i loro valori e la loro spiritualità: lì non c’è spazio per la paura della morte né del processo di morire, o meglio si vive con gli spiriti di quelli che se ne sono già andati, ogni giorno, con la consapevolezza che la vita stessa significa morte e rinascita e morte, anche per noi. Nello stesso tempo la vita ha un gran valore e si cerca di salvaguardarne quante più possibili e questo non è di certo il caso delle nostre società avanzate. In un tempo circolare e in uno spazio cosmico dove tutto è connesso, la dimensione della morte è altro dalla disperazione: è un passaggio non solo inevitabile ma necessario alla vita, dove i legami non si interrompono  ma vengono rinsaldati da una pletora di riti collettivi, in attesa della rinascita. Senza la presenza a livello inconscio del peccato e della fine, si sprecano le narrazioni della piacevole vita degli spiriti e delle interconnessioni che hanno con il nostro mondo. Appare chiaro che l’esperienza morte ci accomuna tutti e nelle credenze collettive trova la sua collocazione. Non c’è spazio per il dubbio e men che meno per la punizione eterna.
Inoltre, se ci pensiamo bene, la sofferenza insita nella morte è legata moltissimo alle cose che non sono andate per il meglio nelle vite, a partire dai rapporti interpersonali tra chi se ne va e quelli che restano,  e tra quelli che restano. Nelle società matriarcali il tempo della relazione è quello più sacro e una fitta rete di eventi collettivi tende a rafforzare e a rinsaldare i legami;  come se venisse rinnovata costantemente la scelta di vivere in gruppo (in clan). Da qui parte una maggiore attenzione agli altri, e non solo nei momenti più tragici, ma anche e soprattutto nel quotidiano, affinché tutti insieme si eviti per quando possibile le cose dolorose e negative. Da noi, il tempo della vita (spesso è quello dell’efficienza e della produttività) si incrina all’apparire della malattia grave o davanti alla scomparsa di una persona cara; siamo sicuramente impreparati e le diverse esperienze ci permettono forse di gestire meglio la sofferenza e la mancanza, ma rimane una sensazione di irrisolto che ci accompagna: d’altronde il momento del passaggio è vissuto in isolamento, al massimo qualche altro parente, spesso con interferenze non sempre sensibili dell’organizzazione sanitaria, poi il defunto viene “dato in gestione” per la vestizione, l’esequie e la sepoltura. Quindi ci si prepara a vivere il dolore della perdita, a tratti, con i ricordi che ti assalgono. Nelle società matriarcali si ricorda quotidianamente, insieme, e non è raro che prevalga un senso di pace e di serenità nei loro riti funebri. E quella rete parentale e amicale che si forma intorno a un nostro decesso, in via eccezionale, da loro é la stessa del tempo della vita, senza interruzione, che aiuta in un momento difficile del clan o della famiglia, che viene per dare una mano nella costruzione di una casa o per far fronte a una calamità, ma anche per festeggiare il raccolto e la nascita di un bambino. Nel mio recente lutto ne ho fatto l’esperienza e l’ho vista in tutta la sua potenza, ed è stato come ritrovare una consapevolezza antica, un senso nel non senso.

Luisa Vicinelli

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matteo nannini– overfloating

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.Da te a me.
Da me a te

L’incontro è questo (s)cambiarsi l’abito, abitudine di un tempo cronologico per un’altro tempo che si fa luogo abitato e condiviso.

Il pensiero della morte mi  accompagna dai miei 24 anni: é odore di erba fresca e benzina su di una strada lontana,   sono  gli addii di  uomini e donne di cui ricordo  gli occhi,  spalancati e stupiti , per la visione di qualcosa che non so, ma che credo sia luce: come un risveglio prima dello stacco e dopo  il corpo resta come un vestito vuoto. La desideriamo a volte, per noi o per altri, quando troppo é il dolore o l’esistenza ci sembra insostenibile, quando la dipendenza  rende la vita una violenza. Si dovrebbe allora poter morire, magari nella propria casa, nel proprio letto, nel modo più sereno possibile. Ma nel nostro paese non si può, in nome di uno strano diritto/dovere alla vita. Eppure muoiono milioni  di bambini donne e uomini di  fame o di guerra   nel silenzio quasi totale. Questo mi fa pensare alla religione, al rito, al saluto.  Nella nostra società anche chi si dice ateo o non credente spesso finisce in chiesa la sua storia terrena. Forse è perché non é stato pensato un rito alternativo pubblico, quando invece il rito é necessario: abbiamo bisogno di tempo, di parlare tra amici, di scambiarci – con il corpo morto tra noi  – le parole che servono. Parlare e tacere, ricordare, ascoltare e farlo con altri, quelli che lei o lui avrebbero voluto lì.  Fare semplici riti nostri per celebrare il distacco, perché il dolore, a volte  terribile, sia addolcito e reso meno tragico  dalla vicinanza e dall’amicizia, dalle parole che riportano vita. E si cominci ad accettare la perdita. Sento così: che noi da vivi moriamo poco a poco. La morte degli altri ci toglie pezzi di noi. Tendiamo sempre più  all’essenziale, ci liberiamo via via di quanto capiamo essere superfluo. La vita si assottiglia, lo spirito diventa più puro. E’ come salire su di una montagna e tra noi ed il cielo, nello spazio libero, tutto si affina. Vivo in una grande valle profonda e verdissima. Quando  mi affaccio mi pare di avvertire  presenze nel vento che gira incessante  e  questo  mi fa sentire leggera.  Siamo esseri complicati, l’educazione che ci é stata trasmessa  rimane lì, nel nostro profondo. E scombina le idee, rende  difficile la coerenza.  A volte mi sento  un groviglio di  contraddizioni e sensazioni. Di questo mi facevo un problema. Ora non più.  Sono l’insieme di più vite che ricordo, quelle  di cui ho traccia. Credo che il nostro spirito, uscito dal corpo,  si ricomponga con l’energia creatrice dell’universo, che ciascuno chiama come vuole e  che fa parte del mistero. Non mi tormenta il non saperne di più. Saremo alberi, fiori, sassi, altri esseri, saremo vento.

V.Ravagli

matteo nannini– overfloating

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Ti parlo di consapevolezza.

La consapevolezza della vecchiaia e della morte come destino non lasciano mai l’angoletto della mia coscienza in cui si sono installate, moltissimi anni fa. Provando a scrivere per Tempiquieti qualche riga su queste due compagne che la vita ci ha appioppato, mi escono solo amare parole. Rabbia, paura, l’idea di essere davanti a una cosa ingiustamente contraria alla speranza che è nell’essere umano. Provo un senso di dolore profondo se penso alla morte dei miei, e di terrore folle se immagino la mia. Se ci penso di notte, nel letto, al buio, mi alzo di scatto con il cuore a mille. Non ho più molte speranze nell’aldilà. Cioè, so solo che non abbiamo nessuna certezza o indizio che esista un aldilà, un vero dualismo corpo e anima. Quindi mi sembra più probabile che non ci sia, e che tutto stia nei neuroni e nelle sinapsi. Questo rifiuto della morte l’ho elaborato quando mia nonna nel 2000 si è ammalata di cancro al pancreas ed è morta in 4 mesi. Aveva 77 anni, era una super nonna e per me era la prima volta che affrontavo la morte da vicino. Mia madre l’ha accompagnata prendendola in casa dopo l’intervento fattole per darle qualche mese di vita. Ogni mattina le ha preparato la colazione parlandole con un tono di normalità, recitando la parte di chi cura per la guarigione, con una dolce efficienza che nascondeva l’abisso nero del suo cuore. In verità avrebbe dovuto gettarseli al collo gridando disperata “Mamma, è passato un altro giorno! la tua condanna si avvicina, quanti giorni ci restano ancora?” Io andavo a  trovarle, portandomi sempre i due figli piccoli, perché mi costringessero a inseguirli di qua e di là e non mi permettessero mai di guardare in faccia la nonna per dieci secondi e correre il pericolo che ci scappasse uno sguardo di consapevolezza e di verità. Perché lei ha sempre evitato, non so se coscientemente, di chiedere “Sto morendo? Dove andrò? Come sarà il passaggio?” Lei era cattolica, sì, ma non ci credeva mica tanto nell’aldilà. Prima di ammalarsi, ogni tanto diceva “Dio, che brot quel murìr! Andèr in d’la tera, in mez ‘i bigàt! E po’ a’n véder piò chi céin…” Insomma per lei morire era  una brutta cosa, andare nella terra, in mezzo ai vermi, e non vedere più i bimbi. Altro che Trono dell’Altissimo e Schiere dei Beati…Da allora, la vecchiaia è stata per me soprattutto la sfortunata situazione per cui si è, statisticamente e irrimediabilmente, sempre più vicini alla morte. Ho 46 anni: mi sono venute delle rughe, ho diversi capelli bianchi sotto l’henné, e ho realizzato che non prenderò più una seconda laurea né imparerò un’altra lingua straniera, e non farò più figli. Ma soprattutto: la mia morte è necessariamente più vicina. E quando avrò 70 anni, con l’aspettativa di vita in Italia a 85, avrò ragionevolmente solo 15 anni davanti! Tutto qui.
Non ho pensieri migliori da consegnare. Non so cosa ci aspetta di là. Un buio senza fine di cui saremo consapevoli? Un dolore insensato inflittoci da un dio cattivo? Io dico sempre che firmerei adesso perché ci sia il nulla. Ho una vita che mi piace, una famiglia che più o meno funziona, un lavoro interessante, una salute di ferro, amiche a cui voglio bene. Perché dovrei accettare con rassegnazione di lasciare tutto questo? Ecco, forse quando la vecchiaia e la malattia renderanno questa vita meno piena, portando fastidi, imbarazzi, dolori, solitudini, forse sarà meno disperante lasciarla, forse riuscirò a dire “beh, vabbé, insomma, forse…”
Questo è un piccolo pensiero minimamente consolatorio, assieme a un altro, che non so se riuscirò a praticare: imparare nel tempo a scherzarci su. E’ quello che mi insegna mio padre, 75 anni, quando ogni tanto, se siamo insieme tra nonni figli e nipoti e si parla di qualcuno che è morto, magari più giovane di lui, risponde al nostro sguardo con un sorriso furbo e dice “Eh ragazzi, sapete, io sono in pole position…!”

Sandra Federici

matteo nannini– overfloating

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La visione di mia madre

.Per tanti anni pensando alla vecchiaia ho avuto la visione di mia madre, davanti a una finestra, in controluce, seduta al tavolo, che scrive.  Finalmente quieta, serena. Senza nessuno da accudire, senza problemi economici, senza essere divisa tra le gelosie dei figli.
Nella vecchiaia di mia madre c’era certo  molta solitudine, ma era anche  il traguardo a cui era giunta dopo una vita convulsa, piena di affanno e lavoro: l’insegnamento e i figli, il marito, la suocera e poi  nipoti e sempre  pensieri,  dolori,  frustrazioni .
Ho atteso con desiderio la vecchiaia, specialmente nei miei momenti più difficili. Ed  é arrivata. Quando ho cominciato ad invecchiare ho avuto il mio tempo, ho lasciato che le passioni si facessero spazio, che ci fosse fuori e dentro “una stanza tutta per  me”. E’ stato possibile e so che della mia vita questa stagione é quella  che ho preferito:   mi sono studiata ed  ho cercato di migliorarmi,   ho intessuto rapporti   importanti per me. Col passare degli anni la vecchiaia ha cominciato a togliere, dopo avere  dato. Sono arrivate malattie, dolori.  I parenti, gli amici,   le loro  morti sempre più frequenti. Intanto il corpo invecchiava quasi a mia insaputa e il cambiamento che non “sentivo” mentre accadeva, mi lasciava stupita, perché la mente aveva altri ritmi e lo specchio mi rimandava una sconosciuta. Non succedeva questo per il viso, che vedevo ogni giorno e che continuavo a sentire in sintonia  con  me: accettavo le sue rughe, i suoi tagli,  i capelli  bianchi sempre più evidenti. Ho vissuto bene la menopausa, il rallentare del desiderio sessuale mio e degli altri. Mi è sembrato che i miei occhi sapessero vedere di più, che la mia mente fosse diventata limpida.  Il mio cambiamento fisico mi rendeva per alcuni “trasparente”, come inesistente. Non ero più un punto di “attrazione”,   ero solo una  vecchia. Molti non sanno che a questa età non sparisce la passione per le cose che amiamo, lo stupore davanti alla natura e alla bellezza, la voglia di giocare, di amare anche se in modo diverso. Tutto rimane, ma  con i colori degli acquerelli, più leggeri, sfumati, sempre più eterei. Così la solitudine é aumentata  ed anche il bisogno di selezionare, di tagliare, ora che il  tempo si é di molto abbreviato e la vita richiede chiarezza, semplicità.  Il silenzio intorno é  importante, essenziale . L’amore e la cura  danno  senso a molto del mio tempo: a volte é dolore, a volte tenerezza.
Il figlio di mio figlio,  quasi un ragazzo, mi regala  l’energia che mi serve con le sue apparizioni.
Ci si prepara.

Vittoria Ravagli

matteo nannini– overfloating

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PER COSTRUIRE UNA RIFLESSIONE COMUNE

(Doretta Baccarini, Mara Boschini, Clelia Degli Esposti, Vanna Gallini, Raffaella Molinari, Nives Panza, Patrizia Panzetta, Nella Roveri, Enrica Sgariboldi, Monica Zaccaria)

“…Mi cercai una camicia da notte nella valigia, mi lavai la faccia e le mani, mi coricai nel letto troppo ampio e troppo morbido e per un bel pezzo non riuscii a dormire. Mi svegliai presto da un sogno mattutino e udii una voce che diceva: il tempo fa ciò che è capace di fare. Passa. Furono le prime frasi che annotai nel grosso quaderno a righe che mi ero provvidenzialmente portata, che misi sul lato stretto del lungo tavolo da pranzo e che riempii molto rapidamente degli appunti sui quali adesso mi baso. Nel frattempo il tempo passò, come il sogno mi aveva laconicamente annunciato, era ed è uno dei processi più misteriosi che conosco e che con la vecchiaia capisco sempre meno. Mi sembra un miracolo che il raggio del pensiero possa attraversare gli strati temporali sia retrospettivamente che antivenendo, e il narrare è parte di questo miracolo, perché altrimenti, senza il benefico dono del narrare, non saremmo sopravvissuti e non potremmo sopravvivere. ” Christa Wolf, La città degli angeli [pagg. 14-15]

…inseguire il mondo? perché

Quando assieme a Sosi abbiamo espresso al gruppo l’esigenza di riflettere assieme sull’invecchiare e sul morire in quanto ci sembrava un tema vicino alle nostre esigenze (data l’età di alcune di noi), un tema più volte sfiorato nelle conversazioni , ma mai approfondito, abbiamo ricevuto un rifiuto deciso. Le amiche del gruppo, quasi tutte, credo non si sentano vecchie o non avevano voglia di pensarci, tanto meno riflettere sul morire; la morte, come si sa riguarda sempre gli altri… Dopo un iniziale rifiuto in realtà assieme abbiamo letto alcuni brani dal testo di Piazza, “L’età in più“, abbiamo per due incontri discusso partendo dalle nostre esperienze,  ma si è deciso di partecipare al convegno di Sasso Marconi individualmente. Ecco perché interveniamo con testi individuali, anche se qui oggi ci sono altre donne del Gruppo 7 –donne per la Pace di Mantova: Mimma. Anna e Marzia. Il mio intervento più che una riflessione compiuta è una proposta, vuole essere una offerta di temi su cui pensare assieme; un modo per chiarire a me e al gruppo perché sono qui e quali sono le motivazioni della mia scelta. Ho vissuto la stagione del femminismo da  persona ‘grande’, non ero più studentessa, ero sposata e avevo una figlia. Il femminismo per me è stato soprattutto la pratica della relazione fra donne, la stagione della riflessione collettiva, del racconto delle singole esperienze; è stata la scoperta dell’autocoscienza, delle letture in gruppo, del collettivo per gestire una trasmissione alla radio locale. In quel periodo e anche per qualche anno dopo in verità, abbiamo elaborato e vissuto collettivamente, e senza volere enfatizzare, non ci sentivamo sole. Ero e mi sentivo parte di un movimento, ora in realtà non so quanto di questa sensazione piacevole dipendesse dall’essere allora giovane, di sentire di avere un futuro e di percepire  molta forza  dentro. Ora desidererei tornare a pensare assieme per esorcizzare il vuoto che  a volte percepiamo, per inventarci una modalità di vivere questa nuova e diversa stagione della vita con consapevolezza. Questa è un’età difficile, come lo sono state altre, con specificità da cogliere, da esplorare. Non mi illudo troppo, sono consapevole del fatto che ognuna  di noi patisce e patirà il suo percorso  di vita gran parte in solitudine, come il destino, la fortuna e poco altro permetteranno. Capisco, per quanto mi riguarda, che le scelte estreme e libere alla Thelma e Louise mi sono estranee. Loro scelgono di finire assieme perché inseguite dalla vita e dagli uomini; erano giovani, belle, non ammalate, hanno scelto la libertà: siamo in pieno mito femminista. Proprio perché non mi identifico in Thelma e Louise, devo vivere questo spazio di vita con la consapevolezza del tempo che passa, delle gioie possibili, delle limitazioni che il corpo mi imporrà, quando si farà sentire. Oggi, che anagraficamente posso essere considerata anziana, alla soglia della quarta età, non mi sento vecchia nell’animo. Un amico diceva che l’importane era invecchiare ‘dentro’. Tempo fa non capivo bene cosa volesse dire ‘invecchiare dentro’, ora sto sperimentando che non so invecchiare dentro: conservo infatti col passare degli anni, desideri, curiosità, bisogni, passioni di quando il corpo era giovane e il futuro ancora da scrivere . Ciò significa che devo riuscire  a cogliere i lievi spostamenti del mio animo, i segni del cambiamento interiore. Quelli del corpo sono evidenti, mi\ci vengono imposti con violenza dal corpo stesso e non puoi fare altro che accettarli, prenderne atto cercare qualche aggiustamento, ma non ti puoi sottrarre. Sono i cambiamenti dell’animo che voglio spiare, il modo di affrontare la quotidianità,  lo spazio della mia casa, il rapporto con il cibo, i viaggi, le letture, l’ansia e la preoccupazione per quelli che amo; di questi  cambiamenti vorrei parlare, questi vorrei condividere. Da alcuni giorni su TV 7 sento insistente la pubblicità del  nuovo programma di Saviano e Fazio, accompagnata dalla canzone di De Andrè, che  non conoscevo,  e che ripete “Quello che non ho, è quello che non mi manca”. Magari fosse così,  mi viene subito da dire, ma la curiosità mi ha portato a cercare l’intera canzone e un verso dice .”Quello che non ho è un treno arrugginito che mi riporti indietro da dove son partito”. Mi è venuto da chiedermi cosa non ho più data l’età, cosa mi manca e cosa ho ancora, che cosa voglio ancora. Non mi dilungo su ciò che non ho più: non ho più una relazione di coppia e non ho più ‘una famiglia piena’, ma mi piace pensare che non sono sola. Faccio mio la  riflessione che “La solitudine non è vivere da sola, la solitudine non c’è quando sai che qualcuno ti pensa”. Vi propongo alcune frasi problematiche che mi hanno fatto pensare, frasi che in questi mesi ho raccolto leggendo alcuni testi, sulle quali vorrei  riflettere assieme Non riporto le autrici perché in realtà le ho in parte elaborate, mescolate, estrapolate dal contesto. Ogni riflessione potrebbe essere un punto di partenza per cominciare a comunicare e condividere pensieri ed esperienze personali.
-Noi che abbiamo fatto percorsi diversi, abbiamo una possibilità di vivere la vecchiaia in modo diverso dalle nostre madri? Come?
-E’ il momento di mettere ordine o di accettare il disordine  della propria vita ?
-A volte mi sento distaccata da ciò che mi ruota attorno come se avessi già dato, come se fosse venuto il tempo in cui devo pensare a me e a rilassarmi senza lasciarmi coinvolgere troppo,  come un tempo.
-Mi sento più libera, posso dire quello che penso, liberamente; ho anche voglia di trasgressione.
-Ho bisogno di normalità, temo le trasgressioni i cambiamenti, rifiuto istintivamente le novità che il mondo mi offre, troppa fatica adeguarsi inseguire il mondo. E poi perché?

Maria Teresa Rabitti Cancellieri  

matteo nannini– overfloating

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Sull’invecchiare (ma non sul morire)

.Un vecchio saggio, che cito di riporto e dunque non conosco, pare dicesse che vecchiaia è quando non si è più padroni del proprio viso. Aggiungerei anche del proprio corpo, con i suoi deficit sensoriali, le plissettature della sua pelle e l’atonicità dei suoi muscoli, la sua mancata rispondenza alla volontà, alla richiesta di prestazioni che pure gli sono state proprie: non so più correre, ma nemmeno muovermi con scioltezza, con armonia, con tempismo… e il mio viso poi?
Norberto Bobbio fisserebbe una data d’inizio alla vecchiaia, gli 80 anni, o almeno la fissa per sé, tenendo conto che ha smesso di insegnare a 75. Io ne ho 78: forse che sono sulla dirittura d’arrivo? sarà bene che cominci a pensarci, io, non gli altri, che lo sanno già e si preoccupano che non cada perché mi romperei irrimediabilmente. Ti ricordi del femore famoso, della frattura inesorabile in tutti gli anziani che conoscevi, il predittore infausto di un precipitevole declino? Bene, adesso il rischio è mio. Mio? No, non toglietemi la bicicletta! Mi anchiloserei prima, inutilmente prima… gli ultimi anni da tartaruga, persa la mia allegra sanità?
Ho provato a spiare la mia vecchiaia, che ancora non mi spaventa abbastanza: è vero, le guance si incavano, le labbra si asciugano, le palpebre si slabbrano, gli occhi si fanno acquosi, le venuzze ramificano; e la cute rosa del cranio occhieggia fra i capelli che si ammosciano e si dividono. Eppure, benché in famiglia le denunci spesso con una puntigliosità che può apparire masochista, queste evenienze non mi angustiano. Non intralciano le mie giornate. Rispondono a una consapevolezza ‘estetica’, un po’ autoironica, un po’ rassegnata, a cui mi sembrerebbe poco lucido, diminuente, rinunciare.
“Il problema è che bisognerebbe invecchiare dentro”, diceva in tempi non sospetti un vecchio amico – lo stesso di Teresa -, saggio a sua volta per paradossi. Allora forse sono invecchiata dentro, e questo mi impedisce le smanie, mi consente la calma abitudinarietà dei miei giorni: dimenticati “le furie e gli sdegni” (fatta salva qualche accensione improvvisa), affezionata agli angoli della mia casa, a gesti che si ripetono uguali (alla mia mano che la mattina gira la farfallina del gas e apre la giornata), accetto una vita rallentata, un po’ neghittosa, con qualche punta d’ansia, in un tempo che passa spudoratamente veloce, che non ancora riconosco incalzante; accetto di essere me stessa a questa età: perché – dice Marina Piazza (?) – si è solo quello che si è: disordinata e dispersiva, dunque, perché distratta e smemorata: o un po’ svampita, a piacere. Qualche volta mi piace pure sembrarlo.
Ma l’accettarmi per quello che sono (alla fine per essere proprio vecchia forse mi restano ancora due anni di buono…) non impedisce nostalgie, non impedisce di sbattere il “tappeto dei ricordi”, che non è ancora smunto (lasciateci “il gusto del rimpianto”, direbbe Dylan Thomas). Non mi pare però di vivere nel passato, come qualche volta mi rimprovera mia figlia: è vero, “io sono quello che ho vissuto, amato, pensato…io sono i miei ricordi” (Bobbio);  ma anche se mi pare che non ci sia più spazio soggettivo per l’inaspettato, se talvolta vorrei con tutta l’anima l’immobilità dell’esistente, se tendo a crogiolarmi in quello che so già, che mi dà conferme e mi impedisce l’ansia del nuovo, per il quale temo di non essere più attrezzata; anche se il senso di inadeguatezza si è ulteriormente radicato, non più solo psicologico ma ormai anche fisico, anche se è più facile che tergiversi e che scantoni, nonostante tutto questo, insomma, credo che le curiosità che mi rimangono, la disponibilità da scolara agli incontri, mi consentano ancora una vitalità non   drammaticamente diversa da quella di un tempo: come se la vecchiaia non fosse una caduta (anche se cado spesso…), ma la tranquilla continuità della mia vita. Così  che, per opposto, è ‘senilità’ la parola che sento del tutto estranea: non so se per irrimediabile superficialità o perché ho ancora qualcuno che ha bisogno di me; e qualcuno che, nei momenti di impotenza, mi ha accudito consentendomi la leggerezza. Certo anche perché ho il privilegio di amiche molto più giovani, affettuosamente presenti, che mi impediscono la tristezza della solitudine.
Tutto questo però non impedisce che agli occhi di chi ti è vicino i tuoi 78 anni, che da scriteriata ancora non avverti nella loro pesantezza anagrafica, abbiano bisogno di preoccupata tutela: e allora sì che la vecchiaia che pensi ‘a venire’ ti spaventa: nel suo aspetto di perdita di autonomia, di perdita della libertà di decidere. Voglio rimanere libera, padrona di me. E allora perché non riaccarezzare la vecchia ipotesi spavalda, e romantica, della mia giovinezza, l’anello che nasconde il veleno…? Ma che complicazione oggi sarebbe per il mio scarso senso pratico! Oggi  – di fronte alla “porta che si chiude” (Pozzi)-  nessuno  vuol più prendere accordi con me; nemmeno io, ‘alla fine’.
In realtà non indugio sul pensiero della morte: so, con indifferente freddezza (indifferente?), che devo metterla nel conto, che il calcolo delle probabilità non mi è più favorevole, che i margini che mi rimangono sono stretti; ma non avverto ancora il turbamento della fatalità imminente.
Insomma, non ci penso.

Annarosa Enzi Baratta

matteo nannini– overfloating

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L’impreparazione

Non mi sarei soffermata in questo tempo sulla parola “INVECCHIARE” senza la sollecitazione delle mie amiche. Perché? mi sono chiesta. Eppure la mia età anagrafica è solo di qualche anno inferiore alla loro. Eppure sto vivendo la gioia della “nonnità”……….Allora dove sta  la differenza? Buona parte della mia giornata è occupata dal lavoro, insegno da quarant’anni eppure non vogliono mandarmi in pensione e ancora mi interrogo: “Il tempo che mi spetta sarà il tempo coatto?” Dopo aver amato il mio lavoro non ho affatto l’intenzione di vivere una sorta di “resa” e sto mettendo in campo alcune strategie che mi  permettono di fare “passi indietro” che chiamerò “passi della salvaguardia di sè”. I desideri nel frattempo si fanno avanti con una certa prepotenza. Dopo aver visto il documentario “case sparse” mi sono ricordata di un sogno che ha visualizzato un momento di passaggio molto significativo della mia vita. Avevo lasciato alle mie spalle una casa in rovina e davanti a me c’era una grande strada imbiancata di neve che attraversava la pianura. Poi un incontro, un abbraccio, un cielo che roteava sopra la mia testa. Proprio in quel periodo è iniziata l’esperienza della “Sororità” strada che sto tutt’ora percorrendo con numerose sorelle, alcune delle quali qui presenti. La pianura del sogno è il paesaggio che nella realtà abito e mi appartiene per il senso di infinitudine che evoca e che oggi mi sollecita ad  allontanare le aspettative e a vivere invece le “attese”. Secondo Celati le aspettative servono a “ingannare il tempo”. L’attesa è invece la sensazione di un presente ineludibile, di un tempo che non può essere ingannato. L’attesa è una “sosta nel paesaggio”. L’attesa che mi riguarda è un richiamo a sostare presso il paesaggio dell’anima per meglio focalizzare l’incontro con la realtà che viene avanti ed entrare nella densità del tempo. Un tempo che contemporaneamente si dilata nel suo divenire. Nulla è dato per scontato e ancora una volta volta è ” l’impreparazione” di cui parla Luisa Muraro a farsi avanti?

Vanna Gallini

matteo nannini– overfloating

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Quando una foto sul comò

Quando ho creduto di raggiungere la pienezza della vita, in cui il tempo non mi bastava per leggere, scrivere, fare, per fermarmi un attimo e posare lo sguardo, allora, dopo quel picco, quasi all’improvviso, ho cominciato a sentire di invecchiare. Sì perché, secondo me, si invecchia consapevolmente o inconsapevolmente, naturalmente, nel corpo e nella mente, ma si invecchia veramente quando questo evento arriva al sentire profondo. Non c’è una età canonica, a me è accaduto quando l’esistente si è fatto grande e in esso ho cominciato a perdermi con sguardo mutato. Opacità, ombre, malinconie senza ragione e poi ebrezze improvvise, ma senza più gioie profonde: c’è sempre una attesa in questi sentimenti contrastanti, una attesa indefinita, senza aspettative, senza costruzione di progetti . Non c’è più nulla da tempo che aderisce al mio profondo, ma una leggera schizofrenia mi lascia inquieta, sospesa. Come percorrere questa strada da donna libera? Non è ancora tempo per me di uscire da tutti i ruoli: dal lavoro sì e questa è stata una rivoluzione; ma nei ruoli familiari sono ancora incastrata e ancora mi si chiedono risposte. Come ho sempre fatto, cerco una distanza, difendo quel nocciolo profondo di me stessa, opponendo anche silenzi. Invecchiando è più facile: c’è un luogo per me, il mio deserto, abitato dalle relazioni femminili e dal loro riconoscimento, cui l’accesso oggi è facilitato dalla perdita di ruoli importanti o per lo meno riconosciuti tali da questo contesto sociale. Sono meno importante, conto meno e allora posso avere il tempo per contare di più per me, per fare fino in fondo quel cammino di spoliazione e di vuoto, per arrivare al “niente che sono” (cito da Carla Lonzi).
Mi aiuta il mio quotidiano: nella luce del mattino, che posso godere senza frette, orari, coincidenze, le cose mi vengono incontro ed io le amo come fossero animate. Le vedo per la prima volta nei loro particolari: la cucina, le pietre dell’aia, il micio che ormai ha il pelo bianco attorno agli occhi; questi muri cambiano, si scolorano e le imposte hanno qualche scheggia sconnessa e la credenza ha la porta che non si chiude più bene, ma sono il mio paesaggio, sono dentro la mia testa e il mio cuore. Sono le mie “macerie”, le rovine della mia storia. E così comprendo che è lo sguardo a segnare il mio tempo che scorre, accompagnato dal desiderio che il paesaggio domestico resti così, testimone del suo passaggio. Quando una foto sul comò, un pizzo sul tavolo, una sedia nella mia stanza vengono spostati, provo fastidio: non è una questione di ordine, né di abitudine: è la mia memoria che non voglio dare in pasto al nuovo, comunque esso si manifesti. Scrive John Berger, commentando dei documentari di Gianni Celati, che per l’uomo moderno la vecchiaia, la malattia, sono una specie di scandalo; e tutto ciò che crolla per vecchiaia, dalle case alle facce, deve essere sottoposto ad una forma di restauro cosmetico. C’è da chiedersi, continua Celati, se tutto ciò non sia un tremendo rifiuto del mondo che si espande con la produzione di immagini spettacolari di consumo, senza più margine. Ancora Celati: nelle pianure delle province americane, o nella savana africana o nella valle padana traversata come un deserto d’anime, c’è una ebbrezza della dispersione che diventa qualcosa di positivo. Ti accorgi di poter amare il mondo con tutto il suo “disponibile quotidiano”, così com’è, per quello che è e non per come dovrebbe essere.
Cosa c’è di più banale di un tavolo da cucina, con una tovaglia provenzale gialla e un piatto di frutta (vera) nel mezzo? E’ il mio tavolo, dove pranzo e ceno, dove bevo il caffè con le mie amiche, dove sto scrivendo questi fogli. Ed è per me una scoperta, una presenza piena e vibrante, Dice Carla Lonzi nel suo diario, Taci, anzi parla, di essere proprio matura per queste scoperte! “In fondo, cito da Annarosa Buttarelli, il godimento della presenza delle cose comuni disegna una specie di paradosso: l’ottenimento del “niente che è me stessa”, ottenimento che però dà come sovrappiù la capacità di gioire della scoperta delle cose comuni del mondo”.
Guardare il mio mondo domestico così come è, mentre il tempo lo attraversa, nella minuzia e insignificanza dei suoi particolari, nel loro decadere, eppure nella gioia che essi sanno restituire: ecco il mio invecchiare.

Clelia Degli Esposti

matteo nannini– overfloating

Lettera ai miei genitori

Quante cose da tramandare nel tempo sempre più incalzante, prossimo alla morte. L’ora definitiva si avvicina passo dopo passo, giorno dopo giorno, andiamo verso l’ineluttabile, la fine.
Padre! Madre! Voi che mi avete dato la luce, la vita ed il pane per vivere, che tanto avete sbagliato ma che anche tanto mi avete amato, solo ora, mi accorgo di tutto il male ed il bene che mi vengono da voi.
Ecco che i vostri passi lenti, stanchi ci conducono sulla soglia fatidica ed ecco che allora io vedo, per la prima volta, le rughe, le macchie sulla pelle delle mani, i colli stropicciati come le tartarughe. Ora interviene anche tutta quella stanchezza che sembra accompagnarvi nel buio e nel freddo.
O forse la morte potrà essere fatta di luce? Ancora vi rimane vita sufficiente per poter diventare testimonianza agli occhi dei nipoti: rughe di saggezza, i capelli bianchi del nonno, quelli sale e pepe della nonna e le sue mani quasi prensili, che tutto toccano e trasformano. C’è ancora tempo, le passioni di mio padre, le piante, i fiori, un orto ed un giardino che ci lascerà in dono, lo sostengono, una cura che ci permetterà di ricordarlo ogni giorno.
Madre longeva, madre magra come un uccellino, io cerco di non vedere in te le tracce di una vita che sta finendo, tu che credi che non finirà tutto qui. E preghi. E tu, Padre, gonfio per malattia, tu combatti contro la morte, cerchi di ignorarla, la rifiuti, puoi sempre sperare ,come la mamma,che ci sia un Aldilà. E di nascosto preghi. Io continuo a vederti come sospeso tra coraggio e malattia, oggi, adesso, sembra che tu non possa andartene mai. La vostra presenza e l’efficienza che perdura c’inganna, ma non c’è più molto tempo per stare insieme: abbracciamoci, poi si vedrà.

Maria Chiara Papazzoni

 

matteo nannini– overfloating

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.Anna, la mia mamma

Fin dalla prima volta che ho letto in una mail della Vittoria l’espressione TEMPI QUIETI, mi è venuta in mente subito mia madre.   Mi sono venute in mente le serate d’estate quando il babbo, macchinista, dormiva fuori Bologna e e i due fratellini (una sorella e un fratello molto più piccoli di me) erano già a dormire. Noi due rimanevamo sole, ci sedevamo in tinello a goderci l’aria fresca che arrivava dalla terrazza sul Reno e ci guardavamo un film alla televisione.  Alla mamma piaceva molto il cinema, mi spiegava alcune cose sul film, sul regista e sugli attori, ma

fondamentalmente stavamo in silenzio, godendoci quella bella atmosfera tranquilla di complicità e di stima reciproca.  Quello era il nostro legame.   La mia mamma non mi amava di un amore viscerale o passionale, ma il suo rispetto per la mia libertà, la sua fiducia totale in me sono uno dei ricordi più preziosi della mia vita con lei e anche dopo di lei.

Eppure abbiamo vissuto insieme esperienze molto intense, che potrei definire anche hard.   Quando lei ha partorito la prima volta, io nascevo, eravamo insieme e lei mi raccontava la storia della mia nascita come un momento molto bello, con pochissima sofferenza.

Quando ho partorito io, in casa, lei era presente.  Anch’io ho sofferto poco e questo lo devo soprattutto a lei che mi dava sicurezza con la sua presenza e anche perché, se non aveva sofferto lei a partorire, non avrei sofferto anch’io. Ne ero sicura.

Quando è morta lei, in casa, io ero lì.  La notte prima avevo voluto dormire da lei, avevo sentito la sua morte vicina.  Era molto malata, aveva un cancro al cervello, eppure non aveva sofferto molto, forse anche grazie ad alcune cure alternative che faceva.   Negli ultimi giorni dormiva sempre di più.  Si svegliava raramente, sorrideva e faceva ciao con la mano.  E’ morta nel sonno mentre l’accarezzavo.

Ultimamente ho cominciato a pensare che saremo insieme anche quando morirò io.  Sarà lei a venirmi a prendere e lo farà dolcemente, sorridendomi per tranquillizzarmi. Quando evoco la sua presenza, le dico sempre che VERRA’ LA MORTE ED AVRA’ I TUOI OCCHI.

La chiamavo la donna dell’emergenza.  Era capace di fare una scena spaventosa se sporcavo il vestitino che lei aveva ricamato per me.  Io, invece di esserle grata per le cose che mi faceva, invidiavo i bimbi americani che vedevo in TV.  Con jeans e maglietta loro potevano fare di tutto.  Io non potevo fare neanche lo scivolo ai Giardini Margherita.   Mi spaventava quando perdeva il controllo per delle cazzate e a volte, per vincere l’imbarazzo, io ridevo. E lei allora ferocissima mi chiamava Franti, quello che “e l’infame sorrise”.

Ma nei momenti veramente drammatici la mamma sembrava una quercia, capace di resistere anche alle peggiori tempeste.  Quando morì mio padre, all’ospedale, io ero scesa di sotto per telefonare a un amico per vedere di rintracciare mio fratello in ferie.   Quando tornai su il babbo era appena morto. La mamma che si era sdraiata su di lui, si alzò e guardandomi con dolcezza, mi disse: “Te l’ho tenuto caldo”.

Sandra Schiassi

 

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Riflessioni sulla vecchiaia e sulla morte

Nel mettere a disposizione alcune  mie riflessioni sulla vecchiaia e sulla morte ho ritenuto fondamentale contestualizzarle nell’orizzonte culturale a cui appartengo: la società occidentale. Ognuno di noi può parlare della propria vecchiaia se la sta vivendo o l’ha vissuta, della vecchiaia e della morte degli altri se le sta condividendo o le ha condivise , della propria morte no, la può soltanto pensare e forse averne curiosità o paura .In ogni caso quello che pensa o sente sarà influenzato dal contesto culturale, cioè il pensiero laico e religioso della società in cui è nato e in cui è vissuto.
Parmenide dice “ L’essere è ( esiste) e non può non essere”.Negando cosi il movimento e il mutamento e di fatto l’estremo cambiamento: la morte. La rimozione della morte ha così influenzato tutta la metafisica  e la politica in occidente :la ricerca di un “ universale” non soggetto al contingente.  La rimozione del contingente è anche la rimozione della vecchiaia  e della morte, del corpo che cambia,invecchia, si ammala e muore. Del corpo che siamo o del corpo che abbiamo?
Assistiamo negli ultimi decenni a una sovraesposizione del corpo e della morte. Quale corpo e quale morte? E di chi?
La religione cristiana è una religione salvifica, che rimedia alla morte come punizione divina per il peccato di Adamo e di Eva ( a lei viene attribuita ogni responsabilità della colpa d’origine – Paolo “ Timoteo 2,9-15) e offre all’umanità la speranza di una vita eterna. Il corpo di Eva precipita l’uomo nella mortalità, il corpo di Cristo gli restituisce l’immortalità attraverso la sua morte. La separazione tra corpo e anima, materia e spirito ha influito sulla visione che il pensiero occidentale ha della vecchiaia e della morte.
Possiamo dire che Eva è la madre dei morenti?
L’elisir di lunga vita e dell’eterna giovinezza sono da sempre il sommo desiderio dell’umanità, la cui ricerca ha ispirato viaggi mitici, capolavori letterari e serie ricerche della scienza e della medicina che negli ultimi decenni ha fatto impensati progressi; si può dire spaventosi  forse più della stessa morte?
Possiamo dire che l’assenza del corpo reale impera  nella iconografia sia laica che religiosa e di conseguenza nell’immaginario collettivo dominante?
Esiste in occidente un’iconografia della vecchiaia e della morte, dignitosa, saggia e autorevole ?
La vecchiaia e la morte sono, anche, una questione di genere?

Giovanna Gentilini

matteo nannini– overfloating

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Io non vado

Io non vado in nessuna chiesa a pregare. Io prego quando vado a trovare mia madre in RSA. E’ una preghiera senza parole, in cui ascolto il mio silenzio. E’ una meditazione attraversata da tanti pensieri quotidiani e anche da nessun pensiero. Non c’è solo mia madre. Nel silenzio si apre un colloquio religioso con tanti corpi di donne e uomini che vivono gli ultimi anni della loro vita, circondati dalla sollecitudine di altre donne e uomini che li aiutano a restare ancora tra noi vivi. Prego, cioè torno a me stessa, perché non ho  nulla da fare se non assistere a un rito che a taluni parrà triste e doloroso, ma che è così vero e così presente nella sua necessità. Pregare qui è difficile. L’incontro col divino è difficile. Quei corpi assistiti sono oracoli e il loro vaneggiare nel silenzio, il loro guardare perso apre significati e indica con forza, porta il segno di quello che è stato e di quello che sarà. Loro sono già parte dell’eterno, che si mostra e non è un mostro. E’ che dell’eterno si ha sempre paura perché si è affezionati al tempo, finché il tempo ci lascia fare. Ma quando si svela e ci colpisce, ci obbliga a vedere la vita divina, il modo d’essere della Natura tutta che si trasforma e va a morire. Quanto è difficile prendere su di sé e guardare in faccia la malattia e la morte. Ma un giorno mi è capitato di poter, per  un attimo, rendere grazie al loro esistere, senza il quale la bellezza di essere qui, in case calde, pieni di bambini e di gatti, di cibo e di persone amate, di alberi e telefonate amiche, perde la sua maestosa presenza.

Maria Luisa Bompani

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A questa prima parte, memoria dell’incontro di Sasso Marconi del 5 e 6 maggio 2012, ideato e coordinato da Vittoria Ravagli, seguiranno altre presentazioni in cartesensibili, per rendere condivisibile almeno in parte, se non tutto, ciò che  con ampiezza e senso profondo di sorellanza è stato portato da tutte le partecipanti convenute in quell’occasione.

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Hanno partecipato all’incontro di Sasso Marconi donne dei gruppi:
Donne degli horti – Mantova
Gruppo 7 – donne per la pace – Mantova
Donne di poesia – Modena
Gruppo Marija Gimbutas – Sasso Marconi
Gruppo ’98 Poesia – Bologna

Hanno aderito all’iniziativa le Associazioni di donne:
Anassim – Bologna
Armonie – Bologna
Casa delle donne per non subire violenza – Bologna
Intrecci – rete di associazioni di donne migranti e di donne native e straniere nella Regione Emilia Romagna
Tavola delle donne sulla violenza e sulla sicurezza nella città – Bologna
UDI – Bologna

Erano presenti inoltre:
Anna maria Farabbi, che ha dato la chiave,anzi il TRA d’inizio, per attraversare la soglia e ha presentato Stellezze di Paola Febbraro

Selene Ballerini, che attraverso il suo complesso lavoro ci ha condotto all’interno del labirintico mondo de I Ching

Antonella Barina che ha letto alcune sue poesie fornendo altre visuali sul pozzo della morte nell’anello della vita

Milena Nicolini, che ha presentato il gruppo teatrale FOEMINAE- Compagnia di Arcoscenico con Cristina Nuvoli, Daniela Briganti, Pia Bellitti, Silvia Nerini e ha presentato la raccolta di poesie di Daria Menicanti

Sandra Capri, che ci ha condotte lungo un momento introduttivo di meditazione, che portasse tutte alla migliore concentrazione e ad un vivo ascolto,  poi a sera ci ha messo in contatto con la luna piena.

Stefania Chiusoli  che ha letto poesie del Pascoli

Da non dimenticare il gruppo delle donne che con Rita e Alessandra hanno fornito servizio per la LIBRERIA DELLE DONNE di Bologna, in cui i presenti hanno potuto trovare i testi delle convocate  ma anche molti altri utilissimi “imbarchi”, per altri ulteriori viaggi e studi, su tutto ciò che riguarda vita e morte e la parola che, da sempre, tenta di accendere una luce che fornisca nutrimento, segno e accesso ad entrambi.

Altre ancora le voci femminili di amiche che hanno lasciato ciascuna un segno nitido in tutte noi, che sono state come le altre memoria di immersione singolare. A tutte un grande grazie e una promessa:  incontrarci ancora.

matteo nannini– overfloating

PRIMA PARTE

 


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3 Comments

  1. ho stampato questa vivissima “memoria” e la sto leggendo piano poichè ogni parola porta a leggere la vita, a guardarla dritto in faccia
    ringrazio per la ricchezza che viene offerta

    elina

    1. Ripeto anche qui il mio grazie a te,Vittoria cara, che sei maestra, e anchea tutte le altre partecipanti con cui si è davvero lavorato benissimo nel dissodare un terreno impervio. ferni

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