La strada e il camminare – Nadia Agustoni

Yann Arthus- la Terre, une planète d’océans

 

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La strada è dove siamo sorpresi dallo sguardo altrui e da noi stessi nella nostra solitudine, ma è anche il luogo di un superamento che avviene quando scopriamo che il consueto è spesso il segno di un altrove che è sempre lì. Camminare è stato per molti un meditare su di sé, sulla vita, su cosa è un limite e cosa ci definisce o meno, ed è stato una fuga da sé per tornare a sé o andarsene da qualcuno o da luoghi dove tutto sembra sia fermo in un’attesa tra due tempi: passato e futuro. Di solito pensiamo a chi cerca il futuro come a qualcuno che cammina, un muoversi che diviene un domani possibile. Si pensa il tempo in queste due dimensioni, fino a che ci si rende conto che la stessa strada è un eterno presente. La strada è l’accadere del presente ed è l’innocenza di esporsi a un attraversamento che congiunge interiore ed esteriore, o forse, semplicemente li trova, come è nell’infanzia dove si coglie tutto sulla superficie perché la superficie è profondità.

La strada ci porta fuori di noi, è un aperto, ma lo è in un modo che ci aiuta a vedere cosa fa male. Guardare e vedere non sono la stessa cosa. Vedere è avere presente il tempo doppio, interiore ed esteriore, e una spazialità che nel suo orizzonte ha tutto il mondo. Guardare può essere un appiglio, un appunto rapido o oggettificare qualcuno. Guardare è spesso togliere. Vedere è comprendere.

Lo stesso movimento si compie tra sentire e ascoltare.

Rebecca Solnit nel suo libro “Storia del camminare” (1) ci ha dato attivismo e poesia, Lin Jensen con “ Per strada. Riflessioni su attivismo e non fare” (2) ci ha informato su una perfetta – perché diseguale come ogni attimo – meditazione sull’animo umano. Jensen ha trascritto la sua esperienza del meditare per la pace in strada, in una città della California settentrionale, e in un passaggio del libro usa queste parole per parlarci della compassione che l’essere esposti alla strada in consapevolezza può generare:

“ La storia racconta di uno studente che chiede al suo maestro: ‘Come fa il bodhisattva a far uso di tutte quelle mani e di quegli occhi?’ Il maestro risponde:  ‘Come uno che durante la notte si sistema il guanciale sotto la testa’. La compassione è inattesa come sistemarsi il cuscino nel cuore della notte, è un’azione spontanea che si compie praticamente senza accorgersene. Non mi aggiusto il guanciale perché ho sviluppato una strenua volontà di aggiustare guanciali, lo faccio solo perché ce n’è bisogno. Allo stesso modo, non è necessario trasformare la gentilezza e la compassione in progetti.”(3)

La strada induce a vedere e riflettere, ma trasforma il silenzio in qualcosa che è più del non usare parole. Il silenzio che nasce camminando è anche fiducia che se il mondo è lì o qui anche noi siamo lì o qui, e ne siamo parte come se tornassimo a incontrare, usando l’espressione di Pierre Sansot : “l’uomo ai suoi inizi”.(4) Camminare, come il non fare niente meditando, è in questo modo un distanziare e collegare non con altri segni, ma per uno sconfinamento in cui ci sappiamo sempre un po’ stranieri al mondo e per la prima volta fraterni nel vedere l’altro.

Ivan Illich auspicava che l’ascolto del bollettino meteorologico non distogliesse i pescatori messicani dal dare un’occhiata dalla finestra il mattino per accertarsi delle condizioni del tempo, e riflettendo su questa apparentemente banale osservazione mi accorgo che uno sguardo dalla finestra può restituire ad ognuno il senso di una libertà che non esclude gli altri e di una sacralità o espansione, che è sempre presente nell’ambiente di vita che conosciamo come terra.

La strada è territorio, impronta, orizzonte e una linea meno astratta, ma è anche ciò che succede adesso, il presente. La strada è dove la storia dell’uomo si interseca con la storia degli uomini.

 Nadia Agustoni– marzo 2012

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Note:

1- Rebecca Solnit, “Storia del camminare”; Bruno Mondadori Edizioni 2005.

2- Lin Jensen, “Per strada. Riflessioni su attivismo e non fare”; Ubaldini Editore 2008

3- ibidem, pag. 85

4- Pierre Sansot, “Passeggiate. Una nuova arte del vivere”, pag. 21; Pratiche Editrice 2001

Storia del camminare- Rebecca Solnit, Bruno Mondadori Editore, Milano-2002

Titolo originale: Wanderlust. A History of Walking [2000]

Prefazione: Franco La Cecla

Traduttore:Gabriella Agrati, Maria Letizia Magini

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Pagina 1

I. Il passo dei pensieri

1. Introduzione

Ripercorrere un promontorio
Da dove si comincia? I muscoli si tendono. Una gamba è il pilastro che sostiene il corpo eretto tra cielo e terra. L’altra, un pendolo che oscilla da dietro. Il tallone tocca terra. Tutto il peso del corpo rolla in avanti sull’avampiede. L’alluce prende il largo, ed ecco, il peso del corpo, in delicato equilibrio, si sposta di nuovo. Le gambe si danno il cambio. Si parte con un passo, poi un altro e un altro ancora che, sommandosi come lievi colpi su un tamburo, formano un ritmo: il ritmo del camminare. La cosa più ovvia e più oscura del mondo è questo camminare, che si smarrisce così facilmente nella religione, la filosofia, il paesaggio, la politica urbana, l’anatomia, l’allegoria e il crepacuore.

La storia del camminare è una storia non scritta, segreta, i cui frammenti si possono rintracciare con parole semplici in migliaia di passi di libri come anche di canzoni, nelle strade e in quasi tutte le avventure di ciascuno di noi. La storia corporea del camminare è quella dell’evoluzione del bipedismo e dell’anatomia umana. Per la maggior parte del tempo camminare è un atto puramente pratico, il mezzo locomotorio inconsapevole tra due luoghi. Trasformarlo in un’indagine, un rituale, una meditazione, è farne un particolare sottoinsieme del camminare, fisiologicamente simile, ma filosoficamente dissimile, al modo in cui il postino porta la posta e l’impiegato prende il treno. Il che vuol dire che la materia del camminare riguarda, in un certo senso, il modo in cui attribuiamo significati particolari ad atti universali. Come il mangiare o il respirare, così il camminare può essere investito di significati culturali completamente diversi, da quelli erotici a quelli spirituali, da quelli sovversivi a quelli artistici. È qui che questa sua storia comincia a fare parte della storia dell’immaginazione e della cultura, e della storia dei generi di piacere, di libertà e di significato che vengono perseguiti in tempi diversi da differenti tipi di camminate e di camminatori. L’immaginazione ha modellato gli spazi che attraversa, e da questi è stata a propria volta modellata. Il camminare ha creato sentieri, strade, rotte commerciali; ha generato concezioni di spazio locali e transcontinentali; ha conformato città, parchi; prodotto mappe, guide, attrezzature e, ancora, una vasta biblioteca di racconti e di poemi che ci parlano di camminate, pellegrinaggi, spedizioni alpinistiche, vagabondaggi, e anche di picnic estivi. I paesaggi, urbani e rurali, sono gestatori di racconti, e i racconti ci riportano ai luoghi di questa storia.

Questa storia del camminare è una storia amatoriale, proprio come un atto amatoriale è andare a piedi. Per usare una sua metafora, essa invade e percorre campi altrui – l’anatomia, l’antropologia, l’architettura, il giardinaggio, la geografia, la storia politica e culturale, la letteratura, la sessualità, gli studi religiosi – e nel suo lungo tragitto non si arresta in alcuno di essi. Perché, se un campo di competenza puo essere immaginato come un terreno reale – un confine esattamente rettangolare dissodato con cura e producente un determinato raccolto – allora la materia del camminare assomiglia al camminare stesso nella sua mancanza di confini. E sebbene la storia del camminare, in quanto appartenente a tutti questi campi e all’esperienza di ciascuno di noi, sia virtualmente infinita, la mia storia del camminare può essere solo parziale, un cammino idiosincratico tracciato attraverso tutti questi campi da un viandante che si guarda attorno e ritorna più volte sui propri passi. Nelle pagine che seguono ho cercato di ricalcare i cammini che hanno condotto la maggior parte di noi nel mio paese, gli Stati Uniti, nel momento attuale; è una storia composta in larga misura su fonti europee, inflessa e sovvertita dalla scala immensamente varia dello spazio americano, dai secoli di adattarnento e di mutazione in questo paese, e dalle altre tradizioni che in tempi recenti si sono incontrate con questi cammini, in modo rilevante le tradizioni asiatiche. La storia del camminare è la storia di ciascuno di noi, e ogni sua versione scritta può solo sperare di indicare alcuni dei sentieri più calpestati nelle vicinanze di chi la scrive, vale a dire che i sentieri che ho tracciato non sono gli unici cammini.

Un giorno di primavera mi sedetti a scrivere del camminare e poi mi rimisi in piedi, perché la scrivania non è un luogo in cui si possa pensare su vasta scala. In un promontorio subito a nord del Golden Gate Bridge, costellato di fortificazioni militari abbandonate, uscii a fare una passeggiata su per una valle e lungo un crinale, e poi giù fino al Pacifico. La primavera era arrivata dopo un inverno insolitamente umido e le colline erano diventate di quel verde sfrenato ed esuberante che dimentico e riscopro ogni anno. Attraverso l’erba novella sporgeva quella dell’anno precedente, che la pioggia aveva scolorito dall’oro estivo al grigio cenere, uno spicchio della tavolozza più tenue del resto dell’anno. Henry David Thoreau, che camminò più vigorosamente di me all’altro capo del continente, scriveva dei suoi dintorni:

Una prospettiva assolutamente nuova rappresenta una grande felicità, che può venire colta in un qualsiasi pomeriggio. Due o tre ore di camminata mi possono condurre nel luogo più straordinario che mi sia mai accaduto di ammirare. Una fattoria isolata, mai vista prima, può avere lo stesso fascino dei domini del Re del Dahomey. Ed effettivamente è possibile scoprire una sorta di armonia tra le risorse di un paesaggio entro un raggio di dieci miglia, o i limiti di una passeggiata pomeridiana, e i settant’anni della vita umana. Né gli uni né gli altri vi diverranno mai troppo familiari.

Queste strade e questi sentieri congiunti formano un circuito di circa sei miglia, che cominciai a percorrere a piedi dieci anni fa per fare svaporare, camminando, l’ansia di un anno difficile. Continuavo a ripercorrere questo itinerario per concedere una tregua al lavoro, ma anche per alimentarlo, perché, in una cultura orientata alla produzione, pensare è generalmente concepito come fare niente, e il fare niente è difficile da fare. La via migliore per realizzarlo è di mascherarlo nel “fare qualcosa”, e ciò che più si avvicina al fare niente è il camminare. Camminare in sé è l’atto volontario più vicino ai ritmi involontari del corpo: il respiro e il battito del cuore. Stabilisce un delicato equilibrio tra il lavorare e l’oziare, tra il fare e l’essere. È una fatica fisica che produce nient’altro che pensieri, esperienze, arrivi. Dopo tutti questi anni di camminate per elaborare altre cose, aveva un senso tornare a lavorare vicino a casa – il senso indicato da Thoreau – e lì riflettere sul camminare.

Camminare è, idealmente, uno stato in cui la mente, il corpo e il mondo sono allineati come se fossero tre personaggi che finiscono per dialogare tra loro, tre note che improvvisamente formano un accordo. Camminare ci permette di essere nel nostro corpo e nel mondo senza esserne sopraffatti. Ci lascia liberi di pensare senza perderci totalmente nei pensieri. Non sapevo con precisione se ero troppo in anticipo o troppo in ritardo per il lupino purpureo che in questi promontori può essere così spettacolare, ma le milkmaids (o Stellarie holostee) crescevano sul lato in ombra della strada che portava al sentiero, e mi ricordavano i pendii della mia infanzia che fiorivano per primi ogni anno con un prodigo sbocciare di questi fiori bianchi. Nere farfalle mi svolazzavano attorno, sospinte dal vento e dal battito delle ali, e mi rimandavano a un’altra epoca del mio passato. Muoversi a piedi sembra rendere più facile muoversi nel tempo; la mente vaga dai progetti ai ricordi e alle osservazioni.

Il ritmo del passo genera una specie di ritmo del pensiero, e il tragitto attraverso un paesaggio echeggia o stimola il tragitto attraverso un corso di pensieri. Il che crea tra percorso interno e percorso esterno una strana consonanza che suggerisce come la mente sia essa stessa un paesaggio di generi e che il camminare sia un mezzo per attraversarlo. Un pensiero nuovo somiglia spesso a un aspetto del paesaggio sempre esistito, come se pensare fosse viaggiare invece che fare. Pertanto, un aspetto della storia del camminare è la storia del pensare concretizzata, perché i moti della mente non possono essere tracciati, mentre quelli dei piedi sono riconoscibili. Possiamo immaginare il camminare anche come un’attività visiva, ogni passeggiata un viaggio in cui ci concediamo sufficiente agio per vedere e per riflettere sulle vedute, per assimilare il nuovo al noto. È da qui, forse, che nasce per i pensatori la peculiare utilità del camminare. Le sorprese, gli affrancamenti e le chiarificazioni del viaggio possono talvolta essere spigolati facendo il giro dell’isolato come anche del mondo, viaggiando a piedi vicino e lontano. O forse il camminare dovrebbe essere chiamato movimento, non viaggio, perché si può camminare in cerchio o viaggiare attraverso il mondo immobilizzati su una sedia, e una certa smania di vagabondaggio può essere lenita solo dagli atti del corpo in moto, non già dal movimento dell’automobile, della barca o dell’aeroplano. Potremmo dire che è il movimento, come anche le vedute che scorrono davanti ai nostri occhi, a fare accadere le cose nella nostra mente, ed è questo che rende il camminare ambiguo e infinitamente fertile: è il mezzo e il fine, è il viaggio e la meta.

RIFERIMENTO IN RETE: http://www.tecalibri.info/S/SOLNIT-R_camminare.htm

6 Comments

  1. Assieme alle riflessioni di Nadia sul cammino, metto quelle di Adriana Zarri (Un eremo non è un guscio di lumaca- Einaudi editore), in cui il cammino esiste anche nella microscopia di un percorso di avvicinamento al sé, comunque e dovunque si muovano i propri passi, allontanandosi da un ego claustrofobico e asfittico, e abbracciando la materia sostanziale, quella che tutto compone. ferni

  2. belle le riflessioni di Nadia, tra esse una in particolare
    “La strada è dove la storia dell’uomo si interseca con la storia degli uomini.”

    una pagina da attraversare avendo in mente ogni passaggio che possa condurci alla meta
    elina

  3. La storia del camminare, il mezzo e il fine, il viaggio e la meta ci permettono di proseguire con un canto nuovo,sensibile.attento, in un’epoca in cui sembra essere giunti ai confini della vacuità.
    Dice Jung:”…. lo spirito in movimento e l’oggetto della creazione è l’universo. Ma queste tre componenti della realtà, spirito, mente e corpo, ovvero osservatore, processo di osservazione e oggetto osservato, sono essenzialmente la stessa cosa e originano dalla stessa fonte.”
    Grazie , cara Ferni, gli spunti di riflessione di Nadia sono davvero interessanti. Mary

  4. L’immagine di un viaggiare a misura d’uomo, di una dinamicità assaporata che si fa esperienza e saggezza… il turismo compulsivo delle società tecnologiche in cui si va tanto lontano nello spazio senza mutare neanche di un punto i proprio luoghi interiori, non ne ha decretato del tutto la scomparsa, se Nadia ce ne può parlare con tanta delicata bellezza.
    Grazie

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