ARCHIVIO TEMPIQUIETI di V. Ravagli: incontro con le DONNE DEGLI HORTI

R. Rampinelli

.

Ancora la semina è lontana. Si vedono
terreni inzuppati di pioggia e stelle di marzo.
Nella formula di pensieri infecondi
si configura l’universo seguendo l’esempio
della luce, che non sfiora la neve.
Sotto la neve ci sarà anche polvere
e, non disfatto, il futuro nutrimento
della polvere. Il vento che si leva!
Altri aratri dirompono l’oscurità.
Le giornate tendono a farsi più lunghe.
Nelle lunghe giornate, non richieste,
veniamo seminate entro quei solchi storti
e diritti, e si eclissano le stelle. Nei campi
prosperiamo o ci corrompiamo a caso,
docili alla pioggia, e infine anche alla luce.

 [Ingeborg Bachmann, Stelle di marzo]

.

Le  DONNE DEGLI ORTI

.

La poesia di Bachmann nella strofa finale si appoggia al noi, la parola che travolge quando vogliamo raccontare qualcosa delle donne degli Horti.

Vanna, Clelia, Nives, Raffaella, Doretta, Monica, Nella e tutte le altre amiche che da molti anni si incontrano per leggere, riflettere, raccontare, si sono date questo nome, alla latina, un po’ pomposamente, per mettere all’erta sulla valenza plurima del senso: non solo l’orto della terra in cui tutte noi siamo abituate a mettere le mani (qualcuna lo chiama giardino, qualcuna campagna…), ma un luogo che accoglie, che fa stare bene insieme perché apre alle storie.

Abitiamo in paesi piccoli, di confine, segnati dal fiume e pieni di nebbia, ma abbiamo case grandi, con le porte che si aprono sulla terra intorno.

Nei primissimi anni ’90 è cominciata la nostra storia, con gli scambi di letture e di esperienze, le frequentazioni e gli incontri. Il lavoro nella scuola, e il desiderio di scioglierlo dalle briglie dei formalismi, ci ha viste frequentemente intorno a un tavolo a pensare e studiare, a inventare modalità di relazione sempre più vicine a quell’universo di corrispondenze e affinità che si stava costruendo tra noi.

La comunità filosofica di Diotima e il pensiero della differenza che da lì si delineava hanno fornito scoperte alla nostra ricerca e hanno dato parole e pratiche alla nostra vita.

Qualcuna è entrata subito nell’Ordine della Sororità, fondato da Ivana Ceresa a Mantova nel 1998, ispirato proprio alla differenza femminile, altre sono entrate in questi anni, continuando a frequentare anche gli incontri degli Horti.

Parliamo con altre donne che hanno interesse per i temi che ci stanno a cuore e, con cadenza quasi annuale, ci ritroviamo a dialogare su politica, mistica, autorità femminile.

Per comunicare queste informazioni abbiamo usato la parola noi, consapevoli che può costituire un alibi, che permette di nascondere il singolo punto di vista dietro ad un interesse o a un progetto collettivo. Non essere responsabili in prima persona, ma responsabili per partecipazione, dà forza apparente e può generare debolezza.

Quando si presenta all’esterno un noi, ed è una sola che sta parlando, le interlocutrici non possono fare a meno di intendere che ciò che viene detto rappresenta anche il pensiero, la scelta delle altre, di quelle che dal noi sono indicate. Nella società femminile che va costituendosi però la relazione tra donne si pratica in rapporti che non sono regolati da parità e da reciprocità, sono anzi rapporti dispari, di amore e di affidamento, a volte conflittuali, segnati dalla valenza duale per essere veri. Qui solamente si attua la mediazione che, sfuggendo all’alternativa io/noi, riporta alla necessità della relazione io/tu che è misura di realtà.

.

R. Rampinelli

.

“melagrana,  promemoria del Gruppo,  scritto da Le donne degli Horti –  al termine del Convegno di Ca’ Vecchia su Madre “.

 Dio si sfinisce attraversando lo spessore infinito del tempo e dello spazio per prendere l’anima, afferrarla; poiché essa resiste e fugge, egli deve ricominciare più volte; a volte di sorpresa, a volte con la forza, a volte con la seduzione della gola, egli tenta di farle mangiare un chicco di melagrana. Se essa si lascia strappare, anche solo per un istante, un consenso puro e completo, allora Dio la conquista di fatto. E quando infine essa è diventata una cosa interamente sua, allora egli l’abbandona. La lascia completamente sola ed essa a sua volta deve attraversare, ma a tentoni, l’infinito spessore del tempo e dello spazio per raggiungere ciò che ama. E’ questo la Croce.

[S. Weil, Quaderni, III, pp. 105-106]

Eco per le donne degli Horti

Clelia racconta qualcosa sul lavoro fatto in ordine a madre/figlia per il ciclo di Mantova (Di tutte loro e di mia madre), dopo aver presentato la finestra su cui tutte via via mettiamo il nostro tocco o chicco

Poi presenta la Matrangela come legame con un simbolo materno che attinge alle storie popolari e che noi collochiamo nei nostri horti per istituire un legame tra il fare politico che viene dall’ordine simbolico della madre, le nostre relazioni e l’attenzione, quanto più possibile vigile, per quanto ci sta intorno.

Nella “Di qui dobbiamo cominciare”. Nel 1976 A. Rich conclude così il suo Nato di donna.

Cominciare dal grumo di sentimenti ambivalenti e di esperienze laceranti che fanno il legame tra madre e figli, e tra figlia e madre, passaggio obbligato per ogni pensiero di trasformazione politica.

Si tratta di vincoli duali; sono quelli che ci interessano. Li cerchiamo, li creiamo in situazioni nuove e soprattutto ci pare che valgano nelle relazioni tra donne. Fate attenzione a questo noi che è sotteso alle mie parole: su questo rifletterà Raffaella.

Vincolo di tipo duale dunque: uno stare nell’ordine della madre nel quale ci si situa quando si sceglie di fare di una donna la misura delle proprie parole e delle proprie azioni.

Il vincolo duale dà una maggiore leggerezza, ti rende più mobile, più inventiva, più responsabile, perché riferirsi ad una donna ti libera dal peso di dover ottenere il consenso di tutte le altre. Quando questa scelta è dichiarata ed è visibile, prende vita l’ordine simbolico materno poiché c’è una donna che mostra il criterio secondo cui ha deciso di regolarsi. Allora anche le altre, quelle che non si vincolano a nessuna, si trovano davanti al fatto che nel mondo esistono ora due misure, quella femminile e quella maschile, e che è rispetto a questo antagonismo di autorità che la loro scelta, comunque scelgano, prende senso.

L’ordine simbolico cosa comporta nella vita per essere un ordine vivente o vigente? Cosa ordina? Come ordina? In che rapporto sta con il tema “fare società femminile?

Non è possibile rispondere a queste domande senza fare riferimento al principio dell’autorità materna e alla sua potenzialità ordinatrice e la forma principale dell’autorità femminile si manifesta laddove in una donna viene riconosciuta la possibilità del legame con l’origine.

Il rapporto con una donna che venga percepita come autorità riattiva la potenzialità iniziatrice e ordinatrice del principio materno nei confronti sia del mondo che della donna che riconosce quella autorità, rendendo così presente l’autorità di origine materna.

Nei fatti una donna che sia così investita di autorità femminile può divenire per l’altra “iniziatrice”, aprendo nuovi ambiti del mondo, spazi d’azione….

R. Rampinelli

.

Anche il “mantra” di Muraro, lo sappiamo perché lo siamo, sulla competenza del vivere che riguarda tutti in quanto viventi, può essere declinato nel rapporto madre/figlia e anche nel rapporto madre di figlia che è madre.

Il linguaggio è il mio sforzo umano.

Per destino devo andare a cercare

e per destino torno a mani vuote.

Però ritorno  con l’indicibile.

[C. Lispector]

L’ombra della madre, 2007

Su questa linea, sia pure con taglio decisamente psicoanalitico, dice Cristina Faccincani: “…il paradosso più difficile, ingombrante e, nel contempo, indicibile, riguarda la dimensione trigenerazionale del problema della funzione materna, funzione che nella sua componente interiorizzata concerne l’accettazione e l’accoglienza di sé, l’ospitalità a sé.

In un certo senso la forma, l’intensità o la gravità del problema nella terza generazione (la figlia) è correlata in modo altamente complesso ai contenuti inconsci della madre in rapporto alla propria madre.

“… nell’analisi occorre avventurarsi a ritroso nei territori emotivi della relazione fra la madre e la madre della madre (la nonna) per rintracciare il senso di tutto ciò che la figlia si ritrova a incarnare, sia come eredità vivente di quella relazione, sia come vincolo alla riparazione delle falle di quella relazione, ciò che paradossalmente la pone in posizione di madre della propria madre… Questa capacità di sguardo sulla propria madre come figlia richiede l’accettazione, dentro il legame affettivo, di una componente di alterità radicale, di una componente di estraneità nel legame affettivo che è molto difficile da raggiungere perché implica una traversia emotiva che comporta la rinuncia a vedere e volere la madre come qualcuno che nasce con me in una sorta di con-generazione.”

Il termine estraneità serve a descrivere ciò che all’interno del legame affettivo costituisce un punto irriducibile di alterità e la sua accettazione apre spazi per una autentica possibilità di relazione con la madre e con l’altra dello stesso sesso.

Gli ostacoli  all’accettazione dell’area di estraneità sono molti e complessi, ma è proprio l’esplorazione di queste zone oscure e paradossali di vincolo nella relazione madre/figlia a rendersi necessaria per poter rintracciare tutto ciò che impedisce o annulla il darsi delle condizioni per un rapporto di reale reciproca gratitudine fra madre e figlia.

Forse bisogna anche qui trovare la via di una negoziazione, come dice Ina Praetorius, il tavolo comune intorno al quale le donne imparano ad accettare le differenze fra donne per farne una risorsa per un agire comune.

E’ una postura politica che valorizza quello che c’è, poco o tanto, della relazione materna. Le altre mediazioni si possono fare o no. Porsi come misura somma è postura non politica…può uscire una idealizzazione della relazione materna e il tutto non va nel senso della politica. Se ci sei è perché la madre ha detto sì.

L’ordine simbolico comincia per una donna dal sapere amare la madre. Che non vuol dire rimettersi a sentire amore per la madre, cosa in sé molto bella,  che però non dipende dalla nostra decisione. Vuol dire che, nella nostra esperienza di relazione con la madre, con tutti gli affetti e le emozioni che vi sono intricati, quali che siano, noi facciamo materia di racconti e di riflessione, traducendola in sapere e vita e avendo come orientamento il principio della riconoscenza nei confronti di lei.La nascita del senso di gratitudine verso la madre porta nella vita una costante possibilità di essere felici.

La madre, quella vera, è il rapporto simbolico con la nostra origine. Amore per la madre, cioè amore fra due donne in un rapporto di grande vicinanza e, al tempo stesso, di insormontabile disparità. Non moralisticamente, ma simbolicamente, come ricerca del senso autentico dell’essere.

Dal saper amare la madre dipende l’autonomia di una donna.

L’amore per la madre non solo non ci viene insegnato, ma, se lo sapessimo, saremmo spinte a disimpararlo perchè c’è come un disinsegnamento dell’amore femminile della madre (anche l’emancipazione non lo insegna, emanciparsi vuol dire quasi sempre una presa di distanza dalla madre, distanza che diventa spesso un distacco ostile).

Lo capiscono e lo fanno proprio anche i rotocalchi.

Il titolo di una rubrica di “Io donna” infatti recita:  Uno studio ci rassicura: il futuro è donna. Qui il rapporto tra una madre e una figlia viene presentato come il più potente carburante sociale nella moderna tribù. Non è la crescita professionale ed economica del padre a  spingere i figli e soprattutto le figlie.  La ruota che fa girare più veloce il meccanismo della mobilità è quella del tempo che le madri riescono a dedicare alla propria istruzione.

La madre è, universalmente, il nome della relazione che è condizione di vita umana. Il padre  e  il simbolico sono stati in passato trattati in termini di necessità ma, dopo l’11 settembre si è reso necessario comprendere come il mondo continui a farsi e a disfarsi, come la lingua che parliamo, e come il soggetto lo attraversi con le sue peripezie e ne dia notizia attraverso l’esperienza, per esempio, della scrittura.

Così è, nella società femminile che va costituendosi, in cui la relazione -donna con donna- si pratica in rapporti che non sono eticamente regolati dalla parità e dalla reciprocità, sono rapporti dispari, di amore e di affidamento, spesso conflittuali, a volte oscurati dall’ “ombra della madre” e proprio grazie a queste modalità irregolari riescono a rendere significante l’antica relazione madre-figlia.

E il senso è il privilegio della vicinanza della figlia al corpo materno. A me risulta che questa cosa che ho chiamato privilegio della vicinanza senza interdetti al corpo materno, la politica delle donne lo consenta, con quel che segue che è di rendere disponibile qualcosa della potenza materna.

.

R. Rampinelli

.

Raffaella Il noi può costituire un alibi, permette di nascondere il proprio desiderio di affermazione dietro ad un interesse o a un progetto collettivo. Non essere responsabili in prima persona, ma responsabili per partecipazione, dà una forza apparente; in realtà genera debolezza.

Quando si presenta all’esterno un noi, e in realtà è una sola che sta parlando, le interlocutrici non possono fare a meno di intendere che ciò che viene detto rappresenta anche il pensiero, la scelta delle altre, di quelle che dal noi sono indicate. In qualche modo colei che parla inevitabilmente le rappresenta. Questo pesa su chi parla: può prenderla una impraticabile preoccupazione di essere fedele a tutte e a ciascuna, o, viceversa, la necessità di entrare in continui distinguo  che marcano la sua posizione individuale, indebolisce la sua parola. Mentre la situazione concreta nella quale agisce le richiederebbe piena libertà    di interlocuzione e di spostamento per trovare le necessarie mediazioni, si irrigidisce in un comportamento ripetitivo, in un rituale che la depotenzia. Il noi maschera allora l’indisponibilità alla relazione, l’insicurezza, a volte la paura di perdersi. In questa situazione, citare l’autorità di un’altra donna può essere un dovuto riconoscimento, ma può nascondere l’incapacità di mettersi in gioco.

Dire noi implica inoltre quel mettersi dal punto di vista di, che provoca una scissione nel soggetto che parla, il quale parla non per sé, ma in rappresentanza di altre. Dire noi è infatti fondante della rappresentanza e di un agire politico attraverso soggetti collettivi. L’idea di appartenere ad un soggetto politico collettivo comporta delega ad alcune a rappresentare la forza, della quale ci si trova sprovviste quando si deve agire in modo non ideologico in situazioni reali. Il soggetto collettivo dietro al quale ci si nasconde chiede consenso e schiarimenti, o con noi o contro di noi, invece che capacità di costruzione di relazioni là dove si agisce.

Se il noi fosse solo questo, potremmo abbandonarlo definitivamente. Ma il noi segnala anche altro, nel noi –ma allora è un altro uso del noi- emergono   degli elementi di verità per cui, pur precisandone il senso, non è possibile rinunciarvi del tutto. Vi è un primo significato del noi, il più semplice, che è letteralmente inevitabile; è quello che si usa riferendosi al passato, per raccontare una storia che più persone hanno vissuto insieme, quando erano in presenza l’una dell’altra, e dal ragionare insieme apparivano cose vere prima invisibili e un nuovo senso della vita. C’è in questo noi il senso del debito, della riconoscenza, del voler rendere conto che altre sono state la condizione  di ciò che oggi siamo e diciamo.

Vi è anche una seconda intenzione dell’uso del noi, quella del riferimento a qualche cosa di più grande dell’Io, dalla quale dipende il senso dell’Io stesso. L’esistenza di questo senso sembra poter essere garantita dal noi, da una forma stabile di condivisione, dalla sicurezza che deriva dall’espressione dell’accordo di più donne. Accade però che se una struttura sociale femminile diviene rappresentante del senso, sua cristallizzazione, si riproducono nell’agire politico forme di identificazione collettiva che divengono ostacolo per la libertà femminile. Mentre l’emancipata, che percorre la sua vita priva del riferimento ad autorità femminili, tende all’omologazione e rimane, nei fatti, subordinata all’autorità maschile, chi affida ad un collettivo femminile la garanzia dell’esistenza dell’ordine simbolico accetta la subordinazione ad altri meccanismi di potere, che rimangono tali anche se sono più vicini, più personali, e questa subordinazione limita l’efficacia politica, la capacità di dare vita al nuovo.

Pensare e praticare il vincolo nella relazione duale permette di sfuggire all’alternativa  Io-noi, alternativa che non è reale, perché non si dà mai indipendenza dell’io da qualsiasi mediazione: l’Io non è mai solo, ma sempre in relazione, se non altro per la lingua nella quale si pensa. Non è dunque pensabile contrapporre alla forma politica del gruppo, che si rappresenta come soggetto collettivo, un Io indipendente, illusoriamente sciolto da ogni legame, quanto un Io che trova in un’altra   donna, presente, la mediazione senza la quale non ha misura della realtà. La madre è stata la mediazione originaria: il vincolo duale riproduce questa mediazione e risponde alla necessità di riferirsi ad un’autorità femminile che rimette in luce l’ordine materno dal quale dipende la nostra libertà.

Il noi rimane allora la parola che significa un accadimento, una forma di condivisione che non è stabile, data per sempre, ma va sempre riconquistata: in presenza, attraverso quella forma d’azione che è la parola, il noi va ricreato.

Il noi  -come vedete- è un pronome drammatico, nel senso originario del termine, in quanto mette in scena un’azione tra più soggetti e nomina relazioni dentro spazi e tempi diversi.

Il noi, per esempio, del testo riportato è il noi di un gruppo di filosofe di Verona “fotografato” nell’anno 1991 e in cui noi,  donne degli horti di Mantova ci siamo ritrovate nell’anno 2010 e ne abbiamo fatto specchio e finestra per altre donne che sono venute con noi qui a Sasso .

Con un’attenzione molto forte a guardare questa radialità dei gruppi come disposta intorno ad un centro inabitato, lasciato libero per altre, per Altro.

 .

Donne degli Horti, Sasso Marconi, 23/24 ottobre 2010

2 Comments

  1. sono affascinata da queste pagine e ringrazio Vittoria per condurci in luoghi di azione e pensiero
    relazione condivisione libertà tessono la trama
    mi aggiro tra le stanze degli scritti sulla Sororità, da alcuni giorni, questo incontro ora mi è di grande aiuto, un altro sguardo teso verso l’ordine simbolico
    grazie
    elina

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.