marianne laimer
Registri diversi: il densissimo dei sensi, multimetaforico, espressionistico, apparentemente di getto e viscerale (ma in realtà, ad una verifica prosodica e stilistica, molto lavorato), quello di “fuoco che mi cammini dentro” (come non ricordarsi, in modo inquietante, di Lynch?) e di ”Per ascoltarti mi dispongo in un nudo silenzio” (ma già qui c’è una diversità: meno immediatezza sensuale e più rarefazione quasi spirituale), dove mi viene incontro un amore tanto di passione quanto estremamente assente, in costante sottrazione di sé. Non solo dalla parte dell’altro ( “ l’attesa vertigine di non vederti, non raggiungerti”, “fino al veleno del tuo tornare distante.”), ma anche di chi parla ( “Non mi toccare parola senza carne”, “sola ho costruito dentro la misura di un vuoto”). O in un reciproco essersi presenti in aggressione ( “disegnavo sul tuo collo tutte le lance del mio amarti”, “tu il guardiano della croce che ancora/ mi lavora il legno”, “Voglio ferirti straziarti strapparti quelle scarne ossa”, “Tu mi disumani/…/ mi sei solo debito e torto” ). Non ho mezzi esterni alla poesia per decifrare questa passione; solo alcuni ‘segni’ che a me tracciano una direzione particolare: il ‘logos’ (di lui/l’altro) disincarnato e per questo respinto, contrapposto alla “mia ignoranza”, elevata invece ad orgoglio di una condizione ‘minima’ (“d’asina”), ma concreta (di umanità?); il rifiuto “della logica” per un incontro che sarà “furia”, “turbine”, “nubifragio”; la continua tensione a questo incontro a cui invece si sottrae sempre lui, “il senza nome, l’amante”, “l’errante”, che quasi proprio per questo ridesta il desiderio, “la grazia e l’inconveniente/ disgrazia di non amare più se non l’assente”. Risento le invocazioni e le disperazioni, le ripulse e le suppliche delle mistiche a dio. Ci sono poi testi come “cristo che mi stai dentro in questo incrocio”, (in un registro di alta – solenne, direi – colloquialità, dove diminuisce l’occultamento metaforico e l’argomento emerge temprato a filo di spada, perfetto; questo secondo registro, pulito, semplice, immediato e sempre molto alto, solenne, è quello che preferisco ), testi che sembrano darmi ragione. Ma anche testi come “non conosco la tua bocca”, con quel finale annichilente -per resa al nonsenso (due bui, due sconoscenze che si incontrano, prossime!) e per bellezza estetica –: “fino alla mia oscurità/così prossima alla tua”; sono testi che possono valere tanto due umani che intrecciano la loro fragilità nell’”ombra” (sempre quest’ombra che cela un miracoloso con-fondersi amoroso: “Noi facevamo l’amore/ interi e intatti/ dentro il lampione dell’ombra e quest’ossimoro che richiama indietro tutte le certezze e le fa inquietanti incertezze!), quanto un’icona sacra dove la mano benedicente può essere “vicina al labbro che azzittisce” dall’altra parte umana “una rubrica di domande”. Poi sopravviene anche un’ ulteriore possibilità: questo sfuggente amato e cercato non potrebbe essere forse “l’altro/ sempre intoccabile.//Chiuso, sempre,/ tra altissime mura di silenzio affacciato su altre rive. / …/ Chi è chi/ ed è/ eco di cosa?” (che è peraltro una, se non la maggiore, delle mie ossessioni, al punto che le ho dedicato un complicatissimo romanzo di ‘fantascienza’ per esporla e risolverla in qualche modo, senza riuscirci naturalmente). L’incertezza è così reale nella mia lettura che penso: perché non lasciare alla polisemia della poesia il suo poter dire molteplice? Perché, e vero, Fernanda, che in poesia si sospendono i nessi normali logici, quelli che ti insegnano a scuola e ti “imparano i comandamenti della follia”.
Ma c’è un altro tema fortissimo che potrebbe a quanto sopra aggregarsi e disgregarlo ad altro: questo senso fisicissimo, concretissimo del mondo, con tutto il suo formicolio in movimento di ossa animali semi rocce umani generazioni (“procreandosi uguale diverso”), a cui si appartiene: che è come stare “dentro/ la notte con la notte dentro”, “cieca foresta di respiri”, “trovando gli anelli/ di innumerevoli matrimoni maternità/ paternità e sorellanza/ che indosso in tutto il corpo”; che è un accordare il proprio al respiro cosmico: “Respiro. Silenzio. Respiro./ Sì, ora lo sento, siamo un unico ora”. Che è come acquisire la “prima volta/ della prima visione delle cose/ cose cadute dal cielo/ in questo orto”. Quel sentire la mater-materia in tutta la sua potenza vitale, Grande Madre non solo neolitica “muta solenne e regale”, che è “tutte le tribù” e spoglia “i semi ad uno a d uno e/ in sé” li rimette, ed è la garanzia della continuazione della vita: “l’ancora e ciò che sarà/ il prima, l’inizio, il seme.” Devi sapere, Fernanda, che nei miei vari turbinosi mutamenti di/con dio, una volta sono rimasta folgorata da Clarice Lispector che in La passione secondo G.H. mi ha condotto per mano dentro a quello che lei dice l’in-umano, nel buio materico, per farmi incontrare la vita nella sua pienezza (di continuità, di mistero, di assenza e presenza, di bene e male indissolubilmente connessi e deprivati –lì – di valore etico), quella che poi è tutto (“tanta immensità/così tragicamente corruttibile e regale”, dici tu), l’universo e la formica, l’ieri e l’adesso, “quello che c’è tra il numero uno e il numero due”, quella che è dio, quella che ti toglie ogni possibilità di ri-dire e allora “mai più comprenderò ciò che dirò.” E allora potrò dire solo “la vita mi è. La vita mi è, e non capisco ciò che dico. E allora adoro …………………………………………………………………………………….” Clarice nel suo itinerario a ritroso dall’umano si rivolge, per non essere singolarità stupida incapace d’aprirsi, a qualcuno che chiama ‘amor mio’ e ‘mamma’. Non è tanto distante da te. Anzi, subito, dalle prime pagine, questo accostamento mi ha testardamente soffiato negli orecchi.
L’altro registro ancora che ho notato, ma molto minoritario mi pare, è quello ‘da tutti i giorni’, per parlare dell’ombra, quello che spesso comincia come si cominciano i racconti: “C’era una volta”/ “Stavo nel piccolo cortile della scuola”/ “Stavo dentro una stanza/il capo reclinato e le braccia stese” (come non trasformarti nell’Emily mentre ascolta la vita?)/ “dormivo, forse stavo sognando” e che permette di far trapelare qualcosa di questa individua Fernanda, prima che mi riscappi di nuovo a confondersi nella specie (dei viventi tutti, però, non solo degli “antenati” che le “sfociano nel ventre”), di cui si fa quasi custode in poesia, visto che non c’è “nessuno a sentinella”.
Che belle, certe tue chiuse! “Nodo per nodo legàti alla mia coda d’asina.”; “Eppure ancora … trovo un gesto da donarti.”; “ciò che sola ho costruito dentro la misura di un vuoto.” E tante le ho già riprese sopra.
Posso dirti cosa non mi piace? Quando sottolinei con stacchi grafici i diversi semi che stanno dentro una parola. Sarà perché io provengo proprio da queste ‘maniere’ (maestro e ‘donno’ Spatola che un per un po’ mi ha allevato, la Giulia Niccolai di quei tempi, l’Anceschi che mi tornava sempre alla neo-avanguardia) e perché le ho troppo usate e poi le ho dovute lasciare quando ormai mi avevano condotto all’aridità … Sempre le parole delle poesie sono aperte, ambiguamente une e molteplici, ed il lettore li sente in sé questi echi … lasciamogli la scelta fantastica di aprire o no, di innestare o no … Mi permetto di dirti questo, con molta umiltà, proprio perché il resto mi piace molto.
E questo colloquio non è per ‘ricambiare’ (impossibile, peraltro!), ma solo perché sono scattate tutte quelle robe di cui sopra.
Milena Nicolini- gennaio 2012
Fernanda Ferraresso, MIGRATORIE NON SONO LE VIE DEGLI UCCELLI- Il Ponte del sale 2009
I miei più vivi complimenti a Milena Nicolini per quest’intervento da lettrice di poesia innamorata della poesia: qualità che apprezzo in sommo grado in chi scrive di libri.
Fernanda Ferraresso sa già quanto ami il suo libro – mi piacerebbe che in molti lo acquistassero (tra l’altro chi al PONTE DEL SALE si occupa di raccogliere le richieste d’acquisto ed evaderle è persona squisita).
Un abbraccio
A Milena ho già detto, con una e mail in privato, quanto abbia centrato e raggiunto la mia barchetta in navigazione.Barchetta che in realtà è solo un legno e dentro vi sono ospiti insetti, tarli e cicale, ogni tanto qualche rospo fa l’occhietto da altra riva ed io non posso che parlarne, masticando in me, che sono asina, il fieno della parola, fieno e fiore e spesso sella????? e come per gioco mi ritrovo il ventre aperto con un pavimento a forma di stella o di stellato, camuffato da steccato. Insomma tutto questo per dire che oltre al senso per me le parole sono architetture con porte e finestre e devo, proprio è più forte di me, devo guardarci dentro, contarne le pietre di volta dell’arco che tragitta il tempo e niente, niente per me è fermo, uno “stabile” in cui vivere come fossi-lì. Gioco, da quando ero molto piccola, le parole per me hanno significato la madre che non avevo e tenevo stretta in corpo, dentro luoghi che erano la sua e mia origine, campi, fiume, fosso, e alberi e uccelli… tutta una nidiata di piccolissime creature e l’orto…il pozzo dentro cui mi tuffavo a suon di domande a cui eco rispondeva sempre riproponendomi la questione con la coda dei suoni. Tutto migrava e continua a farlo, da un ponte a un ponteggio, a un puntino,a …ancora non so ma penso che sia là dove la parola “muta” ancora mi parlerà. Grazie,ferni
…confermo con poche parole la mia ammirazione per tutta la poetica di Fernanda Ferraresso…il suo libro mi accompagna ogni giorno, da alcuni mesi leggo e rileggo le sue parole, grazie.
Milena svolge una lettura complessa, ricca di passaggi, sfaccettata, come si addice alla parola di Fernanda, alla voce che ha posto nel vaso di “Migratorie”.
Un testo prezioso, caro, un compagno nei viaggi soprattutto, ricordo che mi ha fatto e mi fa compagnia in molti momenti di attesa
e ancora lo leggo (e mi leggo) sospesa tra echi e visioni del mondo, del cielo, del giorno e mi piace questa molteplice sostanza che allarga la giornata, la casa, la casa di mia madre, alberga per ore il suo “orto”-parola e punge, talvolta, ti scrolla, mostra te stessa “antenata” e filo di memoria
grazie
elina
ogni lettura offre spicchi e specchi in cui io stessa mi ri-gua(r)do. Milena offre guadi, a volte impervi, perché sono attraversamenti di terre, non di confine, ma co-fine, in cui si cessa di essere soli per essere intere galassie. ferni
non sono e non sarei mai in grado di dire come e quanto “MIgratorie…” di Fernanda abbia potuto essere compagnia e domanda, ombra e disgelo in un andare lento come il passo che mi riconosco. amo quelle pagine che ancora adesso viaggiano dalla lucetta della sera alla borsa del giorno. pur non leggendo e rileggendo le parole, so che sono con me, so che mi fanno comune a lei. una sensazione necessaria e la cosa bella è che avviene tutto in modo naturale, spontaneo.
Grazie Api ed Elina per quanto dite, è un po’ come sentire allargare la famiglia di sorelle, proprio come dico in uno di quei testi che hanno,con mia grande gioia, migrato fino a voi, fino a. ferni