Jerry Uelsmann
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Da La sabbia e l’angelo, Margherita Guidacci , Le poesie- A cura di Maura Del Serra, Le lettere Editrice 1999
I
Non occorrevano i templi in rovina sul limitare dei deserti,
Con le colonne mozze e le gradinate che in nessun luogo conducono;]
Né i relitti insabbiati, le ossa biancheggianti lungo il mare;
E nemmeno la violenza del fuoco contro i nostri campi e le case.
Bastava che l’ombra sorgesse dall’angolo più quieto della stanza,
O vegliasse dietro la nostra porta socchiusa –
La fine pioggia ai vetri, un pezzo di latta che gemesse nel vento:
Noi sapevamo già di appartenere alla morte.
II
Se vuoi lasciare la tua impronta, o uomo, scalfisci piuttosto la sabbia,]
Perché la più alta torre diverrà sabbia alla fine.
Scrivi il tuo nome sul lido deserto, e prega il mare che presto lo cuopra di lamento:]
Perché tu stesso sei sabbia, sei la morte che dopo di te rimane.
III
Ogni volta che dicemmo addio;
Ogni volta che verso la fanciullezza ci volgemmo, alle nostre spalle caduta,]
(Tremando l’anima al suo lungo lamento);
Ogni volta che dall’amato ci staccammo nel freddo chiarore dell’alba;]
Ogni volta che vedemmo su morti occhi l’enigma richiudersi;
O anche quando semplicemente ascoltavamo il vento nelle strade deserte,]
E guardavamo l’autunno trascorrere sulla collina,
Stava l’Angelo al nostro fianco e ci consumava.
IV
Ora il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano,
Il nostro veleno nei cactus e negli spini crudeli.
Si curveranno i vivi alle sorgenti, diranno:
“Chi spinse verso noi l’acqua da occulte vene del mondo?”
E molto prima che il freddo li colga e la notte sul loro cuore s’adagi,]
Anche in un meriggio d’api e di succhi ardenti,
Conosceranno l’angoscia, perché potenti noi siamo e vicini,
E non vi è fuga dal cerchio in cui già li stringiamo,
Con ogni stelo da noi sorto e ogni frutto che colmo e grave alla nostra terra s’inchina.]
V
Furono ultime a staccarsi le voci. Non le voci tremende
Della guerra e degli uragani,
E nemmeno voci umane ed amate,
Ma mormorii d’erbe e d’acque, risa di vento, frusciare
Di fronde tra cui scoiattoli invisibili giocavano,
Ronzìo felice d’insetti attraverso molte estati
Fino a quell’insetto che più insistente ronzava
Nella stanza dove noi non volevamo morire.
E tutto si confuse in una nota, in un fermo
E sommesso tumulto, come quello del sangue
Quando era vivo il nostro sangue. Ma sapevamo ormai
Che a tutto ciò era impossibile rispondere.
E quando l’Angelo ci chiese. “Volete ancora ricordare?”
Noi stessi l’implorammo: “Lascia che venga il silenzio!”
VI
Non il ramo spezzato, non l’erba scomposta lungo il sentiero
Ci dicevano il suo passaggio, ma il tocco di solitudine
Che ogni cosa in sé custodiva ed a noi rendeva, liberando
Dopo il messaggio consueto l’altra, l’ignota parola.
Come trasalivamo ascoltandola, come s’orientava sicuro
Il nostro cuore sull’invisibile traccia!
Così noi sempre ti seguimmo, Dominatore ed Amato,
Né ci sorprende la bianca luce in cui svelato al nostro fianco cammini]
(Ora che l’ombra carnale è tramontata sul meridiano della morte)
Perché da lungo tempo te solo conoscevamo, a te solo
Obbedivamo, tua destinata preda,
Trascinando sulle vie della terra la tua celeste catena straniera.
JerryUelsmann
Tutti i vostri strumenti hanno nomi bizzarri
e difficili, ma io vedo chiaro
e so che in fondo sono solamente
metri e gessetti con cui misurate
e segnate – segnate e misurate
senza stancarvi.
Sfilate spilli di tra le labbra, come un sarto:
me li appuntate sull’anima
e dite: “Qui faremo un bell’orlo.
Dopo starai tanto meglio.”
Io non voglio che mi tagliate un pezzo d’anima!
Se ne ho troppa per entrare nel vostro mondo,
ebbene, non voglio entrarci.
Sono una poetessa: una farfalla, un essere
delicato, con le ali.
Se le strappate, mi torcerò sulla terra,
ma non per questo potrò diventare
una lieta e disciplinata formica.
Un avanzo di civiltà industriale
L’acqua bassa vicina alla riva
dove galleggiano
legni marci uniti ad angoli strani
da chiodi rugginosi
e dove si rovesciano i rifiuti
d’un astioso rigagnolo di fabbrica;
l’acqua dove la schiuma
gorgoglia in cerchi grigi
o si allunga fra lisce cicatrici
di luridi colori senza nome;
dove la nafta opprime la salsedine;
dove non penetra ondata
che sappia poi tornare al largo;
dove nulla scompare e nulla viene redento –
quest’acqua, a un tratto, ti trovi nell’anima
quando il male t’afferra
e per il tuo contagio sembra impura
anche la fiamma del sole
Jerry Uelsmann
La mia tematica è probabilmente legata a uno dei primi ricordi della mia vita. Avevo quattro anni e mezzo: la data è fissata con esattezza da quella – 1926 – che vedevo sul frontespizio di un calendario murale non ancora sfogliato, appeso sopra il caminetto, nella casa di campagna dove vivevano i miei nonni. Si doveva quindi essere alla fine del 1925, dopo Natale ed ancora nell’atmosfera di Natale. Mia nonna era seduta in una grande poltrona vicino al caminetto; ed io sedevo ai suoi piedi, su un panchettino imbottito, appoggiando la schiena contro le sue gonne. A un tratto, non so come né perché, parve che le frontiere del mio mondo infantile – fino allora eterno, incomunicabile ed immutabile, di fronte al mondo anch’esso eterno, incomunicabile ed immutabile degli adulti – cadessero polverizzate. Sentii allora, con una violenza che mi fece paura, la continuità tra mia nonna e me, l’unicità della corrente – sangue e tempo – che ci attraversava. Lei era stata come me e io sarei stata un giorno come lei. I nostri mondi non erano divisi. Per un attimo mia nonna non ebbe più neppure un’individualità diversa dalla mia: era un’altra me stessa, che mi aspettava al termine di un’esperienza sconosciuta. O – faceva lo stesso – io ero lei, prima di quell’esperienza. E tra i due momenti, che ormai mi apparivano drammaticamente intercambiabili, si svolgeva la legge di crescita e di decadenza, la legge ineluttabile a cui nessuno poteva sfuggire, che aveva appunto nome Tempo.
Naturalmente le mie di allora non furono riflessioni ma impressioni che intuii collegate ad una realtà più grande di me, tanto che dissi a me stessa: «Debbo ricordarmene per più tardi. Più tardi capirò». E me ne sono ricordata, anche se non sono riuscita, e temo che non riuscirò mai, completamente a capire. Le mie risposte a quel ricordo e i miei ripetuti sforzi di capire sono stati l’impulso primo e il tema in senso profondo, dei miei tentativi poetici.
Riguardo alla cronologia di questi: i più antichi non mi portano molto lontano dall’epoca dell’intuizione. Cominciai infatti a scrivere prestissimo, e non soltanto nella direzione della lirica. A otto anni contavo varie novelle e un paio di commedie. Fortunatamente a quel tempo non usava la pubblicità invereconda di oggi intorno alle produzioni infantili. Nel decennio successivo (dagli otto ai diciotto anni) i miei interessi da creativi divennero prevalentemente riflessi. Prendevo molto sul serio lo studio. Inoltre in questo periodo – corrispondente all’incirca agli studi medi – sorse in me una passione che per poco non divenne dominante nella mia vita: la passione della matematica. Anche se non ho seguito – e forse ho fatto male – quell’inclinazione, penso che ad essa si riallaccino un amore di chiarezza ed un’esigenza strutturale che non mi hanno più abbandonata e che anzi non sono riuscita io stessa ad abbandonare quando, al mio inizio universitario (Facoltà di Lettere) nella Firenze ermetica del ’40, ho tentato di conformare i miei risorgenti impulsi lirici alla poetica allora in auge. Il mio paradosso fu proprio questo: che mentre avevo la miglior volontà del mondo di assimilare quella poetica, in me qualcosa di indipendente dalla volontà e di più profondo della volontà rifiutava di assoggettarvisi. Analoga fu la mia posizione nel settore critico: anche lì, fermamente risoluta ad applicare gli insegnamenti che ricevevo, finivo sempre, con mia somma costernazione, per uscire di pista. Non so cosa ci fosse in me, perché come ho già detto, non avevo allora la minima intenzione polemica, tutt’altro: ma ero organicamente irriducibile e ingovernabile. Del resto non ebbi molto tempo per approfondire l’assurdità della mia situazione ed addolorarmene. C’era ben altro nel mondo che reclamava la mia attenzione!
Quando ricominciai – per la terza volta in vita mia – a scrivere poesie, si era nell’anno zero dell’Europa: quell’anno indimenticabile che fu il 1945. Questa volta, come ai tempi della mia fanciullezza, scrivevo senza nessuna soggezione estetica, col solo scopo di buttare fuori quello che avevo dentro e che ora mi faceva terribilmente male. Scrivevo senza sforzo: tutto era infatti già stato pagato sul piano esistenziale. Nacque così «La sabbia e l’angelo»: un libro per il quale, qualunque siano i suoi difetti ed errori, avrò sempre la giustificazione suprema dell’istinto di conservazione e della «legittima difesa»: non scriverlo sarebbe equivalso per me, letteralmente, a morire.
Questa condizione di «alternativa alla morte» ha pesato anche sulla mia produzione successiva e in gran parte, debbo riconoscerlo, negativamente: mi sono infatti abituata a considerare l’atto poetico come una cosa naturalissima o impossibile, senza vie di mezzo, e ho così trascurato quell’allenamento e quell’esercizio quotidiano che sono invece tanto necessari alla formazione di un autentico stile.
«La sabbia e l’angelo» ha avuto altre conseguenze sui miei lavori successivi, in quanto mi ha, in certo modo, indicato le direzioni in cui potevo muovermi. Avevo capito, attraverso quel libro, che i miei interessi erano soprattutto di contenuto; che le parole per me valevano per il loro senso ordinario e corrente, di scambio, non per un soprasenso demiurgico che le isolasse dal resto del linguaggio – e che la mia ricerca, qualunque potesse essere la sua portata e il suo approdo, avrebbe dovuto svolgersi in un accostamento drammatico di significati, anziché in un accostamento magico di suoni. Da questa concezione prettamente «impura» della parola nasceva come corollario una spiccata avversione al «frammento» (l’espressione pura e libera per eccellenza) ed un’altrettanto spiccata predilezione per la poesia vincolata, compresa e, se si vuole, costretta, in precise articolazioni e «strutture» che io non ho mai sentito come antagoniste alla poesia (secondo la definizione del Croce) e neppure come «condizione della poesia» (secondo l’espressione, tanto più felice, del De Robertis), ma proprio come parte integrante e indistinguibile della poesia: corpo del suo corpo e anima della sua anima. Personalmente preferisco un verso debole, ma che contribuisca all’unità e al progresso logico dell’insieme in cui si trova, ad un verso molto migliore che se ne vada per conto suo. Non è una preferenza accademica: ho fatto molte volte questa scelta, specialmente in « Morte del ricco».
Naturalmente queste mie preferenze, o magari ubbìe, non sono articoli di una poetica. Sono semplicemente delle manifestazioni di condotta pratica che ho riscontrato nella mia esperienza ed in cui ho ravvisato delle costanti del mio temperamento.
Chi oserebbe, chi potrebbe avere la presunzione di parlare di una «poetica»? E’ già molto se uno riesce a capire il funzionamento di una molla o due del suo organismo e a farle scattare quando gli servono, per proprio uso e consumo.
Margherita Guidacci (Poesia italiana contemporanea (1909 – 1959), Giacinto Spagnoletti, Editrice Guanda)
Margherita Guidacci , Le poesie- A cura di Maura Del Serra
Collana Pan – 23, Le Lettere Editrice 1999
la voce nell’autoritratto offre una visione completa e precisa dell’autrice
un dono aver incontrato questi precisi significati e la coerenza di una parola che si fa contigua e continua