Henk Helmantel
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” El hombre es el ser que padece su propia trascendencia”- María Zambrano
Lieve il tempo
era
una piuma
un fiocco
neve fresca un minuscolo germoglio
un attimo appena un guscio
era
del corpo
nel silenzio un taglio
uno strappo netto uno scatto
dal luogo in cui si è rapiti e dove tutto si ancora
nasce
esce alla luce
nell’ombra cresce e
va lontano
furtivamente come stordito da tanto
inspiegabile mutamento. Immanenza delle cose
dell’essere che ogni cosa ha in sé
il proprio principio e il fine
la fine che non può di quell’essenza farsi
separazione.
Nature senza confusione
immutabilità dell’ indiviso
l’inseparabile conflitto tra carne e verbo che l’uno nell’altro
in(g)ombrano un corpo sollecito di
forme senza altra natura che la de-formazione di una cosa
che tra tutte sé in sé trascenda.
Ortodossia della carne che si taglia
segnandosi con la lama precisa e oscura di un dio che vive ed è oltre
ogni rateo di creazione. In quale co-scienza
alberga dio e quale pasto consuma masticando le nostre
vite in catena di storie che s’intrecciano inabissandosi
tutte nel cavo trascinante del suo volto volo voto?
E se dio è morto un vuoto
quale abito taglieremo nella stoffa che non basta
mai basta a se stesso un uomo
sempre rincorrendo gli altri che alle calcagna già lo catturano
in vani soliloqui dell’ombra di un dio
qualunque esso sia
pensiero caso nella carne si dis-fanno
algebra di un percorso antica moneta che paga
la nostra smania di non perdere
di non perderci in quel tutto in cui tutti siamo
anteriormente interiora.
“ Tutto è interno a tutto”.
Tutto è inter(n)o in tutto.
In-maneo
rimango in un’azione all’interno di me stesso che la compio
sempre in ogni uomo essere forma
senza passare se non da me
in me tran-sito senza una fine senza un fine.
Così sono
nel mio nulla tutto l’inseparabile.
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Zdzisław Beksiński
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Vorrei un occhio di vetro trasparente
vorrei vedere in faccia quelli
che bruciano la vita e gettano la morte
su un’unica catasta
come una tunica logorata scucita da cose e persone
e alte le fiamme fino a toccare il cielo
vorrei sentirle sibilare come code di cometa
che cadono insieme in tutti i nostri giorni.
Vorrei sapere a quale gioco gioca dio se mai si è visto
in ognuno di quelli che gli somigliano
nella corsa delle tartarughe o in quella dei pipistrelli
nelle larghe falde della neve e nelle considerevoli oscurità delle fosse marine.
In quale assurdo gioco è teso il nostro cammino
se mimiamo la vita senza sapere cosa sia morire
se non questo sparire sempre l’uno nell’altro
minando in noi la possibilità di guardare
lo specchio di ogni io in frantumi e tra l’inizio e la fine
mettere cornici e ancora tuniche per altre comparse
in questa drammaturgia di soli erranti.
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Zdzisław Beksiński
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Stavo tutta la notte con la finestra aperta
Ascoltavo il frusciare delle tenebre la luce
venire come un sibilo tagliente dentro il mio occhio.
Al buio. Stavo di guardia dentro la difficoltà di respirare.
Meravigliata di quanta felicità potesse stare dentro un gesto così piccolo.
Ascoltavo dell’oscurità tutti i battiti dispersi
tra un letto dove stava un malato e quello della guardiola
decisa a starsene chiusa il più possibile in un intervallo lungo
un corridoio di silenzio.
E nella notte qualcosa passava
a volte la luce di un lampione intermittente a volte la luna
rossa di un allarme.
Me ne stavo a letto e rischiavo di cadere
tra nuvole profonde di dimenticanza
in un lunghissimo tunnel dove tutti stavano oltre
come gente in lutto incapace di raggiungere la mia piccola spiaggia o il baratro.
Aspettavo la pioggia come qualcosa che salvasse da quel fuoco scuro
che mi rubava un po’ per volta ciò che ero
dentro
dietro quella finestra aperta
ad ascoltare la notte che tremava e la terra senza avvolgimento.
Nemmeno un asse su cui appoggiare la propria giravolta
oltre il corpo ogni giorno più disperso
anche per me che ancora sentivo di abitarlo ma senza arti
che raggiungessero gli altri. Tu
te ne stavi già altrove e ti saresti diviso in quattro
per portarmi un po’ di vento
lo stesso che mi hai dato dopo
in poco tempo
e ci ha strappato via
per essere di nuovo un niente.
.
Chris Herenius
scrivo
con la notte in corpo
e la luce rintanata in un cassetto
dove ho riposto tutta la storia che mi riguarda
la mia casa la mia vita in quella casa e il rumore dei passi
il fuoco la calce dell’intonaco l’acqua che sgoccia e
persino quel segno dietro la porta
l’unico che scrivesti tu
ed era il mio nome insieme ad una data.
Scrivo con il vuoto nella bocca
e il buio della memoria che corre e corre per arrivare
a scrivere di te delle giornate dell’origine
per ritornare a nascere.
a mia madre e a mio padre -dicembre 2011
Chris Herenius
Restammo soli
io e te soli
tra le dune noi due come le ultime righe nude
di un quaderno di traduzioni
in cui tu scrivi in me i tuoi ori
di tutte le tue ore sprofondate da mari
d’ozio in questo quieto muschio dei nostri tanti anni
un lupo l’età appesantita dal coraggio
d’essermi stata accanto giorno dopo giorno
guida del cieco girovagare senza sapere quale ero prima
e quale tra le altre fosse
la strada buona e buono e aperto il cielo in ogni sua remota direzione.
Parabola tu e io vertigine
tu direttrice e io parametro di un volo che altro compiva
dentro il mio corpo
preciso perché senza parola mi diceva il luogo e il senso del mio andare
In quel buio sempre più pesto
in ore sprofondate da macerie e passato
segnavo con il dito il tuo vuoto nuovo
il calcare di un guscio in cui posavo il mio calcagno.
Con l’acqua tra i capelli come un albero azzurro
silenziose le mie mani si facevano radici d’aria
tra incroci d’ombre nei tuoi occhi e il groviglio di sogni
che la notte in me montava come una cavalcatura d’onde
come l’albume della pena dentro la mano che la impugna
come il tuorlo di un’ alba disattesa. Io di sale
un minuscolo granello e silenzio di vento
gelido tagliente
un suono che stride tra il ferro e il ghiaccio di una lastra troppo spessa.
Cadevo anch’io con le tue mille stelle.
Sono caduta
dentro la tua polvere scura per la scure della tua nitida presenza
grigio immobile nella fissità fuligginosa delle case
notturno nero tra il nero dei corvi e
piume nei tuoi solchi nel buio
rivolti il mio viso che dalla nebbia si nasconde.
Punge ancora un poco la paura
né m’imbocca un altro respiro o scrive soluzioni
sulla pietra d’angolo il silenzio del mio sangue.
Scorre nella mano e attizza un segno
nel ripostiglio di un segreto dove il mistero è stato scritto
così minuto e piccolo a ridosso di una notte sigillata
dove nemmeno la luna versa il liquido silenzio della lingua.
Un dettato nel cerchio ghiacciato dell’acqua
nella bocca aperta di un pesce
galleggia bloccato tra un tempo antecedente
e questa immobile ora nel corpo
vivo dell’alba che di nuovo si scolora quasi inutilmente.
Henk helmantel
Specchi curvi (inediti) – fernanda ferraresso
Eccola “la drammaturgia di un cuore errante”; che altro resta da dire? Neppure il silenzio basta e ogni parola è inetta.
Senza lacrime , l’infinitezza del male e del dolore che l’uomo sa e può e ha provocato si alza come un muro di vetro, visibile, palpabile e non superabile.
L’oltre , invece, è qui, in questo incontro di sensibilità che si fanno epoca del respiro, etica dell’incontro.
E nessun memento ha sminato qualcosa situato all’interno, nel cavo dell’uomo.
Narda
“Vorrei un occhio di vetro trasparente
vorrei vedere in faccia quelli
che bruciano la vita e gettano la morte
su un’unica catasta
come una tunica logorata scucita da cose e persone
e alte le fiamme fino a toccare il cielo”
a leggere e rileggere trovo un’infinità di visioni, reti fioriture di ombre e spiragli in questo vuoto che spesso ci attornia e soffoca ogni minimo passaggio o miraggio di luna
quando leggo la scrittura di Fernanda mi immergo nel cosmo e vedo tra le parole un bene che si spezza per farsi pane poichè anche la parola può esserlo e nutrire la vista di bellezza e verità
elina
ho le manette ai polsi, sono legata a questo tavolo dove correggo progetti e con la coda dell’occhio leggo voi che mi sollevate in altro tempo e all’interno del vostro occhio. Grazie Narda e grazie ad Elina, che esagera, per un affetto di cui le sono grata. Ormai ci conosciamo da anni e la nostra scrittura è anche parola sonora, vera in chiamate al telefono e in visite di tanto in tanto. Spero avvenga lo stesso anche con Narda, come se,oltre la scrittura sentissi chiaro che il segno della presenza è quel talento che ci viene offerto da una grazia che spesso dimentichiamo esiste.
Grazie anche ai blogger che hanno usato il tasto “mi piace”.ferni
Forse perché conosco la storia leggere queste righe mi permette di vedere attraverso molti silenzi. E’ un percorso non facile questo e non è letteratura ciò che qui sembra solo un percorso di parole snocciolate senza difficoltà, invece sono anni di clausura e di attività vissute insieme con una volontà e una determinazione che a volte sembrava addirittura ferocia, verso se stessa, per questo leggere qui mi porta davanti a delle soglie che non ero riuscita a toccare. Chiavi della scrittura, che mi avvicinano ancora di più ad una amica di cui ho una grandissima stima e un affetto grande. cecilia
Ciao,ciao ferni, come vedi ti sento anche da qui, lontanissima da casa, fuori dal tempo e dalle bolgie dei vostri mercati. Il cielo qui si tocca, anzi la testa lo ospita, forse per questo ti si aprono i pensieri e tutto acquista una misura diversa, si misura sulla pelle. da qui capisco e sento ciò che dici, lo sento come fosse la radice di un albero sotto il piede che mi sorregge.
Capisco cosa significa:
questa immobile ora nel corpo
vivo dell’alba che di nuovo si scolora quasi inutilmente.
Grazie per tutto quello che mi scrivi, stasera ho una connessione decente e ne approfitto per dirtelo, mi aiuta la tua presenza,sempre. Un bacio e salutami Cecilia. Annabelle
Tutte molto belle queste poesie ma tra tutte quella dedicata ai genitori mi ha toccato di più. Davvero molto belle e coinvolgenti.
Ho letto e ho ancora il cuore gonfio e lieve allo stesso tempo. Una scrittura profonda, da meditare, che ti chiama alla riflessione, senza ritardare poiché la vita è un tempo che non ha scadenza determinata. Grazie .G.
come ho già scritto nel mio blog o qui e là o ovunque, la poesia si assapora e non si commenta. volevo invece complimentarmi per l’accuratissima scelta delle immagini, sempre bellissime, liriche anch’esse. ad ora: a parte voi,nell’archivio caltari e pochi altri c’è una cura estetica della superficie pagina e della decorazione come da voi. un caro saluto. eletta
Sono davvero molto lieta per questo apprezzamento al trattamento della “pelle” di cartesensibili, perchè ritengo che sia cosa viva anch’essa, la superficie della pagina, e richiede molto tempo e molte ricerche la pubblicazione dei testi in cui si affiancano scrittori ad artisti che con le loro opere riescano non solo ad incontrare la sostanza della parola ma scrivano in forme che sono oltre il linguaggio. Grazie.fernanda f.
Carissima Fernanda,
avrei voluto commentare subito i tuoi SPECCHI CURVI, ma poi mi sono ricordato di aver letto una poesia di José Lezama Lima dedicata all’amica sua carissima María Zambrano e mi sono preso un po’ di tempo per tradurla e per offrirtela – penso riesca a con-suonare con l’affetto e con il commosso rimemorare dei tuoi versi.
MARÍA ZAMBRANO
Maria ci si è fatta così trasparente
che la vediamo nello stesso tempo
in Svizzera, a Roma o all’Avana.
Accompagnata da Araceli
non teme né il fuoco né il gelo.
Suoi compagni i gatti del freddo
e i gatti del caldo,
quegli elastici fantasmi di Baudelaire
la stanno lentissimamente a guardare
così che Maria timorosa comincia a scrivere.
L’ho udita parlando spaziare da Platone a Husserl
in giorni alterni e verticalmente opposti
e finire col cantare un corrido messicano.
Le onde ionie del Mediterraneo,
i gatti che usavano la parola come,
(secondo gli Egizi essa unifica tutte le cose
come un’ eterna metafora),
le parlavano all’orecchio
e Araceli tracciava un cerchio magico
con dodici gatti zodiacali
ognuno aspettando il suo momento
per salmodiare Il libro dei morti.
Maria è per me
come una sibilla
cui con discrezione ci avviciniamo,
credendo di udire il centro della terra
e il cielo dell’empireo,
che si trova più in là del cielo visibile.
Viverla, sentirla giungere come una nube,
è come prendere un calice di vino
per immergerci nel suo limo.
Ella tuttavia può accomiatarsi
abbracciata ad Araceli,
ma sempre ritorna come luce tremante.
Un dono di cui ti sono molto grata, amando sia Maria Zambrano che Lezama Lima.Un abbraccio,ferni