Salvador: 26 anni contro

“És projectant-nos en el futur,
sentint el pes del pressent,
on radica la nostra raó d’ésser…”
Salvador Puig Antich

La Model de Barcelona, dicembre 1973,
frammento di una lettera scritta alla sorella Marçona

I giovani lottano contro il potere contro l’oppressione, la dittatura; in Germania contro la dittatura nazista, c’è la Resistenza in Italia, la dissidenza contro il comunismo stalinista, il movimento pacifista contro la Guerra in Vietnam; Martin Luther King, Arafat, Che Guevara; e in Spagna, certo, contro la più duratura dittatura fascista in Europa, quella di Francisco Franco.
Agli inizi degli anni Settanta si forma in Spagna il Movimento Iberico de Liberacion, un gruppo di giovani militanti nel partito di estrema sinistra che si pone come obiettivo, attraverso una lunga serie di rapine e azioni provocatorie, quello di finanziare l’ala più militare del movimento. Tra loro c’è Salvador Puig Antich, un ragazzo introverso, lunatico forse, ma dal fine e sensibile intelletto. Inizialmente le azioni vanno tutte a “buon fine”, ma quando in una rapina rimane ferito un impiegato le cose cominciano a precipitare. La polizia, frustrata dalle continue imprese del movimento, riesce a tendere un imboscata in cui perde la vita un giovane ispettore, ma che vale l’arresto di Salvador. Da quel momento comincia una lotta contro il tempo per bloccare la condanna a morte del ragazzo.

Salvador Puig Antich è stato garrotato alle 9,40 del 2 marzo 1974 presso il carcere Modelo di Barcellona all’età di 26 anni. Aveva ucciso un poliziotto in occasione del suo arresto avvenuto il 25 settembre del 1973 ed in seguito alla sentenza di un tribunale militare è stato condannato senza appello alla pena di morte in un clima di tensione provocato dall’attentato dell’Eta a Carrero Blanco, il probabile successore di Francisco Franco, il 20 dicembre 1973.
Grido di protesta e di denuncia verso uno dei fatti che più scosse la Spagna in quegli anni, e di cui si sente ancora oggi l’eco silenzioso e distante. Quello verso Salvador Puig Antich fu un atto criminoso quanto inutile compiuto da un regime militare che, messo sotto scacco dall’ETA, scelse il giovane come capo espiatorio. Il film di Manuel Huerga racconta la difficile vicenda del Movimento Iberico de Liberacion concentrandosi sulla vita di Salvador, sui suoi rapporti con gli amici, la famiglia e, naturalmente, la politica. Da una parte la gioventù che “non ci sta”, dall’altra un regime, un potere che si serve ancora di strumenti medievali, di torture, di disumanità e mancanza di dignità persino davanti alla morte. Persino papa Paolo VI era stato interpellato per promuovere la richiesta di grazia per Salvador; ma quella sera al telefono Franco non si è fatto trovare nemmeno dal Papa.
Un film assolutamente commovente, ma non sentimentale; è rivolto ai giovani, prima loro, prima di tutto.
E lo si avverte nel momento in cui tutta la famiglia stretta intorno a Salvador, l’avvocato militante, la sua guardia carceraria, amico delle ultime ore, fino alla fine tengono viva la speranza. Come si fa a uccidere la speranza di un giovane che sta dando la vita per quello in cui crede? La Grazia.
Salvador non è un martire, come non lo è Sophie Scholl, o Bobby Sands, ma le loro vite sono state spese per dare speranza a tanti altri giovani; e quindi dovevano essere fatti sparire velocemente.
Oltre trent’anni fa, il regime franchista ormai agonizzante, insieme al suo titolare, spezzò con il garrote la vita di un ragazzo di 26 anni che all’anagrafe si chiamava Salvador Puig Antich, “El Metge”, anarchico, militante del MIL, Movimiento Ibérico de Liberación.
Lo seppelliranno in tutta fretta l’indomani nel cimitero di Montjuic, una collina di calcare, dove il rosso dei garofani svanisce sullo sfondo della roccia, davanti al mare. Persino ai funerali la violenza – unica arma che può opporsi alla speranza – ha dato prova di sè. Quel giorno, nonostante le cariche dei poliziotti, ugualmente i suoi compagni delle organizzazioni libertarie catalane – e con loro tante e tante persone – sono scesi nelle strade.
La memoria è un lavoro che dovrebbe spettare a chiunque. Ma ad alcuni preme forse un po’ di più.
Un film di Manuel Huerga. Con Daniel Brühl, Tristán Ulloa, Leonardo Sbaraglia, Leonor Watling, Ingrid Rubio. Celso Bugallo, Mercedes Sampietro Titolo originale Salvador (Puig Antich). Drammatico, durata 134 min. – Spagna, Gran Bretagna 2006.

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  1. MARZO 1974-MARZO 2014: UN ANNIVERSARIO DA RICORDARE

    A QUARANTA ANNI DALLA MORTE DI SALVADOR PUIG ANTICH “METGE”

    Il garrote, lo strumento che la mattina del 2 marzo 1974 spezzò le vertebre cervicali di Salvador Puig Antich (“Metge”) ponendo fine in maniera ignobile alla sua breve vita di meccanico-studente-guerrigliero (o “rapinatore” secondo lo Stato) evocava sicuramente fosche atmosfere da Santa Inquisizione, ma in realtà era quasi contemporaneo della ghigliottina e ideato con i medesimi intenti : una morte rapida che evitasse al condannato sofferenze inutili. Da questo punto di vista, bisogna dire, si dimostrò molto al di sotto delle aspettative, diventando nell’immaginario collettivo un vero e proprio strumento di tortura.

    Come Praga per Jan Palach nel 1968 e Belfast per Bobby Sands nel 1981, così tutta Barcellona reagì con rabbia a questa esecuzione, interpretata come un’aggressione all’intero popolo catalano oltre che l’ennesimo atto di barbarie del franchismo.
    Già poche ore dopo la diffusione della notizia, centinaia di persone scendevano in strada, nonostante il rischio di venire arrestati, per manifestare la propria indignazione. Era un giorno invernale, grigio e umido. Centinaia di persone sfilarono per le Ramblas portando striscioni e bandiere; altrettante si riunirono nelle chiese per leggere comunicati di condanna per l’esecuzione del giovane militante libertario.
    Lo stesso accadeva nei vari quartieri popolari e nei paesi della cintura industriale, da Terrassa a Sabadell.
    Salvador Puig Antich venne frettolosamente sepolto il giorno dopo nel cimitero di Montjuic. Qui si riunirono circa 500 persone a cui, con cariche e arresti, venne impedito di assistere alla tumulazione.
    Tra la folla molti ostentavano drappi rossi e rosso-neri. Dopo le cariche della polizia a cavallo l’intera zona rimase ricoperta degli innumerevoli fiori che i manifestanti avrebbero voluto deporre sulla tomba di Metge. L’ordine era di arrestare tutti coloro che portavano “fiori rossi”.
    Anche in quei giorni di repressione particolarmente efferata da parte del regime, la Chiesa catalana mantenne il suo tradizionale ruolo di garante e portavoce della comunità popolare, restando nel contempo depositaria della lingua e della cultura nazionali contro ogni tentativo di estirparle.
    A tale proposito il noto esponente del CIEMEN Aureli Argemì (che ho conosciuto in Barcellona negli anni ottanta e poi rivisto in occasione di convegni e manifestazioni, l’ultima volta a Firenze nel novembre 2002) mi aveva detto: “ Storicamente il monastero di Montserrat è sempre stato – e durante il franchismo in modo particolare – una casa aperta a tutti i movimenti democratici del paese. Molti esponenti del clero catalano, primo fra tutti l’Abate Escarrè, presero posizione contro Franco, soprattutto sul fatto che il franchismo andava ostentando la bandiera del cattolicesimo a difesa della propria ideologia. Furono gli stessi sacerdoti a dichiarare pubblicamente che questo era un modo per nascondere tutto quello che di anticristiano faceva il regime. Ritengo inoltre che l’Abate Escarrè sia stato l’esponente più importante del mondo della Chiesa a difendere i diritti dei Catalani alla propria lingua, alla propria cultura, alla propria identità”.
    Aureli Argemì, egli stesso monaco a Montserrat , venne poi espulso da Franco insieme all’abate Escarré verso la metà degli anni sessanta. Fu anche fondatore e segretario del CIEMEN (“Centro Internazional Abat Escarré Minorie Etnique Nacionals”).
    Sempre nel marzo 1974, restano assai significative le prese di posizione di alcuni religiosi. Il reverendo Mossén Pon Rovira non ebbe timore di affermare durante la predica che “come sacerdote e come uomo chiamo Cristo a testimone che è stata commessa una grande ingiustizia”. La frase gli costò una quindicina di giorni di reclusione. Intervenne lo stesso Vicario episcopale della Pastorale del Lavoro, Mossén Carreras. Durante una messa cui assistevano migliaia di persone dichiarò testualmente: “Il nostro fratello Salvador è morto giustiziato come Cristo”.
    Qualche vecchio antifranchista, all’epoca poco più che ventenne e poi approdato all’indipendentismo radicale, ricorda ancora la paura di quei giorni dedicati agli appuntamenti clandestini e alla distribuzione di manifesti, sfuggendo ai controlli e ai posti di blocco. Risale ad allora l’espulsione dall’Università di gran parte degli studenti di Barcellona e Valencia che avevano partecipato attivamente alle manifestazioni e agli scontri con la polizia del 4 marzo.
    Invece all’Ospedale cittadino centinaia di medici e infermieri espressero la loro indignazione silenziosamente, portando attorno al braccio una fascia nera in segno di lutto.
    Salvador Puig Antich quindi non fu solo “un morto catalano in più” ma una ferita che rimase aperta profondamente nel cuore di Barcellona per molti anni. Ogni 2 marzo la lapide 2737 veniva ricoperta da centinaia di fiori e il suo nome scandito nella manifestazioni.
    Il giovane era stato catturato il 25 settembre 1973 insiema a Xavier Garriga. Quest’ultimo, sfuggito alla condanna a morte, sembrò in seguito voler chiudere per sempre con un passato così carico di tristi ricordi. Tramite amicizie comuni avevo cercato, invano, di intervistarlo verso la fine degli anni ottanta. Non volli insistere più di tanto rispettandone la volontà, anche se con rammarico. Del resto sono convinto che quando lo riterrà giusto e opportuno scriverà quella storia in prima persona. Senza delegarne il compito ad altri.
    La ricostruzione della dinamica dell’arresto, conclusosi con la morte di un ispettore, rivela come esistesse da parte della polizia la predeterminata volontà di uccidere Salvador; solo casualmente il colpo sparatogli da distanza ravvicinata si limitò a trapassargli la mandibola, invece della tempia.
    La sua esecuzione divenne l’oggetto di una cinica transazione tra le varie componenti del regime. In pratica una vendetta per la recente morte di Carrero Blanco (il 20 dicembre 1973 per mano di Eta). In cambio il nuovo capo del governo, Arias Navarro, ottenne l’appoggio politico dei settori oltranzisti. Anche in questo la vicenda di Salvador e le modalità della sua condanna a morte presentano una sorprendente e agghiacciante analogia con quella del poeta sudafricano Benjamin Moloise, assassinato dal regime dell’apartheid negli anni ottanta nel corso di una campagna elettorale
    Il gruppo di cui Puig Antich faceva parte si era denominato MIL (Movimento Iberico di Liberazione) e si autodefiniva come “una organizzazione non permanente”. Nelle singole storie politiche dei suoi militanti si ritrova il comune denominatore di un radicale antiautoritarismo che li portò alla graduale ma sistematica rottura con partiti e sindacati dell’opposizione. In questo atteggiamento (oltre ad una certa dose di “estremismo infantile”) riemergeva una costante delle lotte operaie e popolari catalane: la tendenza all’autogestione e alla federazione tra gruppi autonomi, il rifiuto dello stato, della centralizzazione e della burocrazia…
    Quando, alla fine del 1971, Salvador si integra nel MIL ha 23 anni (questa è anche l’età media dei componenti) e alle spalle una militanza non indifferente nelle CCOO (Comissions Obreres) e nelle lotte del suo quartiere. Ripercorrendone oggi la storia – breve ma convulsa – i militanti del MIL sembrano quasi ossessionati dal bisogno di stampare, pubblicare libri e riviste, sia con materiali di loro produzione che traduzioni, ristampe ecc. I numerosi episodi di “autofinanziamento” (rapine alle banche, simbolo del Capitale nell’immaginario collettivo dei soggetti antagonisti, ma anche simbolo dell’Oligarchia finanziaria “espanyolitzadora”) saranno sempre legati a precise “scadenze editoriali” (con circuiti non di vendita ma di distribuzione militante e clandestina) oltre che alla necessità di fornire un congruo sostegno finanziario alle lotte operaie che si svolgevano in condizioni spesso disperate. Non esiste comunque in Europa un altro esempio di gruppo guerrigliero altrettanto prolifico in campo editoriale in un arco di tempo tanto breve. Non a caso il loro primo esproprio è ai danni di una tipografia da cui vengono prelevate le attrezzature e i macchinari indispensabili ai loro progetti. Bisogna dire che l’uso della stampa non si limita a “rappresentare pubblicamente la coerenza politica delle azioni del MIL”, ma voleva essere anche un valido strumento politico-culturale nei confronti della classe operaia. Quanto alle armi che si procurano sono, in genere, poco più che residuati bellici, gelosamente conservati dai fuoriusciti della FAI che avevano combattuto nella Resistenza francese. In parte vengono fornite anche dai sopravvissuti del gruppo di Sabaté (el Quico).
    La prima rapina vera e propria venne realizzata nel settembre 1972 in una regione della “Catalogna profonda”, la Cerdanya, non lontano dalla frontiera. La zona (già frequentata dalla guerriglia antifranchista negli anni cinquanta) è montagnosa e i catalani la conoscono molto bene. Qui si registraronogli ultimi episodi di resistenza all’avanzata dei franchisti, nel ’39. Vi prese parte anche un giovanissimo Sabaté prima dell’internamento in Francia. Inoltre la località non è lontana dal “Pi de les Tres Branques”, l’albero dove annualmente si radunava l’indipendentismo radicale (e dove “Terra Lliure” rendeva onore ai suoi caduti). Il bottino venne immediatamente impiegato per pubblicare alcuni testi rivoluzionari. Dopo solo 15 giorni entra in circolazione (ovviamente clandestina) quella che probabilmente è l’esposizione più completa delle tesi politiche del MIL: “Sobre la agitacion armada” cui farà seguito “Capital y trabayo”.
    Il primo opuscolo rappresenta una critica precisa e motivata di qualsiasi tendenza militarista; secondo il MIL quei gruppi che teorizzano e praticano la “lotta armata militare” si collocano al di fuori della lotta di classe perché si considerano “avanguardia” e trovano in questo la giustificazione al loro operato. Diversamente –sosteneva il MIL- un nucleo di “agitazione armata” non considera la sua attività autosufficiente ma si colloca e si definisce all’interno della lotta di classe di cui è parte integrante. Questo gruppetto di militanti considerava le azioni armate come una esigenza tattica, organica al movimento operaio (almeno in quella determinata fase storica, in cui le lotte di tipo rivendicativo rivelavano i loro limiti sotto i colpi di una durissima repressione). Da queste considerazioni derivava la convinzione di dover dare un “aiuto concreto” (si definirono “grup d’aiut”), di essere cioè in grado sia di difendersi dagli attacchi del regime franchista che di fornire sostegno economico agli operai durante gli scioperi o in caso di arresti, licenziamenti ecc.
    In conclusione i militanti del MIL ritenevano che, nella Catalunya degli anni settanta, fosse questa l’unica forma di difesa possibile ed efficace, l’unica a poter essere autogestita dai diretti interessati, le classi subalterne, senza deleghe ai “militaristi”. Per loro queste posizioni rappresentavano esattamente il contrario di quanto veniva generalmente messo in pratica dalle avanguardie di vario genere che riducono le lotte di massa a mera attività di sostegno alle loro organizzazioni politico-militari. Volendo si può cogliere in questo atteggiamento anche una critica implicita ad alcuni “eserciti di liberazione”.
    Nonostante queste premesse teoriche, la pratica impose alcuni accomodamenti e, verso la fine del ’72, prese forma una certa collaborazione con gruppi di indipendentisti, tra cui i transfughi dal PSAN della cosiddetta OLLA (Organitzaciò de Lluita Armada). Oltre a rapporti personali e al confronto politico (con reciproci tentativi di proselitismo) si ebbe un notevole interscambio di documentazione e informazioni. Da registrare anche alcuni assalti congiunti alle banche. Le azioni venivano rivendicate con lanci di volantini durante e dopo. In alcuni casi anche prima…
    In coincidenza con il tredicesimo anniversario della sua morte quelli del MIL, vollero riaffermare un costante riferimento alla figura leggendaria di Sabaté compiendo un “esproprio” a Badalona. Quasi contemporaneamente riuscirono ad avviare la più ambiziosa tra le loro iniziative editoriale, le “ Ediciones Mayo ‘37”. La prima opera ad essere pubblicata è un volume che raccoglie saggi e articoli dell’internazionalista (assassinato a Barcellona dagli stalinisti) Camillo Berneri. Seguirà “Guerra di classe 1937 – Guerra di classe 1973” in cui vengono documentate e analizzate le profonde analogie tra le posizioni del MIL e quelle degli anarcosindacalisti catalani che si erano opposti sia alla reazione franchista che alla controrivoluzione staliniana (“Guerra di classe” si chiamava il giornale diretto da Camillo Berneri). Testuale dalla prefazione:
    ”A partire dai fatti di Barcellona del maggio ’37 ogni tentativo rivoluzionario che non sappia essere fedele a questa esperienza è condannato alla pura e semplice inesistenza”. Parole queste che in bocca a dei Catalani suonano anche come un richiamo alla propria storia nazionale, una sorta di rivendicazione della propria identità. E questa identità (niente di “etnicista”, naturalmente) non si lega, nella coscienza collettiva, soltanto a quanto vi è di profondo, ancestrale (come la leggenda dei quattro segni rossi impressi dalla mano regale ricoperta del sangue di un cavaliere morente) ma anche a quanto opera, agisce, muta nel tempo storico, nelle contraddizioni e nelle lotte…Si tratti delle donne combattenti cadute durante l’assedio di Barcellona del 1714 e tumulate nelle fosse comuni del “Fossar” (e ricordate con una cerimonia ogni 11 settembre) o dei comunardi dell’Alto Llobregat decisi, in pieno XX secolo, a lottare a morte per rivivere l’Età dell’Oro ( forse il “Futuro Primitivo” di Zerzan?). Le une e gli altri costruendo (o affossando?) la Storia e rinnovando il Mito.
    Sembra che anche il più dirompente e antitradizionale degli eventi, la Rivoluzione Sociale, venga ricordato e interpretato in un’ottica “catalana” (ossia libertaria, consiliare, autogestionaria e autogestita, federalista…) proprio nel momento in cui assume valori e valenze universali. Lottare per il superamento della forma-stato a favore dell’autorganizzazione totale delle classi subalterne deriva da una concezione del mondo non dissimile da quella di chi teorizza il superamento dello stato-nazione per l’autorganizzazione della comunità popolare nazionale, forse.
    Se qualcuno volesse in proposito confrontarsi con le posizioni di alcuni movimenti molto attivi negli anni ottanta (“Crida a la Solidaritat”, “Moviment d’Esquerra Nazionalista”…) potrebbe agevolmente individuare quale sia stato in tempi relativamente recenti il punto d’arrivo di un percorso di reciproca contaminazione tra anarchismo catalano e lotte per l’autodeterminazione.
    Tornando a quelli del MIL, l’aver individuato come principale avversario “il Capitale” (non solo il franchismo, non solo lo stato spagnolo) ha impedito che le loro azioni assumessero il carattere talvolta indiscriminato di quelle di altri gruppi maggiormente caratterizzati in senso “etnico”.

    FUMETTI COME ARMA IMPROPRIA
    Il 2 marzo 1973 Puig Antich è in attesa con l’auto fuori del Banco Hispano-Americano del “passeig de Fabra i Puig”. Quando vede avvicinarsi alcuni poliziotti in borghese suona il clacson per avvisare i compagni all’interno della banca; l’episodio sarà ricordato, celebrato simbolicamente da centinaia di auto durante una manifestazione contro la condanna a morte. Nella sparatoria che ne deriva quelli del MIL escono dalla banca correndo a zig zag sotto il tiro incrociato della polizia, rinunciando volutamente a farsi scudo con ostaggi. Abbandonato il bottino, riescono a sfuggire all’inseguimento. Di seguito la maggior parte dei militanti si rifugia a Tolosa dedicandosi completamente all’editoria. Nell’aprile del 1973 esce il primo numero della rivista CIA (“Conspiracion Internacional Anarquista”).
    Nell’editoriale, dedicato ad un sommario bilancio della loro attività,c’è ancora un richiamo alle origini del MIL: alle prime “Commissions Obreres” e a tutto il movimento operaio antiautoritario e autonomo (anche se, riconoscono, le vicende successive hanno creato distanza tra le realtà di fabbrica e la guerriglia). Nell’interno ampio spazio è dedicato ai fumetti (alcuni in stile “Puzz” con evidenti contaminazioni situazioniste) e ad un articolo commemorativo-biografico su Francisco Sabaté, “el Quico”.
    Nell’estate del 1973, mancando i fondi per stampare il 2° numero della rivista “CIA” (pur sapendo che il Gruppo Speciale anti-MIL è ormai sulle loro tracce), riprendono le azionidi esproprio. Il 6 giugno viene assaltata una filiale del Banco di Bilbao, a Barcellona. Per la prima volta Salvador entra nella banca e non si limita a fare da autista. Dall’auto in corsa vengono lanciati volantini di rivendicazione, prima e dopo l’azione. Ormai i quotidiani parlano esplicitamente del carattere politico delle rapine compiute da un “grup de combat del moviment libertari”. Il 19 giugno è la data del colpo più spettacolare (e proficuo) operato dal MIL: un bottino di 3.074.000 pesetas al Banco di Banesto. Nei volantini di rivendicazione viene precisato che il ricavato sarà destinato “als obreres sense feina”, agli operai disoccupati. E così avviene.
    E’ in questo periodo che una serie di contrattempi e incidenti dà inizio alla fine disgraziata del MIL. Salvador dimentica in un bar una borsa con una P-38 calibro special, due caricatori e tutti i suoi documenti (falsi e autentici) con le relative fotografie. Contemporaneamente si aggrega al gruppo un ambiguo personaggio detto “el legionario” che in seguito sparirà con 1.300.000 pesetas. Temendo una delazione viene proposto di eliminarlo ma Salvador si oppone a queste misure e lo cerca per parlargli e convincerlo. Val la pena di ricordare che in analoghe circostanze anche Durruti e Sabaté si comportarono nello stesso modo perché “chi tradisce tradisce sempre e solo se stesso. Non farsi giudice è il solo modo per prevenire la nascita dei giuda”.
    Intanto si fa sempre più strada la spiacevole sensazione dell’isolamento. In una riunione tenuta in Francia nell’agosto 1973, riconoscono onestamente che la maggior parte dei lavoratori è piuttosto critica nei loro confronti e contraria alle “forzature” operate dal MIL rispetto alla dinamica delle lotte. Questo conferma che negli ultimi mesi il sostegno politico è venuto a mancare e che, a questo punto, rischiano di estraniarsi ulteriormente dalla realtà quotidiana delle fabbriche, di ridursi a rapinare per sopravvivere anche quando sono ormai venute meno le condizioni della loro “propaganda con i fatti”. Da queste premesse e dal dibattito successivo deriva la scelta lucida e irreversibile di “autodisoluciòn” (autoscioglimento). Il manifesto di “Autodisoluciòn de la organizaciòn politico-militar dicha MIL” viene pubblicato integralmente sul secondo numero della rivista “CIA” (al solito in compagnia di provocatori fumetti). Il documento consiste in un ripasso delle lotte del movimento operaio dal 1848 agli anni settanta, con annessa critica al riformismo e opportunismo di partiti e sindacati. Vengono elencati gli episodi che, secondo il MIL, avevano rappresentato il “risorgimento rivoluzionario” a livello planetario degli anni sessanta (maggio ’68, scioperi selvaggi in Europa e America…) e nella penisola iberica in particolare (nascita delle Commissioni Operaie, scioperi nelle miniere asturiane, lotte alla Seat e alla Harry Walker…).
    Quanto al MIL, si sostiene che è nato come “gruppo specifico” (v. la FAI negli anni trenta) di sostegno alle lotte radicali del movimento. Solo in seguito, precisano, erano sorti “rapporti stabili con i gruppi di matrice nazionalitaria e indipendentista, rischiando forse di perdere di vista le prospettive iniziali”.
    Nelle conclusioni si richiamano esplicitamente ai “Grups Autonoms de Combat” come “autentici organismi di azione rivoluzionaria, autonoma e autogestita”, che hanno saputo “porre una netta discriminazione tra loro e il riformismo”.

    I GIORNI DELLA FINE
    Nel settembre del 1973 Salvador Puig Antich torna a Barcellona e, coerentemente, rifiuta di prendere parte ad altre rapine su proposta di alcuni membri irriducibili, probabilmente gli stessi che in seguito daranno vita ad una formazione denominata GARI. Da quel momento prende inizio una serie impressionante di arresti da parte del “Gruppo speciale per la disarticolazione del MIL”. Vengono arrestati alcuni esponenti marginali e persone con legami affettivi che, sottoposti a duri interrogatori e torturati, forniscono alla polizia nuovi elementi sulla struttura del MIL.
    Negli ultimi giorni di libertà Salvador si preoccupa di contattare avvocati per la difesa dei compagni arrestati e si incontra con alcuni esponenti dell’indipendentismo radicale che gli propongono di integrarsi nel loro gruppo. Ma il cerchio continua a stringersi e il 25 settembre 1973 avviene il tragico arresto nel corso del quale muore il vice ispettore di polizia Anguas Barragan e si compie il destino di Salvador Puig Antich.
    Quando venne portato all’ospedale, Salvador presentava due vistose ferite da arma da fuoco: una alla mandibola e una (con due fori) alla spalla. Si trovava inoltre in stato di commozione cerebrale per i numerosi inferti dai poliziotti. Intanto la polizia diffondeva comunicati alla stampa con l’obbligo tassativo di pubblicarli. Secondo questi comunicati ufficiali il giovane libertario risultava l’unico responsabile della morte del “policia”, nonostante la dinamica fosse poco chiara; anche l’autopsia venne effettuata in un commissariato e non all’Istituto di Anatomia. Gli ex militanti del MIL e gli indipendentisti dell’OLLA (in cui forse Salvador pensava di integrarsi) stavano cercando freneticamente di organizzare la liberazione del compagno dall’ospedale. Informato di questo dall’avvocato Oriol Arau, Salvador si oppose perché l’azione avrebbe sicuramente comportato rischi gravissimi per il gruppo incaricato di eseguirla.
    Venne poi trasferito al “Modelo” (carcere fondato nel 1888 e abituale recapito di molti rivoluzionari catalani) con addosso ancora i segni delle ferite. Non poteva mangiare e parlava con estrema difficoltà. Finì naturalmente nel quinto braccio, quello dei prigionieri politici (anche se questi ufficialmente non esistevano).
    A farsi immediatamente carico della difesa di Salvador sono il giovane avvocato Oriol Arau e, in seguito, lo stesso presidente della “Académia de legislaciò i Jurisprudéncia de Catalunya”, Francesc D’Assis Condomines Valls. Cominciano intanto a mobilitarsi le varie associazioni antifranchiste, innanzitutto quelle di maggiore affinità ideologica con il prigioniero: il Coordinamento dei gruppi libertari, gli “Estudiants Llibertaris de Catalunya”, il “Comité Libertari Antirepressio” e, naturalmente, i “Grups Autonoms de Combat”. Gli indipendentisti dell’OLLA e ciò che resta del MIL organizzano un Comitato di Solidarietà che riesce a distribuire clandestinamente 5000 copie di un dossier in cui si rivendica la condizione di Prigionieri Politici degli arrestati. Pur non condividendo l’ideologia del MIL interviene anche la più prestigiosa organizzazione del dissenso catalano: la “Comissio de Solidaritat pro presos politics” che dal 1969 riunisce cristiani, progressisti, nazionalisti, sindacalisti ecc. e che rappresenta la prima manifestazione di quella che sarà l’”Assemblea di Catalunya”.
    Il 26 novembre 1973 Salvador viene ufficialmente informato che contro di lui venivano richieste ben due condanne a morte. Immediatamente Barcellona si ricopre di manifesti in catalano con la sua foto e la didascalia “Militante rivoluzionario in pericolo di morte”. Contro l’esecuzione intervengono duramente anche la “Coordinadora delle CCOO Metallurgiche”, le CCOO della Seat, la LCR, il PSAN…
    Fino al 20 dicembre 1973 era opinione diffusa che il regime avrebbe modificato la condanna a morte con quella all’ergastolo. Ma dopo l’uccisione da parte di ETA del presidente del governo, Carrero Blanco, si comprese che ormai la vita di Salvador era appesa ad un filo.
    Il 4 gennaio 1974 a Barcellona esplode la prima bomba contro la convocazione del Consiglio di Guerra, riunito nella “Sala di Justicia del Govern Militar”, nei pressi della “Porta de la Pau”. Altre ne esploderanno nei giorni seguenti. Migliaia di firme vengono raccolte per una richiesta di sospensione della pena capitale da inviare al presidente del governo. L’8 gennaio inizia il processo contro Salvador e gli altri compagni arrestati nella sede del Governo Militare. Viene accordata l’udienza pubblica e la sala si riempie di un centinaio di giovani, mentre la maggior parte deve restarsene fuori. I due episodi contestati a Salvador sono: l’assalto del 2 marzo 1973 al Banco Hispano-Americano al “passeig de Fabra i Puig” (quasi simbolicamente Salvador verrà giustiziato ad un anno esatto di distanza, il 2 marzo 1974) e la morte del poliziotto avvenuta la sera del 25 settembre 1973. Salvador ammette di aver fatto fuoco in quest’ultima circostanza ma alla cieca, a caso. Non era in grado di prendere la mira anche perché era stato ripetutamente colpito alla testa dai poliziotti col calcio delle pistole (percosse che gli avevano procurato la commozione cerebrale diagnosticata all’ospedale). La difesa affermava che il colpo era partito casualmente durante la rissa tra il giovane e i cinque poliziotti in borghese che cercavano di arrestarlo, senza mandato e senza nemmeno essersi qualificati. Quando Salvador era a terra, ferito, uno dei poliziotti si era avvicinato e aveva esploso da brevissima distanza due colpi (uno alla testa e uno alla spalla) con il chiaro intento di ucciderlo. Solo per caso il colpo che doveva essere mortale si era limitato a fracassargli la mandibola, Da parte sua l’accusa sostenne che i reati erano aggravati dal fatto che l’organizzazione MIL avrebbe “attentato contro l’unità della patria, l’integrità dei suoi territori e contro l’ordine costituito”. Entrambi i reati venivano considerati “delitti di terrorismo” e sottoposti agli articolo del Codice di Giustizia Militare. Invano la difesa si aggrappa alla comprovata inconsistenza del MIL come organizzazione specificatamente terrorista (dato che non aveva sede, gerarchia interna e nemmeno un ambito territoriale specifico) cercando di dimostrare che le attività erano episodiche, occasionali. Scopo della difesa, far rientrare le azioni del MIL nell’ambito della giurisdizione ordinaria che non avrebbe comportato la condanna a morte. La sorte di Salvador venne decisa rapidamente: trent’anni per la rapina e condanna a morte per l’uccisione di Anguas.
    Parrocchie di ogni parte della Catalunya, Facoltà universitarie, gruppi umanitari, associazioni professionali chiesero pubblicamente al capo dello stato la commutazione della pena.
    Iniziava così una serie quasi quotidiana di manifestazioni per strappare al boia il militante libertario.
    9 gennaio: manifestazione del PSAN e del FNC a Barcellona.
    10 gennaio: manifestazione delle CCOO.
    11 gennaio: altre manifestazioni a Barcellona e a Terrassa, nei quartieri tradizionalmente legati al movimento anarchico.
    12 gennaio: l’”Assemblea de Catalunya” denuncia tramite i suoi rappresentanti la volontà del regime di assassinare Salvador che viene paragonato a Grimau, fucilato il 20 aprile 1963.
    Duemila studenti universitari sfilano in silenzio per le vie della capitale catalana con bracciali neri. In tutti i “Paisos Catalans” vengono brutalmente impediti conferenze e dibattiti sulla pena di morte mentre Barcellona viene letteralmente ricoperta di scritte “Salvem Puig Antich”. Anche il Comitato di Solidarietà con i prigionieri del MIL decide di passare all’azione e all’alba dell’11 gennaio una esplosione sveglia bruscamente gli abitanti di alcuni quartieri popolari di Barcellona (Pedralbes, Sants, les Corts…). L’attentato è rivolto contro un monumento franchista già colpito l’anno precedente dal FAC (Front d’Alliberament Català). Manifestazioni si svolgono anche all’Università di Bilbao, a Parigi e in Occitania dove viene assalito il consolato spagnolo.
    A Bruxelles vengono occupati gli uffici della “Iberia”; a Strasburgo l’abitazione del console spagnolo. Verso la metà di gennaio si svolge, con partenza da San Cugat, una manifestazione particolarmente simbolica: centinaia di auto che espongono drappi neri procedono incollonate verso Barcellona. Giunte a “Fabra i Puig” bloccano la strada e suonano ripetutamente i clacson in ricordo del gesto compiuto da Salvador il 2 marzo del 1973. Toni, un compagno di origine castigliana ben integrato in Catalunya, che vi prese parte mi raccontava che “non si sono più viste tante bandiere nere a lutto in Barcellona”. Aggiungendo poi con amarezza:”Almeno fino all’Hipercor”.
    L’imminenza dell’esecuzione esaspera i sentimenti di ogni settore della società catalana, ognuno dei quali reagisce con i mezzi e i modi che gli sono congeniali. Si moltiplicano le petizioni e i telegrammi che chiedono clemenza; si registrano nuove manifestazioni e altri attentati.
    EPILOGO: LA LUCE CHE SI SPENSE
    Il primo marzo 1974 il Consiglio dei Ministri, presieduto dallo stesso Franco, confermò la condanna a morte per Salvador Puig Antich e per un presunto “apolide di origine polacca” chiamato Heinz Chez (solo recentemente si è scoperto che in realtà era un tedesco fuggito dalla Germania dell’Est e che viveva sotto falso nome) responsabile della morte di un guardia civil.
    “Policia armada”, G.C. e Brigata Sociale vennero dislocate in modo da far fronte alla reazione popolare. In tutti i punti strategici di Barcellona vennero predisposti dispositivi di sicurezza e i soldati restarono consegnati nelle caserme . Salvador venne prelevato dalla sua cella (dove dormiva già vestito) e condotto davanti al giudice istruttore che gli notificò la sentenza definitiva (“…e in quel preciso istante saltò la luce lasciando la stanza completamente al buio per alcuni minuti…”). Il condannato trascorse poi tutta la notte in una cella denominata “la cappella”, sorvegliato costantemente in attesa del trascorre delle dodici ore rituali.
    Intanto Oriol Arau (con la collaborazione di Marc Palmés, l’avvocato catalano che l’anno seguente avrebbe difeso il militante di ETA Paredes Manot “Txiki”) tentava disperatamente, ma inutilmente, di guadagnare tempo. Al loro ultimo incontro Salvador cercò di far coraggio alle sorelle in lacrime. Durante la notte scrisse tre lettere, in catalano. Quella per il fratello era intestata con un verso di Ferrè : “Je vais mettre en chanson la tristesse du vent”. Anche un estremo tentativo dell’Abate di Montserrat di ottenere clemenza andò incontro ad un completo fallimento. Qualcuno vicino alla famiglia mi ha raccontato che, mentre la conversazione tra Salvador e le sorelle languiva, un militare gridò loro di procurarsi un lenzuolo altrimenti l’avrebbero gettato in una fossa comune, come ai tempi delle “sacas” (le fucilazioni indiscriminate dei prigionieri repubblicani durante e dopo la Guerra Civile).
    Non posso fare a meno di cogliere la coincidenza: la stessa minaccia, quasi con le medesime parole, venne proferita nei confronti della madre di Patsy O’Hara, durante lo sciopero della fame che lo portò alla morte nel 1981, in Irlanda del Nord.
    Alle nove del mattino del 2 marzo 1974 le sorelle vennero allontanate insieme all’avvocato Oriol Arau. Resteranno davanti al carcere ad attendere l’uscita del furgone mortuario scortato dalla polizia. Lungo il breve suo ultimo percorso, Salvador dovette passare in mezzo a due cordoni della Brigata Sociale, ammanettato. Camminò da solo apostrofandoli e chiedendo se fossero stati pagati bene per quel “lavoro straordinario”. Infine, verso le 9 e 40, il boia fissò l’anello di ferro del garrote attorno al collo di “Metge”.
    Questa, in sintesi, fu “la breve estate” di Salvador Puig Antich. Noi non lo abbiamo mai dimenticato.
    Gianni Sartori

  2. PAISOS CATALANS: PENA DI MORTE IN EPOCA FRANCHISTA
    (Gianni Sartori)

    Premessa. Mi segnalano che la garbata polemica da me involontariamente sollevata ponendo la questione della “croce cerchiata delle ss francesi impropriamente denominata celtica” (v. l’articolo “Fascisti, tenete giù le mani dall’Irlanda”) è proseguita in altre sedi. A mio avviso, un inutile dispendio di energie per dimostrare l’indimostrabile, ossia che quel simbolo non sarebbe un richiamo al collaborazionismo filonazista. Per i non addetti: si parlava della mostrina di una compagnia Flack (contraerea) formata da collaborazionisti francesi e destinata, per decreto, a diventare emblema della Charlemagne (waffen ss) se la guerra non fosse finita in tempo. Andrebbe spiegato, da parte di questi presunti sostenitori dell’autodeterminazione dei popoli, come mai il legame con la mostrina di riconoscimento di quella Flack venisse rivendicato nel dopoguerra da alcuni reduci delle waffen-ss. Personaggi che parteciparono alla fondazione del Parti republicain d’union populaire (poi Mouvement socialiste d’unité francaise) e riesumarono la “croce cerchiata delle ss francesi impropriamente chiamata celtica”(consultare “Le combattant europeèn”).*
    Come capita sovente “quando il saggio indica con il dito la luna, lo stolto vede soltanto il dito”.
    Il ruolo di “saggio” sicuramente non mi compete, ma è comunque da stolti non vedere (o non voler vedere) quale fosse il vero problema posto dal mio intervento. Non ho ancora registrato commenti da parte del “settore destro” sul ruolo svolto dai loro fratelli maggiori, certi soidisant “antimperialisti” di estrema destra che finirono per integrarsi nelle squadre della morte spagnole (ATE, BVE, GAL, quelle che assassinavano i rifugiati baschi in Iparralde e i carlisti dissidenti a Montejurra-Jurramendi). O magari con l’esercito sudafricano contro le lotte di liberazione nazionale in Angola e Namibia. Per non parlare della collaborazione con i regimi fascisti in America Latina e con le milizie maronite di destra in Libano. Nessun chiarimento poi sui rapporti intercorsi tra i fascisti nostrani e quelli inglesi del NF (e quindi, magari indirettamente, con le destre protestanti, i lealisti di UDA, UVF, UFF…). **
    Alimentare ulteriori polemiche ideologiche non mi pare di grande utilità (avrei altro da fare). Se questo sito vorrà ospitarli, penso sia di maggior interesse proporre una serie di articoli su come le destre estreme abbiano, di volta in volta, represso o cercato di strumentalizzare alcune lotte di liberazione nazionale. In particolare quelle che ho conosciuto maggiormente di persona: Euskal Herria, Irlanda e Paisos Catalans (con cui inizio). ***

    La pena di morte era stata abolita in Spagna per la prima volta nel 1932, ma venne ben presto ripresa per i delitti definiti di “terrorismo”, in risposta all’insurrezione dei minatori asturiani nell’ottobre 1934. Nel 1938 venne pienamente ristabilita e quindi applicata a livello di massa tra il 1939 e il 1945. La legge marziale rimase in vigore dal 28 luglio 1936 al 7 aprile 1948. Con la definitiva vittoria franchista (1939), si assiste ad una serie impressionante di sacas. Così venivano chiamate le operazioni con cui si prelevavano dalle prigioni gruppi di detenuti per fucilarli direttamente, senza alcuna parvenza di processo. In seguito queste “esecuzioni selvagge” (come le ha definite uno storico catalano) vennero sostituite da processi-farsa, con un’apparenza solo formale di legalità. Settanta-ottanta persone venivano giudicate contemporaneamente sulla base di una serie di presunti reati commessi e inevitabilmente con la sentenza si decretava la pena di morte collettiva.
    Ricordo che stiamo parlando di fucilazioni o impiccagioni sistematiche, operate dall’apparato statale, non di episodi di vendetta o di ritorsioni di qualche gruppo incontrollato.
    Non sono pochi gli studi finalizzati a quantificare il numero delle vittime della repressione franchista nel cosiddetto “dopoguerra” (accettando per comodità come riferimento per la fine della Guerra Civile quello ufficiale e convenzionale dell’aprile 1939: “La guerra ha terminado”).****
    Studi e ricerche che non sono esenti da critiche, confutazioni e revisioni.
    E naturalmente la macabra contabilità non è immune dall’ideologia. Questa non risulterà come il fattore determinante nell’emettere giudizi o valutazioni storiche, ma non è nemmeno fine a se stessa.
    G. Jackson in “La Republica espanola y la guerra civil”, Barcelona 1976, parlava di circa 580mila morti complessivi, o per cause belliche o per violenza politica, tra il 1936 e il 1943. Di questi circa un terzo (200mila) sarebbero stati prigionieri repubblicani morti per esecuzioni dal ’39 al ’43.
    Studi successivi, sorti sull’onda delle polemiche, avevano portato a un ribasso della cifra.
    S. Larrazabal arrivava addirittura a parlare di “soltanto 22.716 esecuzioni tra il 1939 e il 1943”.
    Fino agli anni ottanta la maggior parte degli storici si era attestato su una cifra di circa centomila. Ramon Tamares riportava il numero di 103.129 giustiziati (sempre riferendosi al “dopoguerra”, naturalmente). Lo storico triestino Claudio Venza parlava di una cifra compresa tra 90mila e 150mila, dal 1939 al 1945. Studi più recenti (sia Jorge M. Reverte che Santos Julià, Victimas de la guerra civil, Madrid 1999) hanno calcolato che tra il 1936 e il 1943 il nuovo ordine fascista fece giustiziare oltre150mila persone. Più di quelle che l’esercito di Franco avevano ucciso in tre anni di guerra. E senza dimenticare che numerosi combattenti repubblicani, ormai circondati, preferirono suicidarsi con l’ultimo colpo in canna piuttosto che cadere nelle mani dei carnefici fascisti. Come nel porto di Alicante.
    Dato che le diverse metodologie applicate influenzano i risultati, è lecito pensare che alcuni dei lavori in questione pecchino quanto meno di approssimazione. Sembra infatti che quasi nessuno degli storici citati avesse ritenuto di dover consultare anche i Registri Civili, forse considerandolo un lavoro troppo lungo e comunque scarsamente prestigioso. Se ne occupò invece, sempre negli anni ottanta, qualche ricercatore catalano, in particolare Josep M.Solé i Sabaté, sobbarcandosi il gravoso compito di dedicarsi sistematicamente a questo genere di ricerca.
    Per quanto riguarda i Paisos Catalans era giunto alla conclusione che le vittime del franchismo sono state molte più del previsto. Nel solo Principat i catalani assassinati dalle forze di occupazione dopo il ’39 sarebbero stati 3.385 (almeno quelli accertati ancora negli anni ottanta), metà dei quali a Barcellona, gli altri distribuiti tra Tarragona, Lleida, Girona e una serie di località minori. Un analogo lavoro di ricerca svolto nel Pais Valencià aveva quantificato in circa 10mila i catalani giustiziati dopo il 1939 (complessivamente in una decina di località considerate). Come si può intuire il maggior numero di fucilati nel Pais Valencià rispetto al Principat era dovuto anche alla maggiore distanza da una frontiera internazionale come quella con la Francia. Anche se non tutti gli antifranchisti che si rifugiarono in Francia sfuggirono poi alla vendetta del dittatore. *****
    Primo fra tutti quel Lluis Companys (fondatore nel 1931 dell’Esquerra Republicana de Catalunya) che ancora nel 1934 aveva proclamato “lo Stato Catalano integrato nella Repubblica Federale Spagnola”, gesto che gli costò l’arresto e l’imprigionamento nel carcere di Santa Maria.
    Dopo la sconfitta della Repubblica nel 1939 Companys cercò scampo in Francia, ma con l’invasione delle truppe naziste venne riconsegnato ai franchisti. Dopo un processo sommario venne fucilato a Montjuic nel 1940. Seppe morire con molta dignità, lasciando sconcertati gli stessi membri del plotone di esecuzione. Prima che questi aprissero il fuoco si levò e depose gli occhiali, poi si tolse le scarpe per posare i piedi nudi sulla sua terra e cantò l’inno nazionale catalano (“Els Segadors”). L’eroica morte di Companys venne prepotentemente riportata alla memoria dei catalani nel settembre 1975 quando un giovane basco, Juan Paredes Manot (Txiki), venne fucilato al cimitero di Sardenyola non lontano da Barcellona. Davanti al plotone di esecuzione Txiki gridò “Gora Euskadi Askatuta, Iraultza Ala Hill” e poi intonò l’Eusko Gudariak, il canto dei gudaris, i combattenti baschi antifranchisti. Il 27 settembre (giorno della sua fucilazione e di quella di un altro etarra, Otaegi, oltre che di tre militanti del Frap), divenne la data in cui si celebra il Gudari Eguna (giorno del combattente basco).
    Estendendo le modalità di ricerca adottate da Josep M. Solé i Sabaté a tutta la penisola iberica (soprattutto nel centro e nel Sud da dove era difficile espatriare) si arriverebbe con ogni probabilità ad una revisione delle cifre precedentemente riportate. Quanti sono stati, per esempio, i casi in cui l’esecuzione venne classificata come “traumatismo”, evidente eufemismo quando viene applicata a gruppi di decine di persone morte contemporaneamente? In altri casi si riporta “asfixia” oppure “herida penetrante de craneo”. I Registri Civili, riportando la data e il numero delle vittime, permettono quindi di ricostruire con minor approssimazione la portata del massacro operato dal franchismo a guerra finita. Altro dato interessante emerso da queste ricerche in Catalunya è che la maggior parte delle vittime, nelle località prese in considerazione, erano militanti o simpatizzanti anarcosindacalisti (CNT, FAI). Cosa del resto quasi scontata se si tiene conto che i Paisos Catalans sono stati presumibilmente il maggior vivaio libertario della Storia. Sempre grazie ai Registri Civili si è avuto conferma di quale fosse la condizione sociale della maggior parte delle vittime. Quasi tutti appartenevano alle “classi subalterne”, le stesse che maggiormente si erano rese protagoniste del tentativo di stroncare il fascismo e contemporaneamente di rovesciare l’ingiusto ordine sociale esistente. Questo particolare può far comprendere anche quali siano stati i costi umani complessivi. Basti pensare alla miseria in cui precipitarono migliaia di famiglie proletarie la cui stessa sopravvivenza dipendeva per lo più dal lavoro degli assassinati. L’impiego di misure repressive contemplanti la pena di morte non si esaurì comunque con la fine degli anni quaranta. Le esecuzioni continuarono ad essere adottate sistematicamente anche negli anni successivi. Sotto certi aspetti addirittura si perfezionarono a scopo preventivo e come deterrente nei confronti di una guerriglia che andava diffondendosi. Avviata nei PPCC da militanti anarchici come Francisco Sabatè Llopart (El Quico, già integrato nella Colonna Durruti), Facerias e Capdevilla (Caraquemada), seppe mantenersi fino al MIL, il gruppo di Oriol Solé e Puig Antich (giustiziato nel 1974).
    Era del 1959 la Legge di Ordine Pubblico con cui la pena di morte veniva estesa a tutti i “delitti contro lo Stato”. Nel 1963 veniva poi creato il famigerato Tribunale di Ordine Pubblico, lo stesso che condannerà a morte Puig Antich e il Txiki. Sempre nel 1963 suscitarono condanna a livello internazionale le esecuzioni del comunista Juan Grimau (20 aprile) e degli anarchici Joaquin Delgado e Francisco Granados (17 agosto). Infine, nel 1964, il famoso Decreto-Legge “contro il banditismo”, responsabile della morte di tanti oppositori. Ovviamente il maggior numero delle vittime era costituito da militanti (anarchici, indipendentisti, comunisti, sindacalisti…) ammazzati lungo le strade, in maniera alquanto informale, da vere e proprie squadre della morte di stato. Altri, anche solamente sospetti, morivano nelle carceri, nelle caserme della GC e nei commissariati a causa di percosse e torture o grazie allo stratagemma della “ley de fuga”. Per restare in Catalunya, rimane emblematico il caso dell’operaio di origine andalusa Cipriano Martos, aderente al Fronte rivoluzionario antifascista patriottico (il Frap, operante in tutta la penisola, sosteneva l’autodeterminazione di PPCC, Euskal Herria e Galizia). Cipriano venne ammazzato nella caserma della Guardia Civil di Tarragona il 17 settembre 1973. Nel corso dell’anno sia la GC che la BPS (Brigata politico-sociale) praticarono la tortura in maniera indiscriminata. Come mi raccontava un ex esponente del Frap “timpani e costole rotte non si contarono e i muri delle celle rimasero letteralmente ricoperti di sangue”. Ricordava anche di essere stato “arrestato in maggio a Barcellona insieme a decine di altri militanti. E tutti, chi più chi meno, subimmo la tortura”. Quanto a Cipriano, nonostante maltrattamenti e percosse, non aveva dato nessuna informazione ai suoi aguzzini. Questi allora lo costrinsero a ingerire acido solforico. Trasportato in ospedale gli venne praticata la lavanda gastrica. Ricondotto in caserma venne nuovamente torturato e ancora costretto a ingerire altro acido solforico. Una seconda lavanda gastrica risultò del tutto inutile. Sul suo martirio lo scrittore Miguel Bunuel ha scritto il breve ma toccante testo “El desaparecido”.

    Nei confronti del franchismo era prevalso un atteggiamento sostanzialmente benevolo, sia da parte del Vaticano che di Washington. Una sorta di “revisionismo storico” meno sfacciato di chi pretende di stabilire che in fondo Hitler avrebbe sterminato “soltanto” tre o quattro milioni di ebrei (invece di sei, senza contare slavi, sinti, rom, oppositori e “antisociali” vari), ma non meno infido. Una rivisitazione della Guerra Civile che tende a riabilitare Franco come “fascista buono” (dal volto umano?), un difensore degli ebrei perseguitati, contrapposto al “fascista cattivo” Hitler. Almeno 30mila ebrei sarebbero stati salvati dall’intervento del generalissimo “Caudillo de Espana por gracia de Dios” che avrebbe agito per un senso di carità cristiana.

    Pesanti tentativi di riabilitare Franco erano apparsi sul “Sabato” all’epoca della gestione Liguori (“Straccio”, un ex di Lotta continua) e da qui erano poi filtrati in ambienti pidiessini (siamo nei primi anni novanta). Elemento comune, l’apprezzamento incondizionato (sia da parte del “Sabato” che del Pds) per la politica economica-sociale dell’allora capo del governo spagnolo, il “modernizzatore Gonzalez” – considerato – “il miglior interprete dell’ultima fase del franchismo”, uno dei garanti della transizione, ma anche della continuità. Soprattutto della continuità dei profitti delle banche. Per maggiori dettagli rimando ad un libro di Ricardo de la Cerva (ex ministro della Cultura e funzionario dell’apparato franchista). Nella sua “Storia del franchismo” il ruolo fondamentale poi assunto da Gonzales e dal PSOE nella “riforma” appare già definito e programmato almeno dal 1974 quando venne individuato dal regime come “personaggio affidabile”.
    A questa tesi potrebbe aver contribuito involontariamente anche Deaglio (altro ex di Lc) con il suo libro su Perlasca. Effettivamente il Perlasca che si prodigò coraggiosamente per salvare migliaia di ebrei ungheresi, in qualità di “console” (fittizio) di Madrid presso l’ambasciata spagnola di Budapest, era stato un ammiratore più di Franco che di Hitler e Mussolini. In tale veste era stato volontario nella Guerra Civile a fianco dei falangisti contro i repubblicani. Pensando forse che massacrare braccianti e operai in odore di anarchismo e comunismo (o indipendentisti baschi e catalani) non era poi cosa tanto riprovevole.
    Era poi significativo che un andreottiano di ferro – ma ben visto anche in ambienti neo-socialdemocratici – come Giancarlo Elia Valori (presidente della Società Meridionale Finanziaria, da sempre in buoni affari con i governi spagnoli, prima con Franco poi con Gonzalez) avesse consacrato i meriti di Franco nel “gettare le basi dell’attuale boom economico” (anni novanta, beninteso). Secondo Valori, il caudillo avrebbe “affidato molti posti di comando a elementi di primordine. Alcuni appartenevano all’Opus Dei mentre altri erano dei tecnocrati puri. Fu questa classe dirigente -proseguiva G.E. Valori – a promuovere le prime aperture economiche e a far uscire la Spagna dall’isolamento”. E con questo trovava ulteriore conferma la continuità ideale tra Franco e Gonzalez sul piano della restaurazione capitalista. Della sostanziale continuità su altri piani (negazione del diritto all’autodeterminazione, strapotere dell’apparato militare, mantenimento di metodi repressivi infami come la tortura e la guerra sporca) si è già parlato ampiamente in altre occasioni (v. “Indiani d’Europa – Euskal Herria” edizioni Scantabauchi – Raixe Venete).
    Gianni Sartori

    * Fermo restando che il fatto di essere stata in seguito adottata dall’Oas basterebbe e avanzerebbe per screditarne l’uso e l’abuso agli occhi di chi crede nel diritto dei popoli all’autodeterminazione (in questo caso gli algerini).

    **Quanto alla vicenda del“sidro Bobby Sands” (prodotto -pare- da CasaPound-Italia di Bolzano !?! Ma si può?) mi sembra che l’intervento dei Repubblicani irlandesi sia stato chiarificatore. Hanno spiegato senza mezzi termini di non aver gradito il tentativo di appropriarsi da destra (oltretutto a scopo commerciale) del nome di un martire della lotta di liberazione.

    ***E se qualche esponente del “settore destro” fosse già ai blocchi di partenza per le solite obiezioni (“…e i popoli oppressi da Stalin? E Pol Pot? E le madonne pellegrine?”)? Magari un’altra volta. Non è che uno deve sempre riscrivere la genesi del mondo. Fosse per me, effetto collaterale dei miei trascorsi giovanili (libertari e consiliari), starei sempre a occuparmi della Commune di Parigi, di Kronstadt e dell’Ucraina makhnovista, di Rosa Luxemburg e della Repubblica dei consigli in Baviera, del maggio 1937 a Barcellona, di Camillo Berneri e Francesco Ghezzi o della rivolta ungherese del 1956. Avviata, va ricordato, dall’iniziativa di un consiglio operaio in una fabbrica di lampadine di Budapest (e quindi, almeno all’origine “sovietica” o, gramscianamente “soviettista”- rileggersi Umanità Nova e l’Internationale Situationiste dell’epoca). Ma non è detto che a tutti possa interessare.

    **** Raccontano i biografi che quel giorno Franco stava a letto con il raffreddore, ma che “si alzò dal letto per correggere il bollettino di guerra che la Radio nazionale trasmetteva quotidianamente”. Firmato dal caudillo, alle 22, 30 il bollettino venne letto agli spagnolo dall’attore Fernando Fernandez de Cordoba: “Oggi, catturato e disarmato l’esercito rosso, le truppe nazionali hanno conseguito i loro ultimi obiettivi militari. La guerra e finita. Burgos, 1 aprile 1939, Anno della Vittoria”. Un macabro “Pesce d’Aprile” destinato a durare quasi 40 anni.
    ***** A tale proposito riporto quanto mi venne raccontato da un cileno di origine catalana, all’epoca rifugiato in Veneto dopo il golpe di Pinochet. Pablo Neruda ebbe un ruolo significativo nel salvataggio di alcune migliaia di antifranchisti (in maggioranza catalani ) rifugiati in Francia e che rischiavano, con l’arrivo imminente delle truppe naziste, l’estradizione nelle mani di Franco. Il poeta aveva organizzato la fuga via mare, ma al momento della partenza le autorità francesi non volevano più concedere il permesso dato che sulla nave c’erano almeno il doppio dei passeggeri consentiti (seimila invece di tremila). Allora Neruda estrasse una pistola e, ritto sul molo, se la portò alla tempia, minacciando il suicidio se non fosse salpata con tutti i rifugiati. Alla fine comunque la nave partì. Sempre secondo la mia fonte tra i passeggeri ci sarebbero stati i genitori, catalani, della futura moglie di Salvador Allende e sembra che anche la famiglia di Allende fosse di origini catalane. Singolare coincidenza: il giorno del golpe di Pinochet (appoggiato dagli Stati Uniti) e della morte di Allende fu l’11 settembre 1973. Ma l’11 settembre è anche il giorno della Diada, la festa nazionale catalana in ricordo della caduta di Barcellona nel 1714. Negli ultimi anni della sua vita Neruda fu un sostenitore entusiasta dell’esperienza del governo di Allende, anche come ambasciatore a Parigi. La sua morte avvenne nei giorni del golpe (non si esclude che sia stato assassinato dalla giunta militare), in pieno clima di feroce repressione e assunse un valore simbolico di resistenza alla dittatura e all’imperialismo statunitense.
    Altri poi hanno voluto cogliere una qualche “coincidenza sincronica” tra il golpe fascista appoggiato dagli Usa in Cile nel 1973 e l’11 settembre 2011.
    GS

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