Una riforma della scuola richiede una riforma del pensiero

corteo -1968



Tutto da rifare?

A questo punto dovrebbe essere chiaro. La quadratura del cerchio non si può trovare. Forse il problema è stato insistere nel cercarla. Mettere a sistema, pretendere certezza, programmabilità, prevedibilità da un processo così vago, complesso, imprevedibile come la formazione di individui che crescono, e pretendere oltretutto cha tale esito collimasse con le esigenze economiche, sociali e culturali di una società e del sistema che la società esprimeva era quantomeno pretenzioso. Meglio, distopico.

Ma oggi, dopo decenni di finti dibattiti sulla scuola e veri scontri tra interessi (elettorali, economici, sindacali, culturali…) che la scuola catalizza, ogni proposta di cambiamento (e ogni resistenza al cambiamento), anche se “dalla parte giusta” (democratica e progressista), non può che infognare il dibattito, corrompere lo sguardo e sterilizzare l’immaginazione necessaria a ogni reale processo di cambiamento.

Ogni proposta di riforma, se osservata da lontano, appare inutile, scaduta, stantia. Ogni analisi, ogni interpretazione che si pretende strutturale, “di sistema”, se osservata da vicino, appare utopica, anacronistica. Queste spinte opposte creano, per chi ancora si interroghi sui modi migliori per assecondare la forza liberatrice dell’educazione, un gorgo paralizzante che più che a un maelstrom in mare aperto assomiglia allo scarico limaccioso di una piscina a fine stagione.

Possederemo un metodo per scrollarci di dosso l’oppressione, sosteneva Simone Weil, solo il giorno in cui ne avremo compreso le cause con chiarezza. E per comprenderne le cause è necessario prima di tutto ripulire il nostro sguardo, liberarlo dalle incrostazioni che si sono sedimentate nel tempo, magari a partire dai nostri convincimenti più profondi, dal carattere fantasmatico che li avvolge e per i quali abbiamo combattuto sinora. Fatto questo, proseguiva, bisogna sempre essere pronti, quando necessario, a cambiare fronte, ad abbandonare, come la giustizia, il campo dei vincitori.

La scuola rappresenta una delle nostre vittorie più nitide. La scolarizzazione universale e obbligatoria è un obiettivo, almeno qui da noi e nel cosiddetto occidente democratico, ampiamente raggiunto. È il momento di osservare, senza infingimenti né falsa coscienza, cosa ha lasciato sul campo, quali risultati questa vittoria ha garantito. Cosa tenere e cosa rifiutare. Cosa difendere e a cosa opporsi.

Il banco di prova di un’intelligenza superiore”, scriveva Francis Scott Fitzgerald a proposito di un crollo bensì molto più personale, “è la capacità di sostenere simultaneamente due idee contrapposte senza perdere la capacità di funzionare. Uno dovrebbe, per esempio, capire che non c’è scampo ma essere comunque intenzionato a far di tutto per trovare una via d’uscita.” Intelligenze superiori che in questo momento ci aiutino a comprendere il fallimento del sistema scolastico e soprattutto a fornire spiegazioni in grado di indicare percorribili vie d’uscita, in giro non se ne vedono. Quello che si potrà fare – e che iniziamo a fare a partire da questo numero della rivista – sarà comunque sostenere, a più voci e senza paura di cadere in contraddizione, idee necessariamente contrapposte.

Come ad esempio che questa scuola è morta (come istituzione, come mandato sociale, come rappresentazione collettiva, come struttura, come efficacia) ma che una certa scuola è necessaria (come comunità, come possibilità di incontro fra culture, come trasmissione e creazione di cultura, come spazio pubblico, come critica all’ordine vigente). Che opporsi, in ogni modo, all’attacco della scuola come servizio pubblico è semplicemente doveroso, ma con ciò senza difenderla ciecamente quand’essa si dimostri strumento di alienazione e disumanizzazione. Che se da un lato la scuola rimane probabilmente l’ultimo luogo pubblico in cui sopravvivono piccoli frammenti non mercificati di sapere, dall’altro, a suon di riforme e di piccoli aggiustamenti strutturali, si è trasformata in un assurdo e burocratico insieme di ostacoli che gli insegnanti sono costretti a superare se si ostinano a voler trasmettere ancora un po’ di luce.

Che si può e si deve difenderne il ruolo di servizio pubblico senza con ciò rinunciare a immaginarla radicalmente diversa, in altri luoghi, per un’altra durata, con altri interlocutori. Che ogni idea di riforma non può che procedere in maniera radicale e senza parapetti, ma che ogni radicalità è inutile se non genera un’azione e un cambiamento. Che tentare di “umanizzarla”, mascherandone con ciò i rapporti di potere, non può alla lunga che pervertirne gli ideali, ma non tentare, ogni volta che se ne ha l’occasione, di renderla un posto più decente in cui stare e in cui incontrare sul terreno della cultura, della scienza e dell’arte e in un rapporto di scambio ragazzi e ragazze in formazione, ci rende artefici di un’alienazione non meno degradante.
(Gli asini)

Una riforma della scuola richiede una riforma del pensiero-Fernanda Ferraresso

Siamo proprio in mani sicure
L’indicazione iniziale della Riforma della scuola, riguardante i Licei, cita con chiarezza un dovere a cui ci si deve ancorare come criterio costitutivo di tutto ciò che poi viene individuato come programma di obiettivi da raggiungere. Cito:

L’esplicitazione dei nuclei fondanti e dei contenuti imprescindibili.

Intorno ad essi, il legislatore individua il patrimonio culturale condiviso, il fondamento comune del sapere, che la scuola ha il compito di trasmettere alle nuove generazioni, affinché lo possano padroneggiare e reinterpretare alla luce delle sfide sempre nuove lanciate dalla contemporaneità, lasciando nel contempo all’autonomia dei docenti e dei singoli istituti ampi margini di integrazione e, tutta intera, la libertà di poter progettare percorsi scolastici innovativi e di qualità, senza imposizioni di metodi o di ricette didattiche

Ora, davanti a tali propositi ci si dovrebbe sentire in mani sicure, poggiati su conoscenze, requisiti e abilità che dichiarano di volere e di saper dare una nitida valutazione del futuro, capaci di indicare e costruire le vie in cui deporre i passi che, domani,un domani comune, permetta a ciascuno di muoversi, muovere, nel senso di avanzare, secondo direttrici preferenziali.

E questo per il bene comune, per potere a loro volta, le generazioni così preparate, addestrate, farsi educatrici di altre generazioni, come se tutti fossimo un solo individuo collettivo o una comunità reale, non una sommatoria di individui e per giunta narcisisti, egoisti, egotisti, egocentrici, edonisti, spregiudicati arrivisti, brutali imperatori capaci di fare carte false pur di arrivare là dove la propria fame di esibizione di sé, di potere economico, camuffato da ideologico, conduce senza porsi alcuno scrupolo per nessun altro se non se stesso.

L’élite dei saperi e il degrado culturale
L’Italia, più che in ogni altro tempo, sembra tramortita, rimbambita da una crisi economica, scritta a tavolino, risultato di una frode studiata da tempo, non casuale, che ha prodotto ciò che voleva, l’abbattimento dei costi della forza lavoro, con speculazioni abominevoli e manovre spregiudicate che hanno portato ad un abbassamento dei livelli occupazionali che azzerassero le conquiste duramente perseguite e raggiunte in molti anni, per combattere quei mali da cui oggi ci si ritrova, al contrario, nuovamente assediati. La disoccupazione e la mancanza di iniziativa politica, ma non solo, sembrano dipingere con chiarezza la voluta mancanza di coscienza di chi invece dovrebbe farsi carico del cambiamento.

L’élite dei saperi, l’alto grado di tecnologia avrebbe dovuto sconfiggere le piaghe mondiali della sottoccupazione, della povertà, della fame, dell’analfabetismo, dell’emarginazione e invece ha acuito il divario, ampliando le fasce di povertà, di degrado culturale, non solo urbano o edilizio, attraverso nuove fasce di emarginati e puntando il dito su falsi problemi (le migrazioni), cercando di distogliere l’attenzione da coloro i quali sono i veri fautori di queste linee d’azione. Eppure, ciò nonostante, credo che ci sia qualcosa di molto più importante di questa barriera, perché tale è l’inadempienza dei politici e dei gruppi di potere, dei leader e dei manager di ogni settore che analizzi lo stato di fatto attuale e non agisca a favore di chi ha prodotto quella sua ricchezza, delle multinazionali, delle banche che sono ormai legali strumenti di usura, delle istituzioni private che hanno confiscato dei beni pubblici, dell’industria, del sindacato.

Il civis torni a dare peso al proprio ruolo
Credo sia importante la consapevolezza di un proprio ruolo, singolare e importantissimo, svolto da ogni persona, da ogni civis: il ruolo di tutore di ogni individuo pensante. A questo ruolo di responsabile, alla pari di ogni altro, ciascuno deve ritornare a dare peso. Sembra sia stata dimenticata la radice di politica: polis, la gente, la comunità delle persone, i cives, non i consumatori, anche se sono ormai moltissimi i giovani e anche i non più giovani che si ritrovano in strada, letteralmente, per condividere una condizione di annullamento, consumati dal lavoro che li ha prodotti come forza, che li ha usati come consumatori del proprio lavoro e del bene prodotto e ora sono scartati per un assurdo vizio di fabbrica che si chiama: interesse del capitale.

Studio, anzianità di servizio, anni di impiego, esperienze lavorative: tutto a zero. E contemporaneamente una perdita individuale e collettiva dei beni comuni: inquinamento delle acque, dei suoli, dell’aria, non solo del pensiero e del sentire (si veda l’aumento delle nevrosi, delle depressioni, dei mali indotti da questo convulso e dissennato modo di vivere: tutti in corsa verso la morte, da cui cerchiamo di nasconderci nascondendo le tracce del tempo sul volto o sul corpo, rincorrendo falsi idoli estetici che non risolvono assolutamente nulla).

Nel Meridione non sono pochi, maschi e femmine, quelli che scelgono la carriera militare per crearsi un futuro e costruirsi una qualche sicurezza lungo una strada che li conduce spesso in altri paesi in guerra da cui tornano dentro la bara e sotto una miriade di false commemorazioni farcite di retorica e vuote.

E poi ci sono i cervelli che scappano, i cervelli eccellenti, si dice, prodotti da questa scuola, non da quelle tanto decantate di altri Paesi, ma la nostra scuola pubblica, in tutti i suoi livelli fino all’università, cervelli che non trovano qui la possibilità di dare quello per cui hanno studiato, reinvestendo per la comunità il loro sapere in un fare, per progredire. E questo è erigere muri, questo è agire in netto contrasto con una logica rigorosa, non solo il buon senso a cui ci si appella nascondendo la polpa dell’analisi, la sostanza di una guerra continua, che traccia trincee tra questo e quello, dividendo, allontanando, disperdendo. La pace non si costruisce con la guerra, nemmeno con l’uso di mezzi d’assalto usati pacificamente.

L’ignoranza: pestilenza da cui guardarci
E questo genere di scuola è privata dei requisiti per essere scuola. Se una scuola è pubblica non può che accogliere non rifiutare l’accesso e penso ai tanti studenti con difficoltà di ogni genere, non solo fisico o psichico. La scuola privata rifiuta, sceglie per censo, non per abilità e, così facendo, resta uno dei tanti mezzi d’assalto al territorio della libera circolazione delle idee e nasconde interessi di altro genere, non coltiva la pace tra gli individui, tra i popoli. I libri di storia, che a scuola si studiano, mettono in luce proprio questo, gli interessi che sempre hanno mosso ad allearsi o a scontrarsi con gli altri paesi, la fatica della costruzione, le speculazioni.

Nelle aule non si allena a mirare il bersaglio, un qualsiasi bersaglio, ben sapendo che il centro a cui si deve porre sempre attenzione per un cambiamento fattibile è se stessi. Non serve certo attaccare nessuno, non servono armi, il cervello e l’intelligenza, la sensibilità e l’umanità di cui ciascuno è dotato ha detonatori capaci di far spostare le barriere più pesanti.

L’ignoranza è l’unica pestilenza da cui ci si deve guardare, la confusione, la cattiva coscienza d’essere unici o gli unici detentori di un sapere che non ha, a tutt’oggi, risolto nessun problema fondamentale, ma, anzi, ha acutizzato la separazione tra luogo e abitanti del luogo, innescando una guerra che forse è molto peggio di quella che comunemente chiamiamo con questo appellativo. Gandhi (Antiche come le Montagne, ed. di Comunità, Milano 1981) scriveva:

Una cosa è certa. Se la folle corsa agli armamenti continua, dovrà necessariamente concludersi in un massacro quale non si è mai visto nella storia. Se ci sarà un vincitore, la vittoria vera sarà una morte vivente per la nazione che riuscirà vittoriosa. Non c’è scampo allora alla rovina incombente se non attraverso la coraggiosa e incondizionata accettazione del metodo non violento con tutte le sue mirabili implicazioni. Se non vi fosse cupidigia, non vi sarebbe motivo di armamenti. Il principio della non violenza richiede la completa astensione da qualsiasi forma di sfruttamento. Non appena scomparirà lo spirito di sfruttamento, gli armamenti saranno sentiti come un effettivo insopportabile peso. Non si può giungere a un vero disarmo se le nazioni del mondo non cessano di sfruttarsi a vicenda.

La corsa che non è mai cessata, ma anzi si è ripetuta e organizzata, passando il testimone a troppe figure, compresa la scuola, una scuola che si dice elitaria mentre, così facendo, esprime solo la sua fondamentale lacuna, quella cioè di non poter essere davvero scuola, nel senso vero e completo del termine.

Una scuola elitaria non è scuola
Una cultura e una scuola che si definisce elitaria non può essere ciò che assicura di essere. Essa coltiva esattamente il principio contrario per cui una istituzione si definisce capace di produrre cultura, scuola, risultando settaria, ridotta, e alla fine ridicola perché parziale, senza essere capace di assicurare il principio fondante che quella libertà intende ed è il terreno dell’incontro dei saperi, saperi liberi da qualunque preclusione di settore, da qualunque ideologia che voglia dominarli, usarli, dirigerli.

Scuola, dal latino schola, deriva a sua volta dal greco antico σχολεῖον (scholeion), da σχολή (scholḗ) che inizialmente significava “tempo libero, poi evolutosi in un termine che descriveva il “luogo in cui veniva speso il tempo libero“, cioè il luogo in cui si tenevano discussioni filosofiche o scientifiche durante il tempo libero, per poi descrivere il “luogo di lettura“, fino a descrivere il luogo d’istruzione per eccellenza. La scuola è il tempo e il luogo liberi, liberati da ogni giogo, da ogni potere, luogo che indaga senza porsi come obiettivo altre speculazioni che il sapere, la conoscenza. Va da sé che la conoscenza principale è quella di sé, non demandando a nessuno il compito di indagare in ogni direzione e collaborando l’un l’altro perché questo accada, poiché anche il luogo è il sé.

Oggi, invece, ci si è nascosti così bene, o meglio si crede di essersi nascosti bene dietro le barricate dell’economia, della politica, di una leadership in cui il primato economico vuole superare ogni altra eco-nomia fondamentale. Il luogo che ci ospita, sia esso il pianeta o il cosmo, il corpo che abitiamo, sia esso un corpo fisico o mentale, le tante abilità del luogo (riprodursi, specializzarsi, produrre gas vitali, acqua, sali, energia indispensabile e tutto a costo zero) che noi, con le nostre economie abbiamo depauperato e distrutto orrendamente, questo dovrebbe essere fondamentale obiettivo da osservare, studiare, rispettare, organizzare.

La cultura non è un bene passeggero
In realtà non mancano gli ideali, ma è di capitale importanza che si veda bene quali sono, perché li ha mostrati, i suoi ideali, un capitale che è luogo del vuoto, corpo che si con-figura sulla morte di tanti miliardi di esseri a vantaggio di pochi gruppi elitari, incapaci di risolvere alcun problema fondante.

Tutto si è trasformato in una orrida guerra in ogni quartiere della terra, all’interno di ogni persona, distruggendo la polpa che tutti ci rendeva comunicanti, in comunicazione tra noi e il luogo. La parola che usiamo è una parola morta, parla di morti, produce cadaveri. La scuola lo sa, tutti gli in-segnanti lo sanno, lo sentono chiaro perché anche loro sono stati a loro volta in-segnati, ed è quello che portano a tutti gli altri, la consapevolezza di quei segni.

La cultura non è un bene passeggero e la sua divulgazione, la condivisione dei percorsi, che ogni disciplina e l’arte, disciplina anch’essa, studiano e offrono attraverso le loro tante indagini e le loro molteplici lingue, sono una risorsa irrinunciabile, non tanto per restare ancorati al passato e ad una tradizione sterile, ma per produrre una profonda consapevolezza delle proprie origini, facendosi promotori di un volano di ripresa che tenga conto della contemporaneità ma non dimentichi che altri, ancora altri pro-seguiranno il percorso in futuro. Tenendo conto che il profitto maggiore è una condivisione delle risorse e della produzione, non una preclusione degli stessi, non ci sarebbe un nuovo stallo di crisi come quello attuale.

La distribuzione della cultura facilita i rapporti tra uomini e stati, la consapevolezza delle proprie capacità e delle proprie memorie rende gli uomini una sola comunità, capace di evolversi senza sosta e non trasforma ogni uomo in quel deserto, dei Tartari, di cui  ancora si legge a scuola, risultando in-calzante comune problema.

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G. Ungaretti tra i manifetsanti del 68

Materiali

Riformare il pensiero per un’educazione planetaria
da Edgar Morin

Prendiamo l’esempio dell’educazione: solo gli spiriti già riformati possono comporre una riforma istituzionale che, in se stessa, permetterà di formare sempre più degli spiriti riformati; e se non ci sono, in partenza, questi spiriti riformati, tutte le riforme falliranno. Ed è per questo che non credo assolutamente più alle riforme globali decise da questo o da quel ministro, semplicemente perché le persone incaricate di applicarle ne saranno spesso incapaci. In qualità di adepto del pensiero complesso, so che non basta brandire la parola “complessità” per riformare gli spiriti. Degli adepti poco formati, e inconsapevoli della complessità che racchiude la parola “complessità”, possono fare tanto o più sciocchezze che gli altri. La riforma può essere dunque solo profonda.

Lavorare pensando in modo corretto, è il principio della morale (Pascal). Questo non significa che sia sufficiente pensare correttamente per essere morale. No. Ancor bisogna avere un pensiero “corretto”, un pensiero cosciente degli effetti perversi di certe buone intenzioni. Ogni azione deve essere apprezzata tenendo conto della sua “ecologia”, cioè dell’insieme delle trasformazioni e delle deviazioni che conoscerà nei mezzi – storico, sociale, culturale… – in seno a cui si produrrà, mezzi che inevitabilmente avranno su di lei degli effetti negativi e contrari a quelli inizialmente ricercati. La presa in conto dell’ecologia dell’azione ci conduce ad una vigilanza senza la quale ci condanneremmo alla cecità. (…) la conoscenza pertinente non può gestirsi in modo da stanare le trappole della conoscenza: l’errore e l’illusione, presenti in modo permanente, poiché sono la risultante delle nostre percezioni, del nostro egocentrismo che confonde i nostri ricordi e il nostro modo di vedere le cose, e della menzogna in se stessa (…) è ancora più importante insegnare dalla più tenera età a conoscersi al fine di stanarli al più presto.

Oggigiorno, la coscienza non è più solamente famigliare, nazionale, culturale, è planetaria. Ed è questa coscienza planetaria che è fondamentale sviluppare. Torniamo qui all’idea della necessità di una conoscenza pertinente , cioè che permetta di includere il contesto e il globale, e non quella che regna nei nostri spiriti plasmati dal sistema di educazione attuale che, in generale, fa ben poco a caso a queste due dimensioni. Dobbiamo risituarci nel cosmo, del quale si sa che va verso la dispersione e la morte, e che ci indica la nostra piccola posizione marginale e periferica; le nostre conoscenze in questo campo rinforzano questa idea che il nostro habitat è la terra.

L’educazione deve collaborare all’abbandono della concezione del progresso come una certezza storica per farne una possibilità incerta e deve comprendere che nessuno sviluppo si acquisisce per sempre poiché, come tutto ciò che è vivente e umano, è sottoposto al principio di degrado e deve rigenerarsi in continuazione. (…) Più libertà e più comunità, più ego e meno egoismo.

Il sottosviluppo degli sviluppati è un sottosviluppo morale, psichico e intellettuale. Esiste senza dubbio una penuria affettiva e psichica più o meno grande in tutte le civiltà, e ovunque ci sono gravi sotto-sviluppi dello spirito umano, ma bisogna vedere la miseria morale delle società ricche, la mancanza d’amore delle società ipernutrite, la malvagità e l’aggressività miserabile degli intellettuali e degli universitari, la proliferazione di idee generali vuote e di concetti deformati, la perdita della globalità, la perdita del fondamentale e la perdita della responsabilità.

L’educazione deve rafforzare il rispetto delle culture e comprendere che sono imperfette in se stesse, a immagine dell’essere umano. Tutte le culture, come la nostra, costituiscono una mescolanza di superstizioni, di finzioni, di fissazioni, di saperi accumulati e non criticati, di errori grossolani, di verità profonde…

Volere un mondo migliore, che è la nostra principale aspirazione, non significa volere il migliore dei mondi. Per contro, rinunciare al migliore dei mondi non significa rinunciare a un mondo migliore. (…) A tale scopo, l’educazione dovrà rafforzare i comportamenti e le capacità che permetteranno di superare gli ostacoli prodotti dalle strutture burocratiche e l’istituzionalizzazione di politiche unidimensionali. La partecipazione e la costruzione delle reti associative supereranno il modello hegeliano maschile, adulto, tecnico, occidentale, rivelando e risvegliando i fermenti civilazzatori femminili, giovanili, senili, multietnici e multiculturali del patrimonio umano.

Un’educazione che mirasse a una concezione complessa della realtà e facesse su questa una riflessione complessa collaborerebbe anch’essa con gli sforzi che hanno per obiettivo quello di attenuare la crudeltà del mondo.

Testi tratti da:
Edgar Morin, Emilio-Roger Ciurana, Raul Domingo Motta, Educare per l’era planetaria, Armando Editore 2004

Edgar Morin, Educare gli educatori, Una riforma del pensiero per la Democrazia cognitiva, a cura di Antonella Martini, Edup 2008

*

Riferimenti in rete:

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/11/08/vivalascuola-53/

http://www.picusonline.it/scheda.php?id=13380

http://retedeglistudentiforli.ilcannocchiale.it/2010/03/29/storia_dei_movimenti_studentes.html

2 Comments

  1. i contenuti sono ampi ed aprono a più discussioni/riflessioni
    mi soffermo su questo punto centrale anzi fondamentale, sottolineando la sua preziosità

    “Il civis torni a dare peso al proprio ruolo
    Credo sia importante la consapevolezza di un proprio ruolo, singolare e importantissimo, svolto da ogni persona, da ogni civis…”

    un articolo da far girare
    Elina

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