8. Altri lavori
Alla base della nostra società c’è una contraddizione insanabile tra l’idea del lavoro come attività creativa (faber), generatrice di cooperazione e di relazioni sociali, e il lavoro necessitato, imposto, subalterno, faticoso (work, trabajo che deriva direttamente da tortura). Ciò è dovuto al dominio del capitale sull’altro (uomo, donna, natura, vita) che si genera principalmente nel rapporto di produzione86. La relazione lavorativa si riverbera su quella sociale. È a partire dal rapporto di lavoro, così com’è concretamente determinato, strutturato, giurisdizionato nel diritto commerciale, che si determina l’ordine, il funzionamento e l’organizzazione sociale più generale. È nella «fabbrica», nella azienda capitalistica (più o meno concentrata, diffusa, informatizzata, terziarizzata, reticolata…), lungo la catena di produzione del plusvalore, che si generano le prime forme di potere e di gerarchia sociali che poi si riverberano in ogni ganglo della società sommandosi e sovrapponendosi ad altre: quelle di genere (patriarcali), quelle di luogo (coloniali), quelle generazionali, quelle etniche (razzismo), quelle di specie (antropocentrismo) e, a ben cercare, molte altre ancora. Assurdo stabilire gerarchie di importanza tra di esse. Tutte si tengono strette e si compenetrano e concorrono a formare quel mix di contenuti oppressivi che caratterizzano la società oggi. Lo scioglimento dell’una non comporta alcuna meccanica conseguenza sulle altre. Un processo di liberazione deve proporsi di riuscire a scioglierle tutte. Tra queste quella che imprigiona il lavoro, il fare concreto, utile, cosciente, autonomo nel rapporto di produzione eteronomo, comandato dalle ragioni della crescita dei profitti e dell’accumulazione del capitale. Il capitalismo si fonda infatti su una determinata relazione tra capitale e lavoro e (nella filiera lunga, globalizzata della divisione internazionale del lavoro) tra centro e periferia, perpetua e accentua le discriminazioni e le disuguaglianze di genere. È qui che avviene quello «scambio» tra vita (quella del lavoratore e quella delle quote di natura incorporate come «fattori» di produzione) e cose, macchine e merci. È qui che il capitale riesce a compiere il miracolo metafisico della dissociazione della «materia» (corpi umani e risorse naturali) dalla sua essenza vivente in sé e per sé, intera e completa, materiale e intellettuale, costituita as a whole, ad un tempo e nel suo insieme, di «anima e corpo». Avviene così che le persone e le materie vengono ridotte alla loro forma servile, merci prive di significato, estraniate e impossessate da altri e reificate, cosificate. Il capitalismo è riuscito ad avere mano libera nell’uso del lavoro e della natura e ad usarli come combustibile del processo di produzione operando attraverso una triplice rottura e separazione: dell’individuo dal proprio lavoro (e quindi dal piacere dell’autorealizzazione) a causa della cessione ad altri del proprio tempo e del proprio «saper fare»; del rapporto sociale di cooperazione del lavoratore con gli altri individui a causa della perdita di condivisione dell’utilità sociale del frutto del proprio lavoro inteso come dono, come contributo alla cura dei bisogni degli altri; infine, del rapporto tra individui e natura a causa della loro mercificazione (forza lavoro e materie prime).
Il capitalismo è «un movimento di separazione», ha scritto John Holloway: «Il denaro diventa una cosa, invece di essere solo una relazione tra differenti creatori. Lo stato diventa una cosa, invece di essere un modo di organizzare le nostre faccende comuni. Il sesso diventa una cosa invece di essere semplicemente la molteplicità dei modi diversi con cui la gente si tocca e si mette in relazione. La natura diventa una cosa che usiamo a nostro beneficio invece di essere una interrelazione complessa delle diverse forme di vita che condividono questo pianeta. Il tempo diventa una cosa, il tempo orologio, un tempo che ci dice che domani sarà uguale a oggi…»87. Ha scritto Hirschman: «La società industriale ha teso a svuotare il lavoro dai suoi elementi affettivi ed espressivi e a renderlo una relazione puramente strumentale: si lavora per ‘produrre’ un reddito: il lavoro è così concepito unicamente come costo che si sostiene per avere un beneficio totalmente separato»88. L’economia, posseduta dal demone della crescita, si nutre di rapporti sociali e distrugge vita. Scriveva Claudio Napoleoni: «Il dominio del mercato come meccanismo impersonale ‘comporta’ la fine dell’autonomia dell’uomo e della sua soggettività (…) ne fanno l’elemento di una macchina»89. Illich si era espresso quasi con le stesse parole: «La ‘grande organizzazione’, la megamacchina delle istituzioni dominanti, ha avviato un implacabile processo di asservimento del produttore e di intossicazione del consumatore»90. Per fortuna sembra che sia impossibile imbrigliare totalmente la mente di un essere umano e ridurlo ad un automa. L’umanità di ogni individuo è irriducibile e per questa ragione (non solo e tanto per questioni di valutazione economica del prezzo della forza lavoro) la contraddizione che si genera tra capitale e lavoro risulta inconciliabile. Anche se ciò non esclude che i detentori del capitale e dei mezzi di produzione non riescano a mediare il conflitto attraverso forme di compensazione economica o altre forme di cointeressenza che garantiscano la indispensabile collaborazione del lavoratore al buon andamento dell’azienda. Alla base di ogni conflitto vi è quindi la contraddizione tra lavoro mercificato, astratto e individuo dotato di una sua inalienabile autonomia, dignità, eticità. Ha scritto Enrique Dussel: «Il problema è la contraddizione che si è aperta tra il capitale, guidato dalla razionalità del profitto e teso all’aumento del tasso di profitto, e la vita»91.
A proposito del lavoro nell’economia concepita da Gandhi, Roberto Burlando ha scritto: «Quando produce risultati positivi non solo per se stessi, il lavoro costituisce un dono di sé agli altri attraverso il proprio impegno, fatica, sacrificio. Il dono però ha valore in quanto scelta deliberata e personale e dunque il suo valore è maggiore se esso è autodiretto e se impegna le proprie migliori abilità nel servizio degli altri»92. Sul «modello del dono» e i suoi risvolti nel pensiero e nel movimento antiutilitaristico, Alfredo Salsano ha scritto che si tratta del rifiuto della «riduzione della realtà storica e sociale nei termini di quella vera e propria ‘assiomatica dell’interesse’ che, dal nucleo centrale della economia politica, si è generalizzata esplicitamente o implicitamente a tutte le scienze sociali»93. Il processo di trasformazione della società, il passaggio ad un sistema sociale ed economico più umano, passa quindi attraverso la conquista di maggiori margini e spazi di libertà, di autonomia, di autodeterminazione nel lavoro. Precisa John Holloway : «La lotta non è quella del lavoro contro il capitale, ma quella del fare (o del vivere) contro il lavoro, e pertanto contro il capitale»94.
La sottrazione di lavoro al dominio del capitale può avvenire in molti modi. Intanto facendoselo pagare di più e cedendone di meno – liberando, cioè, tempo di vita. Soprattutto riuscendo a negoziare col comando dell’impresa e ad avere voce in capitolo sulle decisioni importanti che riguardano la produzione: sicurezza, e non solo dentro i luoghi di lavoro, clausole sociali, distribuzione dei benefici, ecc.. Così facendo si mette in discussione il cuore dell’economia di mercato – notoriamente indifferente a chi siano i beneficiari finali dello sforzo produttivo – e si introducono criteri di preferenza non solo individuali (poste in capo al singolo consumatore), ma determinati da considerazioni sociali ed etiche. Si introducono differenze di valutazioni che il mercato non ha la sensibilità di cogliere: produrre un chilo di grano per un affamato è diverso che produrre una confezione di stoviglie usa e getta, anche se costi e prezzi possono essere identici. Per chi detiene il capitale – affermano gli economisti – è indifferente se il cliente richiede «formaggio o dessert»; i mercati fanno in modo che l’offerta si adegui prontamente. Sono le condizioni di vita reali delle persone che invece fanno fatica ad adeguarsi alle logiche del mercato.
9. La «farmaceutica della felicità»95
La ragione dell’egemonia culturale capitalistica è molto semplice: la soddisfazione dei nostri bisogni e dei nostri desideri (wants and needs), avviene attraverso il possesso o l’uso di beni e servizi procurabili sul mercato. Considerato che i bisogni che percepiamo sono teoricamente illimitati, viviamo permanentemente tesi al raggiungimento dell’obiettivo dell’ottenimento di una quantità di denaro sempre maggiore necessario a comprare ciò che desideriamo. Nulla meglio di una frase di chi è giustamente ritenuto il fondatore del pensiero capitalistico, Thomas Hobbes nel Leviatano, potrebbe descrivere la situazione: «La felicità è un continuo progredire del desiderio da un oggetto ad un altro, non essendo il conseguimento del primo che la via verso il seguente»96. Il consumo diventa il «fondamento dell’identità sociale degli individui»97.
Nella teoria economica classica, di stampo utilitaristico, tuttora dominante, così come nell’immaginario contemporaneo tuttora prevalente, vi è una corrispondenza diretta tra «ricchezza» e «felicità», tra abbondanza e benessere, tra prosperità economica e tenore di vita delle persone e delle popolazioni. Gli economisti illuministi del Settecento pensavano all’economia come ad «una scienza della felicità pubblica». Nella Dichiarazione di indipendenza della Virginia (1776), Thomas Jefferson introduce tra i diritti inalienabili di «tutti gli uomini»: «La vita, la libertà e il perseguimento della felicità». È ben vero che la felicità98 appartiene alla sfera degli «stati dell’anima», dei beni soggettivi, interiori, sentimentali, volubili e relativi, e che l’economia («scienza triste» per definizione, incapace di considerare tutto ciò che non è misurabile con la calcolatrice) si dovrebbe limitare ad occuparsi dei beni materiali, oggettivamente rilevabili e quantificabili, ma è altrettanto vero (almeno nel senso comune e nell’esperienza quotidiana della vita) che il disporre di denaro (e quindi poter accedere al mercato delle merci) rappresenta una delle principali condizioni per raggiungere la felicità individuale e collettiva. Ricordate Woody Allen? «Il denaro non fa la felicità, figuriamoci la miseria!». Si tratta di considerazioni assolutamente banali. In altri termini, se vogliamo vivere dobbiamo essere solvibili sul mercato. Chi non ce la fa è un fallito. E se ne deve vergognare. Nulla ci è dato gratuitamente o dovuto per spontanea solidarietà. Le necessità di un individuo possono essere ordinate secondo scale di priorità: la salute, l’accesso al cibo, la disponibilità di un alloggio, la sicurezza, l’autostima, gli affetti, l’amore… Alcune soglie di bisogni «primari» (basic needs, secondo la distinzione praticata da Keynes99) costituiscono le condizioni minime della sopravvivenza dell’individuo e della riproduzione della specie. Superate le quali i bisogni si fanno «relativi», «nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci fa sentire superiori ai nostri simili», ci dice sempre Keynes. Oggi li definiremmo bisogni indotti e beni di status (positional goods). E qui il discorso si fa più complicato. Come dice Pietro Barcellona: «I bisogni sono sempre socialmente determinati», Marc Augé conferma: «Ogni società trasmette agli individui un modello di felicità»100. Per Illich nel cittadino-consumatore-cliente avviene una «imputazione di bisogni e desideri». Ovvero, c’è una «natura sociale» della felicità, ogni individuo viene mosso non solo da necessità, ma da aspirazioni che desume dall’ambiente sociale che gli è intorno e dal cui raggiungimento dipende il suo senso particolare, storicamente e culturalmente determinato, di appagamento, di benessere materiale e spirituale. Scrive Luigi Bruno: «Nelle anonime società contemporanee i beni di consumo restano quasi gli unici mezzi per dire chi siamo e per collocarci socialmente (…) I beni sono i simboli. Noi, una volta soddisfatti i bisogni di primissima necessità, non consumiamo perché ci interessano i beni in sé, ma perché essi ci rimandano a qualcosa d’altro. Sotto il loro involucro normalmente si nascondono persone, rapporti umani»101.
In una società orientata e finalizzata al consumo, il possesso di denaro (o l’accesso al credito) condiziona pesantemente la serenità, la socialità, l’agio complessivo della vita di ogni individuo. Nella misura in cui il meccanismo di mercato pervade ogni ambito delle attività umane e trasforma in prodotti/merci beni che prima erano regolati da logiche diverse di creazione e fruizione non mercantile, nell’ambito di azioni lavorative libere e di prestazioni gratuite e reciproche, è evidente che il peso del denaro assume centralità crescente, fino a diventare totalizzante. Nasce così l’idea che si possa raggiungere il benessere, la serenità, il successo, il piacere, la soddisfazione, la felicità nell’appagamento del montante dei desideri/bisogni che un individuo riesce ad immaginare. L’«homo felix» viene a coincidere con l’«homo consumericus». È l’apoteosi dell’economia classica liberista di mercato che presuppone che ogni individuo agendo razionalmente (egoisticamente) per massimizzare il proprio tornaconto personale fa aumentare ricchezza e benessere dell’intera collettività. Trionfa l’equazione: maggiore produttività = maggiori redditi = maggiori consumi. L’interesse economico di ogni individuo in termini di accumulazione di denaro e di beni coincide con il bene generale della società. Tutti ricchi e tutti felici. Peccato che il convoglio dell’umanità durante il viaggio della vita si sgrani e gli ultimi si disperdano. È una competizione darwiniana, «naturale», cioè inevitabile, al massimo mitigabile dalla compassione dei vincitori, dal samaritanesimo degli affermati. La società del rischio102 e della competizione è un crudele gioco ad eliminazione Non è un caso che il modello di vita che passa per la maggiore nei programmi di svago sia il gioco d’azzardo.
10. Psicopatologia del consumo compulsivo
Nella società della crescita i consumi sono finalizzati ad aumentare la domanda delle merci. Conseguentemente all’aumento del lavoro necessario e delle materie prime impiegate nella produzione. La libertà del consumatore si esercita nel campo delle preferenze di acquisto. La libertà del produttore si riduce a rifornire il mercato. I cerchi concentrici dei mercati sono auto-accrescitivi, chiusi e stringenti, tendenti a occupare ogni spazio. Nella società di crescita non è data reversibilità, non è consentito di impegnare altrimenti quote parti dei beni disponibili se non come risorse per incrementare i mercati. Nemmeno quelle eccedenti o avanzanti, nemmeno quelle che eventualmente sopravanzano la domanda, tantomeno il surplus. Nulla deve essere «sprecato». Tutto deve essere utilizzato e reso produttivo. Ogni goccia di energia, ogni atomo di materia, ogni respiro in ogni momento del giorno e della notte deve essere messo a valore, deve creare «valore aggiunto». Tremenda espressione che è entrata nel lessico comune. Siamo giunti a misurare il rendimento di uno studente con «crediti» e «debiti».
Il postulato antropologico che sta sotto a questo modo di ragionare è molto semplice: ogni individuo è considerato un «essere desiderante» che spende la sua esistenza alla ricerca dello «stare sempre meglio». In molti hanno notato che «le teorie economiche dominanti hanno preso come riferimento una personalità umana basata sull’avidità e sull’invidia»103. Il «tipo umano» assunto ad ideale dal liberismo è colui che bada più di ogni cosa al proprio tornaconto personale ed è mosso da un illimitato desiderio di «volere sempre di più» per sé. L’«homo oeconomicus» non vuole nient’altro che massimizzare l’utile economico. Il dogma liberista dice che la somma degli interessi individuali, nel gioco del libero mercato, conduce ad una crescita di utilità per tutti gli individui della società. L’azienda capitalistica, anonima e impersonale, diviene lo strumento che meglio d’ogni altro ottiene lo scopo prefisso: incrementare lo sfruttamento dei fattori produttivi. Peccato che questa trasposizione meccanica dall’individuo alla nazione e al mondo non produca i risultati auspicati. Le evidenze empiriche dimostrano che gli squilibri aumentano (anche in presenza di politiche correttive) tra persone, tra gruppi sociali e tra luoghi geografici. Concentrazioni di capitale ed esclusioni si susseguono. Da qui la perdita del senso dei limiti. Non solo, l’utilitarismo e l’antagonismo conducono alla rivalità e alla «competitività guerriera»104. Ma dove sta scritto che la «natura umana» sia più competitiva che fiduciaria, più antagonista che cooperativa, più individualista che sociale? Chi l’ha detto che nell’essere umano debba prevalere la razionalità economica sulla «razionalità sensibile» e la ragione utilitaristica sulla «ragione cordiale», l’etica della conquista sull’«etica della cura, sul rispetto dell’altro, l’obbligo a non invadere il suo spazio e di non dominarlo»105? Se è vero, come sembra, che l’essere umano è capace di essere angelo e/o demone, aperto al bene come al male, di per sé né buono né cattivo106, perché allora l’economia politica del capitalismo preferisce incentivare il suo lato peggiore? Oltre il livello utilitario c’è un livello etico, valoriale. Il possesso di beni e l’accesso a servizi dovrebbero essere solo dei mezzi attraverso cui immaginare di realizzare il nostro scopo esistenziale, il fine ultimo di stato di benessere, eudaimonia. Ma nella società dominata dall’imperativo della crescita, la produzione e il possesso di merci sono una rincorsa senza fine. Ogni conquista si rivela subito effimera, immediatamente obsoleta. All’opposto di re Mida, la maledizione che colpisce il consumatore è quella di trasformare in rifiuto ogni merce che riesce a possedere. Il tempo che ci mette una merce a percorrere il percorso tra lo scaffale del negozio e il bidone delle immondizie è sempre minore. L’obsolescenza programmata è l’arma principale del capitalismo per aumentare la circolazione del denaro.
Alberto Moravia ha scritto uno splendido dialogo sul consumo107:
«A) Dico che il consumatore è un budello. Cioè un individuo simile a quegli organismi semplicissimi che hanno soltanto la bocca, l’intestino e l’ano. (…) Produttore e consumatore stanno a rappresentare l’uno l’estremità anteriore, l’altro l’estremità posteriore del già citato lombrico (…) Diciamo pure che il fine della civiltà moderna è il consumo cioè lo sterco.
B) Lo sterco?
A) Lo sterco. Cioè l’espulsione dal corpo di tutto ciò che rimane dopo la digestione. La civiltà del consumo è stercoraria. La quantità dello sterco emesso dal consumatore è in effetti la prova migliore che il consumatore ha consumato».
Alla fine del ciclo di vita delle merci non rimane «niente per sé», solo un cumulo di rifiuti. Per la precisione 600 Kg per persona all’anno in media in Europa, 750 negli Usa. Questo in un mondo dove cominciano a mancare le materie prime.
Il consumatore è quindi in stato ansiogeno. Ha scritto Bauman: «La società dei consumi si fonda sull’insoddisfazione permanente cioè sull’infelicità»108. Non ci si libera mai dai bisogni. Poiché è il mercato che li rifornisce e in misura sempre superiore alle capacità di spesa del consumatore. Ha scritto Kempf : «La classe dominante che si mantiene al vertice della struttura sociale, stabilisce la scala dei valori, e il suo livello di vita fissa ciò che viene considerato onorevole per tutta la società»109. La natura competitiva umana è anch’essa un prodotto storico-culturale. Nella rincorsa senza fine della emulazione voluttuaria, il concetto di sazietà sparisce e rimane la condanna all’insoddisfazione, poiché la stragrande maggioranza delle persone non potrà mai raggiungere redditi paragonabili a quelli delle caste superiori, fino a quella dei mega-ricchi. Mica tutti possono pretendere di avere uno yacht, si può cominciare affittando un pattino. L’aumento dei redditi e delle capacita tecnologiche invece che liberare energie (tempo, risorse) individuali e collettive verso usi genuinamente autonomi, non predefiniti e prefinalizzati, lega sempre più strettamente i comportamenti degli individui alle esigenze della riproduzione e all’allargamento del mercato. Costringere gli individui dentro un «angusto egoismo» (Benjamin) provoca «l’isolamento di ciascuno nel suo interesse personale», lo desocializza e disumanizza costringendolo ad affrontare un conflitto permanente con i suoi simili, aumenta l’insicurezza, il disagio, lo stress, le ansie, le paure… rende infelici. Il consumo, alla fine, si risolve nel contrario della sua promessa: una attività solitaria, un surrogato alla depressione, una compensazione per le deprivazioni subite. La costrizione di ogni individuo dentro lo schema produttore/consumatore eterodiretto è causa di perdita di serenità mentale, desolazione psichica e di comportamenti patologici, come lo sono il gioco d’azzardo, l’uso di sostanze stupefacenti, la sessualità abnorme, il consumo compulsivo, abulico. Pratiche di stordimento, tentativi di anestetizzare una angoscia che nasce da un vuoto di senso esistenziale, dalla cancellazione di ogni pensiero e attività non strumentali e istituzionalizzati. C’è però anche un altro modo di guardare al consumo. Secondo Massimo Ilardi e altri che dicono di ricondursi alla critica antiutilitarstica di Georges Bataille, secondo cui «il potere supremo è la libertà di sprecare»110, nella società dell’iperconsumo il desiderio che spinge ad acquistare merci va oltre ogni necessità e investe incontrollabili passionalità estetiche, edonistiche, affettive, ludiche, relazionali, sensoriali, sentimentali… del tutto inconciliabili con le compatibilità del mercato. Il consumatore, quindi, non sarebbe passivo, ma capace di sviluppare una «conflittualità permanente che ha il mercato come nemico»111, contro e oltre le sue regole, una lotta per la «riappropriazione delle merci».
11. Crescita paradossale
Accade che a un certo punto della storia (società dell’iperconsumo, ultimo stadio della affluent society) salti lo schema deterministico che lega produttività economica e benessere. Un economista e demografo formula questa ipotesi già nel 1973 e viene chiamata: «Paradosso di Richard Easterlin». Come scrive Luca De Biase: «oltre un certo limite non c’è felicità nella crescita economica»112. Ovvero: la crescita economica, nel senso di un aumento della massa di beni materiali a disposizione delle popolazioni, si disaccoppia dalla crescita del benessere nella percezione degli stessi beneficiari, consumatori, utenti. Si genera un effetto «paradossale» (Lipovetsky), che Illich aveva già definito come «controproduttivo». Si può dire semplicemente che il gioco non vale la candela, che gli effetti negativi dello sforzo produttivo (consumo di risorse umane e naturali) compiuto dall’individuo e/o dalla collettività, supera i benefici attesi. Se per ottenere ciò che voglio devo sacrificare sonno, salute fisica e mentale, relazioni affettive, dissipare il patrimonio lungamente accumulato… la mia «qualità di vita» diminuisce anziché aumentare. Queste scoperte (a dire il vero assai banali e intuitive) hanno messo gli economisti tradizionali, macroeconomici, in seria difficoltà. Se questo permanente sforzo produttivo non centra l’obiettivo del maggiore benessere individuale, che senso ha compierlo? Scrive Lipovetsky: «La convinzione moderna secondo cui l’abbondanza è la condizione necessaria e sufficiente per la felicità dell’umanità non è più ovvia. (…) Produciamo e consumiamo di più, ma non per questo siamo più felici»113.
Tanto sconvolgente è questa scoperta, da divenire materia di studio specifico. Nasce una sottodisciplina delle scienze economiche politiche che si chiama «Economia della felicità». Daniel Kahneman114, psicologo di formazione, ottiene con i suoi studi su questa tematica un premio Nobel per l’economia nel 2002. Vi è anche una rivista, il «Journal of Happiness Studies», che si interroga sulle relazioni tra crescita economica e condizioni psicologiche (comportamenti emotivi, stati d’animo, percezioni, preferenze…) degli attori economici e principalmente dell’utente finale, il consumatore. Per fare ciò gli economisti si avvalgono dei metodi di indagine della psicologia (inchieste demoscopiche, interviste, monitoraggi…) per tentare di caratterizzare, misurare e contabilizzare le interrelazioni tra tenore di vita e felicità. Come disse Illich: «Fatti complessi vengono trasformati in quanta astratti accumulabili, equiparabili e interscambiabili»115. Nascono e proliferano indicatori econometrici del benessere più evoluti del mero Pil (fino all’Indice di felicità nazionale: Gnh). Nicolas Sarkozy ha chiamato alla sua corte economisti del calibro di Amartya Sen e Joseph Stiglitz per elaborare proposte di modifica della contabilità nazionale. Sui giornali vengono pubblicate classifiche e comparazioni tra nazioni, aree geografiche, gruppi sociali… da cui si ricava, ad esempio, che le donne filippine sono le più felici, mentre in Europa i più felici sono i danesi; in Veneto i veronesi; nel mondo gli abitanti delle isole Vanuatu, nel Mar dei Coralli, arcipelago tra Papua e le Figi. In nome dell’«economia della felicità» si compiono esercizi temerari, come quello dell’Università di Warwick (Usa) sul calcolo delle compensazioni: 100mila dollari per la mancanza di un buon matrimonio; 245 mila per la vedovanza; 60 mila per la perdita di un lavoro… In definitiva gli economisti della felicità (così come fanno gli economisti dell’ambiente naturale quando tentano di calcolare il prezzo dei servizi che la natura fornisce gratuitamente) si sforzano di dare un valore monetario corrispondente ai diversi fattori di benessere e felicità, in modo da poter «apprezzare» maggiormente alcuni aspetti che il mercato da solo (nel gioco tra domanda e offerta) non riesce a stimare. L’economia tenta di fare i conti con l’edonismo, il piacere, la gioia, il gioco, l’evasione, l’amore… la felicità pubblica e privata. E lo fa dentro i suoi canoni: tentando di mercificare anche i beni relazionali. L’economia di mercato di stampo liberista ha una logica intrinseca: la crescita, la creazione di profitto, l’accumulazione. Essa è servita a produrre e consumare un numero di beni/merci sempre più grande (seguendo la massima: «il più è sempre meglio»).
12. Avere vs. Essere
Abbiamo visto che i riscontri empirici non confermano la teoria dell’equivalenza redditi-consumi-felicità. A causa di due errori. Uno deriva dall’interno del meccanismo stesso di funzionamento del modello, l’altro dalla valutazione dei connotati fondamentali della natura dell’essere umano. Il primo errore degli economisti – che abbiamo già analizzato nei paragrafi precedenti – è stato quello di non rendersi conto che la corsa all’avere genera un desiderio incontenibile, uno stato
di insoddisfazione permanente, una ricorsa senza fine, una libido consumandi, «una esigenza compulsava, una dipendenza»116. Ha scritto John Mac Murtry: «L’istinto di massimizzazione del proprio tornaconto personale è da considerarsi psicopatico»117. Avere di più in una società desertificata di relazioni sociali e qualità ambientali è un gioco a somma negativa. L’altro errore è più di fondo. Insegnava Eric Fromm118: si è felici, non si ha la felicità. Contrariamente alle credenze più in voga, non tutto può essere ridotto a merce di scambio, monetizzato, comprato, accumulato, consumato. I bisogni, abbiamo visto, sono determinati da meccanismi sociali e psicologici complessi, ma non tutti sono soddisfabili dalla sola disponibilità economica, dalla individuale capacità di spesa. Non è affatto vero che tutto sia comprabile: quale agenzia ti assicura una amicizia? Dov’è il negozio che vende affetti? Quale agenzia interinale somministra lavori piacevoli? Quale immobiliarista vende paesaggi e profumi dei propri ricordi? Quale fast food cucina sapori? In quale sito internet trovi vero conforto? L’essere umano ha infiniti interessi e tenderebbe a passare il suo tempo cercando nel mondo significati e verità. Alcune condizioni dell’esistenza umana (come lo sono: sentirsi in pace con se stessi e con il prossimo, intrattenere buone relazioni umane, condividere la fiducia nel futuro, sentirsi utili, avere autostima, ecc.) e che sono poste lungo la linea terra-cuore-cielo, hanno bisogno di condizioni mentali, d’ordine psicofisico, particolari119. Vogliamo una controprova altrimenti inspiegabile dalle leggi del mercato? Anche i poveri sanno essere felici! Il quesito che si pone è quindi questo: se le merci non sono più percepite come utili al benessere e alla felicità delle persone, ha ancora un senso sociale l’economia di mercato? Ha senso continuare a far crescere produzioni e consumi per chi ha le «dispense piene»120, nell’epoca, cioè, in cui la strumentazione tecnico-scientifica a disposizione dell’economia è teoricamente in grado di soddisfare ogni bisogno primario di ogni individuo esistente sulla faccia della Terra? Non sarebbe più logico e sensato porre l’accento su altri obiettivi, quali l’equa distribuzione delle risorse e la sostenibilità ecologica del sistema produttivo?
Per questi nuovi obiettivi di civiltà servirebbe mettere in gioco un’idea di felicità diversa da quella che si è affermata nell’immaginario collettivo consumistico prevalente. Su un’idea di «soddisfazioni nella vita» che discendano da stili e comportamenti meno egoistici, competitivi, e avidi ed invece più comunitari, relazionali, cooperativi, gratuiti, spontanei, genuini, conviviali… È possibile allora pensare di poter rovesciare la promessa (disattesa) liberale iscritta nella Costituzione di Jefferson in un diritto da conquistare. Ripulire l’idea di felicità dal fardello consumistico che l’ha avvolta e soffocata. La felicità è dentro di sé e con l’altro da sé. La si raggiunge solo uscendo dalle logiche m mercatiste. La felicità si realizza sicuramente nella sfera di ciascun individuo, ma richiede considerazioni sociali di benessere incompatibili con la logica della valorizzazione del capitale. Conquistare spazi di felicità è la sfida. La vera libertà di un individuo non è quella che si esprime nelle preferenze di acquisto, ma nel riuscire a sottrarre risorse e tempo ai meccanismi del mercato e a «tenerle per sé», a esclusivo vantaggio della realizzazione della propria personalità, cioè a dare un senso profondo alla fatica di vivere. Amare, leggere, dipingere, andare in barca a vela, cantare… Così come lavorare ricavando piacere per sé e donando utilità per gli altri, occuparsi della cura dei propri simili e della manutenzione del proprio habitat. Ina Praetorius, fondatrice in Svizzera di un gruppo di riflessione sull’economia a partire dalla competenza femminile, ha detto in una conferenza: «Comunque esistono, e sono sempre esistiti, molti uomini e donne che avevano capito che questa bipartizione (su basi sessiste che è il nocciolo del capitalismo) era una fantasia senza futuro. Loro si riconoscono dal fatto che non si fanno dettare il loro stile di vita dalle riviste di moda. Per esempio, a loro piace cucinare e stare seduti nel parco (…) spesso non hanno assicurazioni sulla vita e non hanno fatto carriera e non sanno molto dell’andamento della borsa, la loro agenda non è fitta di appuntamenti e forse non hanno visto tutti i continenti del globo. Talvolta scrivono una poesia mentre puliscono il bagno (…) Sono a favore di un reddito di base per tutti perché sono convinti che la maggior parte delle persone vuole impegnarsi in cose sensate anche senza obbligo, o forse proprio perché non esiste un obbligo, per esempio ascoltare i loro figli o piantare delle verdure. Le cose che non nuocciono a nessuno sono la loro occupazione preferita»121.
13. Decrescita & nonviolenza
Decrescita e nonviolenza sono due concetti e due pratiche intrecciate, complementari come lo sono l’acido nitrico e la glicerina per la dinamite! Decrescita e nonviolenza vanno concepiti come pilastri di uno stesso organismo sociale. La decrescita è l’economia della nonviolenza e la nonviolenza attiva è il metodo con cui agire le nuove forme economiche improntate alla decrescita. Decrescita e nonviolenza si possono tradurre con economia locale, solidale, partecipata, autocentrata e autosostenibile122. La lotta nonviolenta non è usabile se non per affermare l’autogoverno delle comunità, così come, all’inverso, l’autodeterminazione degli oppressi non è realizzabile se non attraverso lotte nonviolente. Esattamente come il termine nonviolenza non ha solo un significato negativo/passivo – assenza di violenza – (Gandhi traduceva in inglese il termine ahimsa con love o carity), così la decrescita è qualcosa di molto diverso della semplice negazione della crescita (la a-crescita, con la «a» privativa, come per significare una neutrale indifferenza al fenomeno della crescita). Decrescita non intende banalmente evocare un sistema economico estraneo all’accumulazione dei profitti e della moltiplicazione industriale delle merci, ma può essere definita come «l’espressione pratica e il comportamento concreto di una visione positiva e creativa della vita»123. Essa ambisce a rifondare un’idea di economia come cura della cosa comune, al servizio di una società in cui i bisogni e i desideri delle persone possano essere meglio soddisfatti tramite sistemi di produzione e di scambio diversamente connotati da un punto di vista qualitativo. La decrescita, quindi, ci costringe a riconcettualizzare l’idea di benessere (così come quella di economia, non identificandola con quella di crescita), ed è attigua a quella di economia solidale, relazionale, dei beni comuni e dell’eco e del bio-regionalismo. La radicalità del pensiero della decrescita non investe solo le scienze economiche, ma attacca i fondamenti teorici del moderno progetto di sviluppo occidentale: l’andro e l’antropocentrismo, il patriarcato e il maschilismo, il dominio del riduzionismo scientista, le forme gerarchiche, competitive e colonialiste del potere. La decrescita non è una questione (solo) di misura («La decrescita della crescita quantitativa del capitale», come dice Dussel124), ma di mutamento dei paradigmi mentali, oltre che sociali e politici, con cui affrontare la vita. Nella società capitalistica la quantità fa esattamente la qualità; separarle è impossibile. Il capitalismo è il regno delle quantità. Ciò che non è misurabile con i suoi strumenti non esiste; il più è sempre il meglio : bigger is better. Al massimo si possono abbellire le quantità con aggettivazioni varie per far apparire gli stocks delle merci immesse nel mercato ecosostenibili, socialmente utili, umanamente apprezzabili, smaltibili biologicamente e persino certificabili eticamente («capitale di reputazione», lo chiamano125), ma sempre a patto che vengano prodotte e consumate in misura crescente e che vi siano abbastanza utili da reinvestire per riprodurre e allargare il giro di affari del sistema. Per questo motivo la teoria/pratica della decrescita mira a destrutturare il meccanismo economico fondante della riproduzione capitalistica. Negando la quantità come unico parametro di riferimento dell’economia – e l’economia come unico parametro di riferimento della politica – la decrescita qualifica in modo totalmente diverso l’oggetto fondativo della società, rovescia il senso generale dello sforzo lavorativo individuale e collettivo, evoca modalità di socializzazione, di produzione e di consumo del tutto diverse da quelle che si instaurano nei rapporti mercantili. Rimanendo nel parallelismo con la nonviolenza, potremmo dire che: così come la pace non può essere concepita semplicemente come assenza di guerra, di violenza fisica direttamente esercitata, la decrescita non è nemmeno solo acquisizione del principio del limite e della sostenibilità ecologica, calcolo della carrying capacity, riduzione della impronta ecologica. La decrescita, infatti, nelle intenzioni dei suoi promotori126, non è «crescita negativa» e nemmeno solo eliminazione del controproducente e del superfluo. Non è una cura dimagrante, ma un cambio degli stili di vita. Non è un modo di correggere gli «indicatori di sviluppo», depurando il Pil127 da quelle voci di spesa (esternalità negative, costi ambientali, danneggiamenti, ecc.) che nessuno vorrebbe in cuor suo sostenere, quali i costi di congestione nei trasporti, la depurazione delle acque e il disinquinamento dei suoli, le cure sanitarie da malattie ambientali e da incidenti stradali128, gli interventi di adattamento ai cambiamenti climatici, l’assistenza alle popolazioni colpite da dissesti idrogeologici, soccorso alle popolazioni colpite da guerra, ecc…Gli stessi, necessari, percorsi di rientro della pressione antropica dentro parametri di sostenibilità della biosfera si attueranno da sé, spontaneamente, se l’umanità riuscirà a far propria un’etica del vivere in comunanza tra simili e nella salvaguardia dei beni comuni naturali129. «Far pace con il pianeta»130 è il titolo del libro di Barry Commoner giunto in Italia grazie a Giorgio Nebbia e Virginio Bettini. Già allora l’ambientalismo era consapevole che sarebbe stato necessario trovare una «guida sociale» alla produzione e all’economia per trovare un equilibrio possibile tra ecosfera e tecnosfera.
La decrescita ci chiede oggi di riuscire ad immaginare di vivere più spontaneamente senza dover calcolare il tornaconto del proprio fare. Si tratta di un vero capovolgimento dell’idea che attribuisce la felicità all’avere. La decrescita è la speranza di poter essere felici proprio perché liberati dall’ossessione compulsiva consumistica, dalla bramosia del possesso, dalla vanità egoistica, dalla competizione permanente, dal lavoro necessitato. La decrescita è una freccia di direzione che diamo alla nostra vita individuale e, allo stesso tempo, un programma costruttivo, una modalità di azione collettiva, politica. Una ricerca che appare ancora più urgente oggi a fronte del palese fallimento delle promesse di benessere universale del liberismo, in presenza degli effetti negativi della globalizzazione neoliberista sia nelle aree dei paesi poveri, sia in quelle dei paesi emergenti, sia in quelle dei paesi maturi e opulenti. Alcuni autori hanno preferito chiamare questa stessa idea di società con altri termini: sobrietà (Francuccio Gesualdi131, fondatore del Centro per un altro modello di sviluppo) o semplicità volontaria, attingendo direttamente a Gandhi, Maurizio Pallante preferisce aggettivare la decrescita con la parola felice133. Altri con gioiosa, serena, sostenibile, equa, deliberata, volontaria, democratica…134. Rileggendo André Gorz135 e Murray Bookchin136, decrescita potrebbe essere tradotta con «ecosocialismo» o «società ecologica». Altri termini possono essere usati, l’importante è capire cosa si vuole intendere. Comunque aggettivato, decrescita è un termine che continua ad essere ostico e osteggiato. Dà fastidio proprio perché rompe modi abitudinari di pensare obbligandoci a guardare le cose da un altro punto di vista. Ma la decrescita non è nemmeno banalizzabile a mera provocazione intellettuale, uno slogan, una «parola bomba» gettata lì per stupire gli interlocutori, una frase pubblicitaria per creare sensi di colpa ai borghesi sovra-peso o per scioccare una sinistra incapace di uscire da una logica sviluppista e redistributiva. La società della decrescita immagina un’altra antropologia, parla di comportamenti, atteggiamenti e di stili di vita, esplicita un concetto, una «utopia concreta» di cambiamento del modello sociale e un «programma politico» per la trasformazione della realtà. Una progressiva modificazione dei valori sociali predominanti. Ha affermato Nanni Salio che le economie alternative dovrebbero riuscire ad allargare l’orizzonte del tipo umano ideale «passando man mano da un sé strettamente individuale verso un sé transpersonale, che abbracci via via una quantità di esseri viventi (…) verso una concezione di una famiglia umana allargata nella quale ci sia posto per tutti»137. Gandhi infatti pensava a stili di vita generalizzabili, condivisibili da tutti su scala planetaria: «Vivere semplicemente, perché tutti possano semplicemente vivere».
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14. La via e la meta
«La natura autoaccrescitiva del processo di accumulazione» nel sistema capitalista, come scrive Mauro Bonaiuti138, determina il funzionamento della «metamacchina», cioè dell’intero sistema economico globalizzato. I suoi meccanismi di creazione di valore monetario delle merci e di accumulazione del capitale non sono semplici mezzi tecnici, ma il fine stesso dell’intero sforzo produttivo sociale. I mezzi di produzione non sono strumenti posti al servizio del lavoro, ma esattamente il contrario: è il lavoro che è sottomesso al servizio degli apparati tecnologici, organizzativi, sociali che il capitale si è creato. Come avviene per i desideri dell’individuo-consumantore, incanalati dentro i dispositivi consumistici. Gli stessi sistemi di misura del funzionamento del sistema (il Pil, principalmente, e gli altri indici di produttività del lavoro e della finanza) non sono affatto strumenti neutri, ma orientati ad uno scopo esclusivo. Per lungo tempo, nella tradizione politica di sinistra del movimento operaio, si è pensato che bastasse cambiare il comando della «metamacchina», i dispositivi e i voleri del potere, per riorientare a nuove, positive finalità l’economia, la tecnologia, le istituzioni sociali e – alla fine – le stesse caratteristiche antropologiche dell’uomo e della donna140. L’idea era quella di poter usare l’immensa potenza produttiva messa in moto dal capitalismo per scopi diversi da quelli per cui è stata creata. Tecnologia e istituzioni statali sono state credute neutre e pensate al servizio di una volontà ordinatrice diversa e di livello di comando superiore, politico e istituzionale. Basterebbe, cioè, mettere l’economia sotto controllo/comando politico/statale per indirizzarla in termini socialmente utili. Peccato che nè l’economia di mercato, nè gli stati nazionali siano strumenti che si lasciano utilizzare per qualsiasi fine. Come si sa, si è trattato di un errore fatale, tanto nei suoi esiti rivoluzionari, quanto in quelli socialdemocratici. La presa con mezzi cruenti o elettorali del «palazzo d’inverno» o della «stanza dei bottoni» ha fagocitato le migliori intenzioni. Il governo del potere pubblico è il luogo dove le élites al potere mettono in azione i dispositivi di controllo e comando di matrice statale sulle classi subalterne. Scriveva Gramsci: «Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio, non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati» (Quaderno 15). Lo stato è una forma di dominazione. La statolatria è la forma in cui si manifesta la dipendenza al dominio. Lo stato, quindi, non va usato, ma neutralizzato il più possibile. Disarticolato, disperso141, dissolto142. Potremmo continuare usando molti altri verbi come: disconoscere, decostruire, cedere, decentrare, abbassare, distribuire… affinché possano affermarsi forme di soggettività dirette di autogoverno, di democrazia nei territori e nella vita lavorativa. Insomma, sviluppare «l’arte di non essere governati» da chicchessia143. Con parole efficaci, in un discorso tenuto la scorsa estate, il subcomandante Marcos ha spiegato l’«effetto stomaco del potere: o ti digerisce o ti trasforma in merda». E ha aggiunto: «Non cerchiamo la presa del potere, pensiamo che le cose si costruiscono dal basso (…) Perché il potere non ti fa entrare gratis. Il potere è un club esclusivo e bisogna avere determinati a nuove, positive finalità l’economia, la tecnologia, le istituzioni sociali e – alla fine – le stesse caratteristiche antropologiche dell’uomo e della donna140. L’idea era quella di poter usare l’immensa potenza produttiva messa in moto dal capitalismo per scopi diversi da quelli per cui è stata creata. Tecnologia e istituzioni statali sono state credute neutre e pensate al servizio di una volontà ordinatrice diversa e di livello di comando superiore, politico e istituzionale. Basterebbe, cioè, mettere l’economia sotto controllo/comando politico/statale per indirizzarla in termini socialmente utili. Peccato che nè l’economia di mercato, nè gli stati nazionali siano strumenti che si lasciano utilizzare per qualsiasi fine. Come si sa, si è trattato di un errore fatale, tanto nei suoi esiti rivoluzionari, quanto in quelli socialdemocratici. La presa con mezzi cruenti o elettorali del «palazzo d’inverno» o della «stanza dei bottoni» ha fagocitato le migliori intenzioni. Il governo del potere pubblico è il luogo dove le élites al potere mettono in azione i dispositivi di controllo e comando di matrice statale sulle classi subalterne. Scriveva Gramsci: «Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio, non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati» (Quaderno 15). Lo stato è una forma di dominazione. La statolatria è la forma in cui si manifesta la dipendenza al dominio. Lo stato, quindi, non va usato, ma neutralizzato il più possibile. Disarticolato, disperso141, dissolto142. Potremmo continuare usando molti altri verbi come: disconoscere, decostruire, cedere, decentrare, abbassare, distribuire… affinché possano affermarsi forme di soggettività dirette di autogoverno, di democrazia nei territori e nella vita lavorativa. Insomma, sviluppare «l’arte di non essere governati» da chicchessia143. Con parole efficaci, in un discorso tenuto la scorsa estate, il subcomandante Marcos ha spiegato l’«effetto stomaco del potere: o ti digerisce o ti trasforma in merda». E ha aggiunto: «Non cerchiamo la presa del potere, pensiamo che le cose si costruiscono dal basso (…) Perché il potere non ti fa entrare gratis. Il potere è un club esclusivo e bisogna avere determinati dal principio femminile della cura e della manutenzione. Rifiutare l’immoralità dello spreco. Pensare che la via giusta per vivere bene (good life) sia vivere con meno. Passare dall’eccesso alla sufficienza. Uscire dal mito della crescita infinita come stato dell’eterna fanciullezza. Non possiamo più andare dal pediatra! Siamo diventati esseri viventi adulti, maturi e consapevoli. Dobbiamo pensare al nostro mantenimento, a mantenere più a lungo possibile le nostre funzioni vitali. A prenderci cura di noi stessi, dei nostri figli e nipoti. È giunto il momento di mettere da parte le spavalderie e i deliri di onnipotenza adolescenziale. Non ci sono più «praterie vergini» da conquistare, «nuove frontiere» da varcare. Abbiamo scoperto tutto quello che ci serve, siamo diventati intelligentissimi e potentissimi. Abbiamo a disposizione saperi e tecnologie in grado di distruggere in pochi minuti il pianeta tre, quattro volte di seguito, oppure per risolvere tutti i problemi primari che angosciano i suoi abitanti. Basta volerlo. Insomma, la società della decrescita prefigura modelli di organizzazione sociale più aperti e ricchi, diversificati e complessi. Esattamente il contrario di una società stagnante e rigida, come è l’attuale, ridotta ad una unica dimensione e ad un unico modo di produzione e di pensare. Un processo evolutivo che si rifà a ciò che avviene in natura con l’evoluzione «auto-catalitica», come dicono i biologi che studiano la capacità antientropica, insita nella materia, di autoorganizzarsi, di evolvere da forme primordiali a forme sempre più complesse. La «legge dell’organizzazione» che regola l’evoluzione della materia, dal caos alle strutture più ordinate, è l’opposto della catagenesi, che avviene quando una specie sottoposta a stress esterni sopravvive regredendo verso strutture meno complesse delle precedenti. Se è vero – come giustamente afferma Giorgio Ruffolo – che «la specie umana è capace di ampliare i limiti che la natura le ha assegnato», questa possibilità le è data solo se saprà sostenere «la complessità biogenetica (che) limita il flusso dell’entropia con freni e bilanciamenti»151, come scrive James Howard Kunstler152. Da non confondere con «quella che consideriamo la complessità artificiale prodotta dall’uomo (la tecnologia, la tecnosfera) che è, paradossalmente un processo di semplificazione che accelera i flussi eliminando le differenze». La idea della società della decrescita è un processo sociale, nient’affatto conservatore, infarcito di miti premoderni153, ma proiettato contro e oltre i palesi fallimenti di questa modernizzazione senza futuro, senza equità e senza qualità, contronatura e asociale, distruttiva delle stesse basi di sostentamento della specie umana. Tutto ciò sul piano del pensiero teorico. La sfida politica che si propone ora, nel bel mezzo di una recessione economica più grave di quella del ’29, è se la decrescita può essere proposta subito come una buona pratica utile ad evitare i colpi della crisi sui ceti popolari meno protetti. Vivere senza soldi in una società che venera il denaro sembra un’impresa impossibile. Più che un sogno, un incubo che evoca l’autarchia, l’economia di guerra, il mercato nero, la tessera annonaria (com’è la «card» che il ministro liberista pentito Giulio Tremonti sta distribuendo ai poveri). Oppure si può immaginare di trasformare la resistenza alla crisi – «non vogliamo pagare noi la vostra crisi», come grida l’Onda degli studenti – in una «scuola di autonomia», rubando a Ferruccio Nilia il titolo del suo progetto di Res154.
Si possono immaginare comunità di individui che cominciano a dare vita ad economie «sostanziali» (direbbe Polanyi), cioè reali, autocentrate sulle effettive necessità dei fruitori e sulle reali disponibilità produttive esistenti nei territori. Capaci di garantire un minimo di autonomia economica e di sovranità politica; sganciandosi così dalle dipendenze alimentari, energetiche, trasportistiche, edilizie, persino finanziarie. In questa logica di relazioni sistemiche, è possibile realizzare un intreccio tra gruppi di acquisto, banche del tempo, condivisione dei mezzi di trasporto, autorecupero abitativo, cohausing… fino al microcredito e alle monete complementari. Una trama di relazioni che si interfaccia – attraverso le «pagine arcobaleno»155, per esempio – con quella dei produttori solidali e partecipati. Consumo critico e mutualismo possono costituire una conveniente risposta alla crisi economica per nuclei familiari e comunità locali156. Certo, le fragole a Natale e i telefonini nuovi ogni sei mesi non fanno parte di questi nuovi stili di vita. In compenso potrebbero aumentare le aree coltivate a orto in città, le officine di riparazione, i mercati del riuso e dello scambio di oggetti usati, i gruppi di colleghi che concordano orari di trasporto e tempi di lavoro, le gestioni cooperative di attrezzature, compresi i forni del pane, il welfare di prossimità. Certo, sparirebbero l’acqua industriale in bottiglie di plastica e gli inceneritori di rifiuti. In compenso aumenterebbe la manutenzione delle reti idriche e si perfezionerebbero le filiere del recupero, riciclo, riuso dei materiali postconsumo. Certo, cavatori, cementieri e immobiliaristi risentirebbero ancora di più dei morsi della crisi economica. In compenso aumenterebbero i corsi per autocostruttori e autoinstallatori di pannelli solari e il lavoro dei coibentatori. Nella stessa ottica capitalistica si dice che questa crisi dovrà servire da volano per una immensa riconversione degli apparati produttivi ed energetici in direzione dell’era del «dopo petrolio». Alcune città (Transition Town) si sono già avviate in questa direzione. Le buone pratiche e i nuovi stili di vita autosostenibili sono coerenti con la prospettiva di una profonda innovazione dell’economia, come dimostrano le attività del Movimento per la decrescita felice di Maurizio Pallante157.
16. Decrescita come smaterializzazione
La decrescita, innanzitutto, si confronta con i limiti biofisici della Terra; ne vuole evitare la consunzione per eccesso di pressione antropica diminuendo i flussi di materia e di energia impiegati nei processi produttivi e nei cicli di consumo. Banalmente si potrebbe dire: «Non ce n’è per tutti». Secondo alcuni, già quest’anno è stato raggiunto il picco di Hubbert158. Lo scenario dell’esaurimento delle varie risorse naturali non rinnovabili è da immaginare come tanti paracarri piantati davanti alla folle corsa della megamacchina termo-industriale. Se, con qualche giravolta, essa riesce a scapolarne uno (ad esempio il petrolio), si trova contro quello dell’uranio. Se preme l’acceleratore sugli agrocarburanti va a sbattere contro la penuria di cibo (da cui la folgorante definizione di Frei Betto: «Necrocombustibili»159). Se pensa di poter soddisfare il suo insaziabile bisogno di energia con le rinnovabili rischia di ricoprire di silicio la superficie della terra. E così fino alla fine della corsa. Si rendono quindi necessarie politiche economiche e industriali di decremento e materializzazione dei processi produttivi. L’imperativo è diminuire gli input fisici di materiali e di energie necessari per la produzione delle merci, il loro uso e smaltimento post-consumo. Da tempo le autorità economiche e politiche160 mondiali tentano di promuovere una riconversione degli apparati produttivi, che è stata chiamata in vario modo: «sviluppo sostenibile», «soft economy», «società post-industriale», «economia della conoscenza», «economia dell’idrogeno», «greenonomy revolution» e così via in un crescendo di enfasi e di illusioni. Sulla spinta dell’emozione e delle preoccupazioni per il climate change – il «caos climatico» come meglio lo chiama Wolfgang Sachs161 – è esploso il «green business». Sono nati fondi di investimento specializzati nella gestione delle risorse primarie, dell’acqua, dei rifiuti oltre che, ovviamente, dell’energia, e già si parla di un nuovo indice borsistico specializzato nel trattare titoli di imprese impegnate nel settore ecologico (come lo è il Nasdaq per i titoli informatici162). Il climate change è visto come una enorme opportunità per l’economia. L’amministratore delegato della Wal-Mart ha dichiarato che «diventare verdi è un nuovo modo per tagliare i costi e aumentare i profitti». Su un giornale economico ho letto: «Eliminare 175 miliardi di tonnellate di CO2 senza smettere di crescere», attraverso l’introduzione di «tecnologie pulite», rappresenta «un progetto industriale che nella storia, di queste dimensioni, non c’è mai stato». La Shell nel 2006 ha stanziato 350 milioni di dollari per la ricerca sui combustibili non fossili. La Bp 100. La crisi energetica del 2008 con il petrolio sopra i 100 dollari a barile è stata una miniera per i gruppi petroliferi e alimentari a cui stanno attingendo le imprese per compiere le loro operazioni di ristrutturazione e riconversione.
Sulla «energia pulita» conta anche Barak Obama per fronteggiare gli effetti della recessione economica. Un «New deal verde globale», con un investimento di 15 miliardi di dollari per creare cinque milioni di nuovi posti di lavoro. Scrive – scettico – The Economist: «C’è un parallelismo storico per questa sinergia tra due obiettivi importanti (lotta all’inquinamento e alla disoccupazione): le spese militari, che alla fine degli anni trenta sconfissero sia il fascismo, sia la depressione»163. Nella realtà è stato dimostrato da Joan Martinez-Alier, con i suoi studi di Economia ecologica164 e dal Movimento di giustizia ambientale (Ejm), che i risultati preventivati dai fautori delle nuove tecnologie sono quasi sempre stati vanificati da due retroeffetti controproducenti. La «trappola tecnologica» scatta quando le nuove tecnologie provocano sul medio-lungo periodo effetti imprevisti o sottovalutati, alcune volte più dannosi dei fenomeni che si volevano contrastare. È il caso classico di molte tecnologie di disinquinamento che producono semplicemente una concentrazione e uno spostamento degli elementi tossici da una matrice ambientale ad un’altra. Pensiamo alle miracolose tecnologie del «carbon sequestration» (concentrazione e confinamento) o, al contrario, alla diluizione e dispersione degli inquinanti tramite termocombustione dei rifiuti. L’«effetto rimbalzo» è invece quello che si verifica quando una nuova tecnologia consente effettivamente di diminuire i consumi per unità di prodotto, ma allo stesso tempo incrementa le quantità di merci prodotte, vendute e consumate aumentando gli impatti globali. Ciò che viene risparmiato, viene speso altrove. Il caso più clamoroso di capovolgimento dei fini viene proprio dal «mercato delle emissioni» (Emission Trading System), pensato dal Protocollo di Kyoto, che spinge le imprese europee a delocalizzare le produzioni in Asia e in altri paesi dove le emissioni di carbonio non sono contingentate. Si tratta, in grande parte, di merci che poi vengono vendute e consumate in Occidente. L’atmosfera non ha confini, così le astute compagnie multinazionali si sono ingegnate a superare l’ostacolo facendo girare le merci. Il fallimento cui sta andando incontro il Protocollo di Kyoto dipende da una contraddizione interna originaria: volersi affidare alle logiche e ai meccanismi di mercato per neutralizzare i suoi effetti. È come chiedere al boia di tagliarsi la testa da solo. Ciò che in altri termini viene chiamato approccio «prestazionale», alternativo a quello «prescrittivo», autorizzativo, che faceva capo alle autorità pubbliche statali. Il mercato artificiale dei «permessi di inquinamento», la conseguente compravendita di quote di emissioni di anidride carbonica, la trasformazione dell’atmosfera in una merce scambiabile col denaro non producono altro effetto se non quello di far guadagnare anche gli intermediatori finanziari. Pensare che rendere scarsa l’aria, aumentando progressivamente il suo «costo», possa scoraggiarne l’uso (cioè l’inquinamento) equivale a dire che il prezzo elevato di una macchina di lusso fa diminuire la domanda. In una società di mercato è vero esattamente il contrario; l’economia è quell’insieme di strumenti che si incaricano di far avere i denari necessari a comprare anche la luna, se questa dovesse essere posta in vendita. I viaggi spaziali sono già nelle migliori agenzie! La «leva finaziaria» (come abbiamo visto con la crisi) ha esattamente lo scopo di non far mai mancare la moneta al mercato. L’unico modo per far rientrare il carico antropico nei limiti di sopportabilità della biosfera è quello di ridurre in assoluto le quantità di materiali e di energia prelevati e le quantità di rifiuti immessi. Cioè, diminuire le produzioni e i consumi di merci. Allungare il loro tempo di utilizzo, diminuire la loro obsolescenza programmata.
17. Decrescita come demercificazione
Non bastano le energie rinnovabili, il riuso e il riciclo dei materiali, l’aumento di efficienza dei motori, la nuova filosofia di consumo dalla vendita dei prodotti ai servizi effettivamente resi (Esco per l’energia, car sharing per i trasporti, macchinari affittati a prestazione, ecc.). Per diminuire effettivamente gli impatti é necessario uscire dalla logica della crescita incrementale. Serve una vera «rivoluzione verde» il cui primo scalino è l’autoproduzione, o, come avrebbe detto Gandhi, il «lavoro per il pane», lavoro minimo manuale per la produzione di valori d’uso, lavoro come strumento di autorealizzazione e di servizio per gli altri. Vale a dire la rivalutazione delle forme economiche della sussistenza, riuscendo a soddisfare il maggior numero possibile dei propri bisogni senza dipendere dall’esterno, ampliando i rapporti interinterpersonali fondati sulla reciprocità del dono, i legami sociali comunitari. Come ci ricorda Maurizio Pallante165: ««La decrescita indotta dall’autoproduzione dei beni (e dei servizi alle persone) è fattore di felicità». La sua idea è che ci possa essere una società con un’economia articolata in tre cerchi concentrici. «Il cerchio interno contiene l’area dell’autoproduzione di beni e servizi. La prima corona circolare l’area degli scambi fondati sul dono e la reciprocità. La corona circolare esterna l’area degli scambi mercantili. In essa le filiere più corte sono più interne». L’autoproduzione e il dono sono quindi compatibili con «uno sviluppo tecnologico diversamente orientato», attraverso una «riunificazione del sapere come si fanno le cose (cultura scientifica) con la ricerca di senso per cui si fanno (cultura umanistica)». Pallante si oppone alla «onnimercificazione». Pensa che «i cittadini consapevoli» possano impegnarsi politicamente soprattutto a livello locale per imporre scelte politiche mirate alla sostenibilità: «Non c’è progresso senza conservazione», non solo della natura, ma anche dei saperi e della tradizione. La ricomposizione tra economia ed etica deve avvenire fin dal primo scalino. Ogni nostra azione ha un impatto ambientale e provoca una catena di conseguenze sociali. È necessario averne coscienza ed impegnarsi a limitarne i danni. Nell’economia gandhiana il consumatore deve farsi una lista di domande: quanto conosci dell’oggetto che stai comprando? Chi lo ha prodotto e in quali condizioni lavorano e vivono coloro che l’hanno prodotto? Qual è la quota del prezzo finale che rimane al produttore? Da quali materiali è stato ricavato? Come è stato prodotto? Come viene distribuito il guadagno?166. La ricostruzione della filiera produttiva di ogni prodotto è decisiva per tracciare il «ciclo di vita» dei materiali e dell’energia contenuta e per rendere trasparenti le «clausole sociali» che ne hanno consentito la produzione, il trasporto, la commercializzazione. Se non lo facciamo siamo tutti collusi e complici. Demercificazione non vuol dire solo evitare di rivolgersi al mercato, significa anche e soprattutto restituire ad usi collettivi ciò che il mercato ha privatizzato. L’ambiente va inteso come «essenziale alla riproduzione materiale della vita umana e al realizzarsi delle relazioni socio-culturali e della vita pubblica»167. Il territorio come «bene comune»168. La città come «casa della società»169. Luoghi della socialità, funzionali al vivere comunitario. I beni comuni come «res publica»170. Beni, non merci, che non si esauriscono con il loro uso; patrimoni collettivi fatti per durare il cui valore non è misurabile in denaro. Beni fondamentali, insostituibili, necessari a tutti, e globali, frutto della creazione collettiva (naturale e culturale), spazi aperti alla libera circolazione dei flussi vitali e pertinenti al campo dei diritti umani e sociali. Come lo devono essere l’atmosfera terrestre, le acque, le foreste, il paesaggio, il germoplasma delle piante, la fauna selvatica, l’energia primaria. Ma anche la conoscenza, l’educazione, la salute, la comunicazione, la mobilità, la sicurezza, la giustizia, le istituzioni politiche se pretendono di essere considerate democratiche. Esattamente l’opposto del «territorio dello sviluppo», del suolo come supporto inerte a disposizione delle attività economiche capitalistiche. Esattamente il contrario della concezione della natura come spazio da conquistare al dominio dell’uomo e mettere a disposizione dei processi di sfruttamento minerari, agroforestali, edilizi, industriali. Si apre qui il campo affascinante e decisivo di come le comunità possono immaginare di poter gestire il loro patrimonio ambientale, storico e sociale. Contro ogni forma di privatizzazione, di aziendalizzazione, ma anche di pubblicizzazione burocratica statalista. Forme di controllo e di fruizione socializzate, come lo furono gli usi civici, il comunalismo agricolo dei «campi aperti» prima del processo delle enclosures, la proprietà edilizia indivisa, la separazione tra proprietà del suolo e diritto edificatorio, la legislazione urbanistica in un certo breve periodo, l’affermazione del principio della demanialità dei corpi idrici, il riconoscimento del paesaggio come bene costituzionalmente protetto. Non solo il territorio e i beni naturali non possono essere privatizzati. I meccanismi di mercato non funzionano nemmeno nei settori dei servizi pubblici. Lì dove non ci sono condizioni di concorrenza e di libera scelta del consumatore, si creano monopoli naturali che regalano rendite a chi li gestisce. Per andare oltre i limiti teorici e pratici del funzionamento del mercato si sono inventati complicatissimi sistemi regolatori, acrobazie di ingegneria istituzionale: Autority di controllo della concorrenza, leggi antitrust, «mister prezzi», accordi sul libero commercio, ecc. Ciò perché le forme di gestione con società di capitali (le Spa) spingono il management a cercare profitti (diritto commerciale). Risparmiare (nell’erogazione di acqua o di energia elettrica o di qualsiasi altra cosa) è un nonsenso per una azienda «orientata al mercato». Già un paio di secoli fa gli economisti si interrogavano se fosse lecito trarre utili dalla gestione degli ospizi per i poveri. Per una Spa l’ottimizzazione economica porterebbe ad aumentare i poveri o ad affamarli. Un dilemma che il furore ideologico neoliberista ha superato a due piedi: rifiuti, carceri, cimiteri, autostrade, sanità, istruzione… qualsiasi «servizio» è riconducibile a una «gestione industriale a domanda individuale», quindi da attuare con criteri e mezzi aziendali. Per la privatizzazione dei servizi pubblici si sono inventati sistemi sempre più raffinati. Uno degli ultimi ritrovati è il Project financing (finanza strutturata). Un pilastro della «turbofinanza». Una «procedura negoziata» che si svolge tra autorità pubbliche e promotori privati (gestori di fondi specializzati in infrastrutture, Infrastructure equity fund) attraverso cui la gestione delle utility e ogni altro servizio che possa dare origine a proventi, cespiti di sbigliettamento, tariffe, ticket (quindi: acqua, energia, telecomunicazioni, trasporti, teatri, cimiteri, carceri, ospedali…) passano in mani private. A pagare con gli interessi le anticipazioni bancarie, gli ammortamenti e gli utili di impresa saranno gli utenti attraverso un invisibile sovrapprezzo sui prezzi dei servizi resi, oppure – di nuovo – l’ente pubblico concedente171. L’analisi concreta dei risultati è sotto gli occhi di tutti: servizi pubblici sempre più scadenti e costosi. Il caso emblematico è l’aziendalizzazione dei luoghi di cura negli Stati Uniti. Seguito dalla privatizzazione del trasporto ferroviario in Gran Bretagna.
PARTE SECONDA- Paolo Cacciari – Decrescita o barbarie
Paolo Cacciari – Decrescita o barbarie (parte prima)
6 novembre 2010 di fernirosso | Modifica
Abbiamo deciso di pubblicarlo in toto, questo testo di Paolo Cacciari, perché fa luce su molti angoli e angolazioni che vengono sempre oscurate. Data la lunghezza del testo lo abbiamo diviso in tre parti, di cui oggi esce la prima. E’ una lettura che consigliamo vivamente, non parla a caso, fornisce dati, fornisce ipotesi su cui muoversi e ne spiega il perché, cosa che non si sente spesso fare.
Riferimenti:
https://cartesensibili.wordpress.com/2010/11/06/paolo-cacciari-Decrescita o barbarie-parte-prima
A quanto pare questo libro è davvero interessante e fonte di numerosi spunti! Ne ho accennato anche io brevemente sul mio blog, solo per darne notizia e fare in modo che più persone possibili ne prendano visione, ma ad essere onesto non ho ancora iniziato a leggerlo, bensì solo a “spizzicarlo” nei ritagli di tempo… Buona lettura a tutti quindi!