VERSO IL SOLSTIZIO d’ESTATE 2010- quarta serata: INCANTESIMI FINLANDESI

tommaso favaron- Johanna Venho e Jouni Inkala

Jouni Inkala, Johanna Venho e Antonio Parente, traduttore dei testi dei due autori finlandesi, sono stati gli ospiti della serata conclusiva del festival del Solstizio d’estate 2010. L’incontro è avvenuto in un’area del Polesine a me particolarmente cara. Vi ho insegnato per alcuni anni e ho avuto modo, allora,  di scoprire paesi e borghi, campagne e coltivazioni, oltre che persone,veramente ospitali e di particolare bellezza, proprio come questa corte contadina: Corte Vallona, regno di silenzio e centuria poetica della natura.

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“…innaffiavano i campi con l’arcobaleno

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Nel raggiungere i nostri ospiti, un fatto davvero magico ha fatto da compagno inatteso al viaggio. Per gran parte del percorso conclusivo, infatti, ripetendo la propria presenza più e più volte, un arcobaleno fantastico, nitido e vicinissimo, di grande ampiezza, si è moltiplicato lungo il tragitto in autostrada, riportandomi alla mente episodi riposti tra i ricordi di quel periodo che prima ho citato. Avevo visto, negli anni delle mie migrazioni verso quelle terre, intorno a Castelmassa e oltre, lungo gli argini del Po, degli splendidi arcobaleni nascere direttamente dai getti con cui i contadini innaffiavano i campi. Ho ricordato la mia meraviglia  di allora, pari a questa recente. Allora avevo pensato che da quelle parti innaffiavano i campi direttamente con l’arcobaleno, non solo con l’acqua, per questo tutto mi appariva bellissimo, incantato.


t.f. – Castelnovo Bariano, Corte Vallona

Ora, questa moltiplicazione, mi portava alle atmosfere del nord da cui provenivano Jouni e Johanna. Le loro aurore boreali, di cui proprio Jouni, poco prima dell’inizio della serata, mi aveva parlato e  mostrato, sulla copertina del suo libro,  le  luci  porpora, non verdi e azzurre. Erano quelle luci la casa  delle poesie che, in questo incontro, scelte e tradotte da Parente, avremmo lette ai convenuti. Eppure tutto questo non sarebbe accaduto se ci fosse stato il sole, mi ripetevo. Il merito andava alla pioggia, all’acqua, e alla sua capacità di farsi specchio e lente, alla sua capacità di rapprendersi, in un corpo di ghiaccio. Questo, questa riflessione, ha aperto in me una rilettura delle poesie di Jouni, che avevo avuto il compito di leggere e quindi di studiare in precedenza. C’era, nella sua scrittura, la completa assenza della passionalità,  il fuoco dell’impeto emotivo, intendo. Almeno questo mi pareva. Evidente era invece la lucidità, che poteva sembrare quasi freddezza, con cui affrontava i diversi casi che sono la sostanza delle sue poesie. All’interno dei testi ci sono tutte le vicende umane e queste riflettono l’attuale situazione sociale, l’indifferenza soprattutto, o l’interesse rivolto al consumo, più che alle relazioni più profonde, la condivisione di quella che è la condizione, ad ogni latitudine, garante di un riconoscimento: l’appartenenza. Mi riferisco a ciò che appare chiaro, la fragilità rispetto a ciò che è “il caso” storico: i vizi, le passioni e le vicissitudini in cui siamo inglobati, rappresi da sempre, ma non come fossili nell’ambra, bensì  come corpi addensati nel ghiaccio, e vivissimi. Ecco, Inkala, rapprende il corso di quest’acqua della storia, di tutte le storie umane, in una lente di ghiaccio emotivo, riuscendo così a visualizzare con nitidezza i diversi dettagli che in quella lente, in quello specchio poetico, acquistano una grandezza e una distanza tale da poter essere colti, inquadrati e addirittura rivoltati, proprio come si riesce a fare con un cubetto di ghiaccio. La trasparenza di quella sostanza è la consistenza della sua poesia: nitida, precisa, tagliente e sfaccettata. In essa il tempo varia da limiti di orizzonti lontanissimi, a cui resta aggancitao il mito, fino alla contemporaneità e questo senza flash. Tutto è lì, dentro quella lente, nel ghiaccio della visione, come un arco, balenato nel ghiaccio. Questa libertà, di vivere tutto il tempo, non intervalli, in un preciso istante, costruito con maestria, è ciò che considero il grande dono proprosto dal poeta, un dono che offre a tutti di riconoscere in sé, non nelle frecce smussate (non spuntate) della parola, la possibilità di accedere a quella libertà.

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t.f.- Jouni Inkala

Appare come una texture di storie, il percorso di Jouni Inkala. L’uso del tempo come riferimento in realtà smobilita la costruzione cronologica per mettere il fatto, la storia del fatto, oltre i limiti spazio temporali e riconquistare una dimensione propria: interiore ma intellettualmente modificabile. I testi si fanno sì multi-dimensionali, ma si fanno corpo, un coro che può vivere qui e ora come in  un qualunque altro momento. Il testo, l’insieme dei testi, sono le viscere di un  libro che non smette di comporsi e ricomporsi, poiché affonda i suoi cromosomi in altre storie della storia, in altri corpi o nelle scorie di quei corpi, che sono anche le scorie della vita, le rovine del tempo. Ci sono vuoti, tra i versi, così come ci sono spazi che sembrano vuoti nelle nostre giornate, altre volte tutto si infittisce, si addensa, fino ad oscurarsi o a congelarsi. Ci sono momenti e storie, che sembrano essere sotto stretta osservazione, quasi indagati, con freddezza, e altresì sembra che la scena sia pura fantasia, sogno. Sembrano immagini scaturite da paesaggi onirici e tutto, al loro interno, ha un passo che risuona, persino un capello, quando cade, fa rumore. Chi legge,entra tra quegli spazi della lingua, come una laguna di disegni tracciati dalla scrittura, come a penetrare  uno spazio interiore che è, alla fine, sempre il proprio. Ci si immerge in se stessi e, ogni tanto, quell’acuta freddezza, si fa umorismo, non solo umore, passione intendo, e questo diventa mezzo per riuscire a salvarci, in tanta desolata conoscenza  che di noi facciamo. Riusciamo a riemergere da quell’immersione in tutte le direzioni. E’ una specie di auto-dissoluzione e di auto-ricostruzione della nostra storia, perché la vita viene guardata come una materia che si modifica, si con-torce in un costante stato di parto.

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t.f.-Johanna Venho

Diversissimo il tempo di Johanna Venho, un tempo incantato, ripreso dalle ballate popolari, e un tempo coltivato, in attimi, in magie riconosciute nei momenti di osservazione attenta del mondo, della natura che ci ospita, in cui non mancano magie e prodigi.  La voce, soprattutto, della poetessa, mi ha regalato, e credo sia stata un’ emozione comune, la magia del galoppo, dello sbocciare sonoro dei fiori e delle erbe. La sua lingua, il suo dire, era necessariamente il linguaggio delle fate o delle madri, quando nutrono i figli al seno, con lo stesso latte  dell’origine del tempo, dall’origine dell’uomo. In questo nascere e trasformarsi continuo trovo ci siano tutte le componenti fantastiche e vitali, le stesse da sempre, di cui si nutre l’infanzia, e da cui continuare ad attingere l’energia per vivere compiutamente il formulario dei riti della vita. Essere vivi, nella gioia della bellezza, del mistero, della grazia, fragilissima e pure continua, in ogni tempo, è la rosa che ha filato, un suono dopo l’altro la voce di Johanna, in-cantando ciascuno dei presenti, incatenandoli fino all’ultimo fiato di magia poetica.

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t.f. – Jouni Inkala e Fernanda Ferraresso

Insieme agli autori, che hanno letto in lingua originale, sia io  che Gabriele Codifava abbiamo ripresentato i loro testi in italiano, sfruttando la traduzione di Antonio Parente, che ha rivolto agli ospiti due brevissime interviste.

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t.f.- Johanna Venho e Gabriele Codifava

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t.f.-  Johanna Venho e Antonio Parente

Insieme alla poesia finlandese, la poesia delle bellissime ballate di De Andrè ha cucito la magia dello stare insieme, ad opera del numeroso quanto bravissimo gruppo musicale La cattiva strada.

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t.f.- le voci soliste del gruppo La cattiva strada

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…E  pioveva quando sono rientrata a casa, nell’arco della notte ancora in-cantavano i suoi  nuovi baleni.

fernanda ferraresso- 21 giugno 2010

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t.f.- Jouni Inkala


Alcuni  testi di Jouni Inkala letti durante la serata.

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ICARO A HELSINKI

Soltanto quattromila anni dopo il suo compagno

la donna si buttò giù dal balcone del terzo piano

dei grandi magazzini. Quando il suo

corpo tonfò sul pavimento del reparto profumi

come un sacco da boxe, le commesse si fermarono

per un attimo, come l’agenzia stampa in guerra alla vista

della fotografia del primo combattimento aereo. Poi

qualcuno disse, qualche pazzo, e dopo l’arrivo

della polizia, dell’ambulanza la donna fu coperta

come si copre il letto di rose in autunno, e fu portata via

celermente. Alcune macchie di sangue vennero pulite. (Qualche

pazzo.) Il colore della lavatura ricordava quello di un vino

greco demi-sec. Quello con un sapore

persistente, non aggressivo con una punta di quercia.

Poi la confusione degli acquisti e delle vendite

fece dimenticare la donna. Nella camera mortuaria dell’ospedale

rimase un giorno, due. Non venne nessuno

a chiedere di lei. Giaceva nel sacco

con dignità, supina, come i grandi sovrani.

Tutto quello che aveva desiderato dalla vita

si scorgeva ancora per qualche attimo, con riluttanza

sul suo viso.

*

NUMERI CARDINALI

La vita dell’uomo moderno sulla terra, centinaia di migliaia di anni

dicono, ma la somma è una chiara materia grigia.

Poiché questi anni sono stati popolati

da una folla più grande delle generazioni di pesci sul fondo del mare.

Eravamo in numero pari ai bacilli nel vagone delle provviste

mentre Napoleone conquistava le fiamme della fiera Mosca.

Eravamo la tavola pitagorica dei proiettili puntati e sparati

mentre venivano scavate le fosse della prima guerra mondiale.

Quest’anno siamo l’arretrato di punti esclamativi delle riviste scandalistiche

mentre il Sahara si restringe in misura pari ad alcuni verdi campi di calcio

a nord, a est, a sud. Anche in questo preciso istante

i polmoni di più di una persona respirano il nostro tempo

e i globuli rossi cambiano direzione accanto ai globuli bianchi

come i cori pensierosi di antiche tragedie preservate.

Siamo stati qui miliardi di volte

quei centomila anni. Siamo stati una valuta forte.

Un’incredibile inflazione. Il metallo prezioso di maggior valore.

Siamo stati e siamo tuttora – il trattino di un attimo.

*

DOLORE FANTASMA

– a W. H. Auden –

E se il mal di schiena fosse il dolore fantasma della coda

che un tempo avevamo? Il dolore al collo quello del carapace?

Le spalle dolenti per le ali

soprattutto dopo aver scritto a lungo?

E se i nostri capelli, i nostri peli discendessero

dalle piume e se i nostri zoccoli

si fossero appiattiti sotto il nostro peso diventando piedi?

E se le orecchie derivassero dalle pornografiche cavità rosse

delle branchie? È possibile allora che il nostro passato

sia stato tracciato da ossa di pesce? Che scivolavamo

senza accorgercene verso un tempo supplementare? Le onde e il pacifismo

degli oceani contemporanei. Poiché non possiamo sapere

quali venti alimentino ancora le basse pressioni.

Chi può dire perché possiamo passare da due

piedi ad uno, perché i nostri muscoli gluteali

crescono unendo le cavità del ginocchio e perché viviamo

per vedere il giorno in cui le madri sono gusci d’uovo

dentro i quali i figli nascono e crescono, finché

si schiudono nella maggior età ridecretata.

*

IL SALMO SUCCESSIVO DOPO L’ULTIMO

Ogni parola nella quale ti pieghi

e poi cresci finirà anche per svanire.

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Cosa puoi testimoniare quindi

di una mela che è perfetta

.

le sole impronte dei morsi su un lato?

E della corazza della tartaruga,

.

vuota sulla riva sabbiosa,

quando ciò che era carne

.

anima non più visibile

da dentro l’armatura che beccheggia

.

al vento. Del suo credo,

che oramai permarrà in eterno?

.

Cosa quindi avresti mai l’ardire

di pronunciare, quali sillabe emergerebbero

.

dalla tua bocca? Punte di frecce spossate,

.

dirette ben oltre

.

la loro direzione, in te.

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t.f.- Johanna Venho

Una scelta dalla raccolta di  Johanna Venho

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Qui c’è Luce e vaga per l’arcipelago:

sul litorale merlettato, sul margine

di frittelle che sfriggono. Qui c’è Luce, è un

bimbo diafano, ha contorni sfrangiati

e si mette in viaggio, traghetto gonfiabile, iolla che confida nel vento.

Non è consapevole di nulla. Assorto

assaggia le alghe sulle pietre della riva,

si lava i denti con l’acqua salata. L’acqua fino alle ginocchia

Luce sguazza, il canneto scivola via intorno alle gambe

e dietro al molo inizia la poltiglia di zolle,

lì si sporge, il bimbo diafano con le finestrelle,

più facilmente comprensibile dello specchio o della calligrafia,

si sporge in avanti sospinto da una forza superiore,

dalla corrente di fondo, dal vento marino?  oppure scivola soltanto

nel sapere, volevo solo far gorgogliare l’acqua, cosa sarà di noi?

*

Quando siamo sulla soglia dell’incomprensibile

non diciamo nulla di logico ed esprimiamo

limpidezze come acqua di pozzo. Luce balbetta,

messaggi telegrafici. Gli dico: sul tappeto di musco

si può camminare e sognare, fare un salto a casa

invecchiare, intenerirsi.

La fune intrecciata di nero e di bianco,

quanto riesci a sopportare prima che ti si rompa il collo?

Le mani di Luce gettate intorno al collo,

la bocca vicinissima all’orecchio, la rosa del solstizio d’un tratto si dischiude completamente

e sul prato vicino al pozzo giace la nebbiolina, qualcuno remotissimo coglie

fiori di sette specie, per invecchiare, intenerirsi.

La fune tessuta di nero e di bianco, una ghirlanda

intrecciata, girala, lancia, tra un po’ avvizziscono.

Luce inonda gli occhi, il fiore si rianima

nell’acqua del pozzo, gelidi fino in fondo, gli amori,

i bimbi, ancora un istante, dammi una spinta, avanti, indietro

sul margine del pozzo, tieniti al collo.

*

La danza. Il Canto è qui. Il Pianto è canto, acqua che sgorga dagli occhi dove il raggio

duole. Riso, quando risuona dal profondo, ronza, non si avrà freddo. Allunga la mano e

prendi la mela, richiudila, prendi queste lettere, nelle quali siamo tanto struggenti

come lo sono sempre le persone, tra di loro: vanno incontro, domandando,

temendo il dolore, impacchettando piccoli doni con carte regalo,

donando, donando. – I hope you like the little ones! Tutto è qui,

il barattolo di conserva di lamponi, le bacche colte da sola, cotte da sola,

il messaggio disegnato sulla cartolina con lettere lente: i lamponi li ho colti nel bosco,

vicino al laghetto, quando calò il buio, il laghetto illuminò il bosco.

*

Se solo lo sapessi! – Bisognerebbe sapere quando si è adulti. Sfilo la risposta dal chiodo,

l’indosso, pesante paltò. Passiamo di qui sulla strada liberata dallo spazzaneve la mattina

andando al lavoro, dal lavoro al negozio, dal negozio a casa. Si abbinano bene il cappello di pelliccia e gli stivali belli pesanti. Se solo lo sapessi, cammino col mio amore infranto

nel nevischio: se me lo chiedi, vado da qualsiasi parte, da nessuna parte anche se i treni

partono numerosi, percorro vie fangose e tengo per mano Luce, si ferma, è stanco.

La neve cade in terra dal ramo dell’albero, lo stesso suono di quando muore una persona, devi parlare sempre con un tono di voce adatto sotto la lingua, adatto al cuore

dolente, chiamarlo amore, a volte fa centro, la mano nuda sfiora un’altra

mano nella ressa, ancora! e miracolo, dona e dona.

*

Ti aiuto un po‘. Quando si fece sera, eravamo tutti piccoli. Ero una piuma e

speravo di conservare gli occhi sereni. Non è possibile, che fortuna.

Guardo Luce e so tutto ciò che dovrà attraversare, ferirsi, scivolare,

cadere. Volare e calare. Ridere. Gridare. Guardo e l’aiuto un po’,

non esistono solchi facili dove cresca un grande raccolto. Non c’è incontro

che non lascia lividi. Quando arrivò Luce, iniziai a inciampare nelle parole: è così, ma

da un lato il nero, dall’altro macchie bianche. Non era più chiaro quale direzione

prendere, ora ti aiuto un po’, nemmeno io lo so, ma da qui il ponticello

porta oltre la palude.

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t.f.- Johanna Venho e Jouni Inkala

Riferimenti in rete:

sito di Johanna Venho:

http://valontalo.blogspot.com/

http://valontalo.blogspot.com/2010/06/vetta-ja-runoutta-venetossa.html

2 Comments

  1. mi sono persa tra gli arcobaleni, così rari nel mio sguardo di poche piogge

    una presentazione davvero incantata, tornerò sulle singole tracce

    stampo e porto con me

    molto belle le fotografie, la quarta sembra un dipinto

    grazie, Elina

  2. qui dentro, ancora una volta, dove le voci che ci ricordano ci fanno sentire che siamo sempre tutti avventori, nella stessa avventura:il viaggio, che non ha confini tangibili, dove al notte e la luce si distillano l’una dall’altra.
    Ciao f.

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