Tatlin- da “Un calendaro ispirato dalle incisioni di Gaetano Bevilacqua”
” …
in sacco alla barbarie del tempo ottuso
gli abitanti passano e non risiedono
…
murato vivo dalla festa di morire
lungo il lago delle gioie a spasso
piange il pesciolino del bambino
…
l’ultimo istante è lo straccio del viso
fissato sull’aceto di non rinvenire.
…
sotto il pane della noia
l’anemia del guado.
nella scansia dell’eclissi ho perduta
l’edilizia di lusso del mio sangue
…
le prospettive paniche del sogno
spartiscono le corse con il coma.
…
ho pianto lacrime di esodo
fissa alla sedia che detiene
e serra la disperazione.
…
qui senza paesi da celebrare
si accelera l’impronta del desiderio
di morire.
…
la taglia del malanno fu detta culla
una manciata di esuli qualsiasi
da sotto il chiostro delle mani vuote
…
comunanza d’asma questa sillabare
l’aria. dirupi d’ispezione questo anatroccolo
col bacio sulla fronte, salvo.
…
con un anello nucleare ho il dito
vergine. sono un agnello che crepa
senza lamento. in tana avevo un varco
di comete. fuoco di musica vederti
tetto di me che non sono suolo.
dovunque andrò porterò l’enigma
del mare chiuso che non sa esprimersi
…
qui si comprime il fato della stanza
disamata manciata di giocattoli
…
in pace sulla raffica del vento
sono canuto-caduto e non mi rialzo
più. ridi di me nudità dell’aria.
…
ora la vena è immobile e la scienza
un arato di ruggine. quale gelo
chiami nel sonno? quale gerundio
vuoi che non sa darti? eppure muore
l’almanacco e si fa sfinge il fuoco
…
nessuna scuola equivale al vero
del frate giovane nudo sotto il saio
a dondolo di elemosina a via Chiabrera.
con te non ebbi che gerle di stellacce
intorno al mare che si fa di stagno
…
qui in fondo si sta come medesime
ripetenze al fango. il grido d’ascia
è la simbiosi del davanzale che tonfa
tonfa l’avventura stabilita. in bilico
ti vedo attore afono per la gogna del golfo
mistico. quale faccenda succederà
al futuro della frana? quale intoppo
per una scatola di cerini umidi?
…
le gole smilze dei poeti
tacciano per sempre
…
la meridiana
tragica sul muro ha perno d’osso
che non sa d’umano.
…
mio padre morì con i calzini da tennis
aveva freddo ai piedi
glieli infilai che pareva un Cristo
che deglutiva paura Filippo morì dopo l’alba
chissà come avvenne
io non c’ero, ero a disperarmi
nella normalità dell’attendere.
ora che restano le ceneri murate
gli anni sono passati sopra i miei
capelli bianchi
…
con le geometrie dell’acqua
vado a piangere convulse elemosine
di resistenza.
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Tatlin- da “Un calendaro ispirato dalle incisioni di Gaetano Bevilacqua”
Ho attraversato le vie e i vicoli, le gallerie e gli androni, salito scale e disceso pareti da terrazzi a perpendicolo sull’acqua, la scure di una sera immobilizzata tra le trincee e i relitti, quando la notte non sembra decidersi, quando nulla pro-ferisce altro che sarcofagi svuotati, a causa di una legalizzazione che vorrebbe manovrare anche le cose celesti o infere, quando l’altrove non si decide a venire, a (s) finire in un buio totalizzante ogni cosa. Qui si vede sempre tutto. Ed è un paese in cui sono collocati pezzi di artiglieria pesante, che spara in continuo proiettili di gomme atomiche, composti arseniosi, cianuri, gas in-combusti e veleni corrosivi,virus e teche intere di batteri, che colonizzano solo la morte.
E, camminando, mi sono crollate addosso le architetture e gli archi di trionfo di una scrittura che credeva d’essere magistrale interprete di ogni cosa e invece costruiva in-sonorizzate progressioni di censure. Leggendola, mi sono riemerse le lucide sentenze di Artaud: – Sono arrivato al punto di non sentire più le idee come idee, come rapporti di cose spirituali aventi il magnetismo, il prestigio, l’illuminazione dell’assoluta spiritualità, ma come semplici assemblaggi di oggetti. Non le sento, non le vedo, non ho più il potere di essere scosso da loro […]. Ho perso il sentimento dello spirito, di quello che è propriamente pensabile, o il pensabile in me turbina come un sistema assolutamente staccato, poi ritorna alla sua ombra. E presto la sensibilità si spegne. E nuota come se si trattasse di brandelli di piccoli pensieri […]. Ma al centro di questa miseria senza nome, c’è spazio per un orgoglio, che è anche come un aspetto della coscienza. È come se si concepisse la conoscenza attraverso il vuoto, una specie di grido abbassato che al posto di salire scende. –
Personalmente, quando attraverso le vie della città, la mia che credevo bloccata nelle pietre acconciate delle chiese e dei palazzi antichi, nelle storie comuni della casa del podestà o della curia vescovile, nei transetti delle basiliche, nei quinconci dell’università o delle tante scuole prestigiose, che un tempo non erano ingombre d’auto e persone, non ostentavano pienezza, ma mostravano vuoti in cui si formavano, in chi si trovava ad attraversarli, quelle predisposizioni d’animo che muovevano alla possibilità di vedere dei dettagli, o anche solo dei tagli visivi in cui incuneare la memoria, il corpo tutto, attraverso lo spirito, non solo la mente, lasciatosi operare, da quelle loro abili chirurgie plastiche, per farsi portare in altri luoghi, slarghi ora difficilmente raggiungibili. Un tempo, là, c’erano gli odori molli, i profumi delle cere che uscivano dagli androni delle case, dagli antichi palazzi abitati, non adibiti ad uffici o banche o botteghe di artificiose bigiotterie con cui nascondere se stessi. Erano odo-ri(i) abitati, vissuti, in tutto l’arco della giornata e per tutta la durata delle diverse stagioni, soprattutto le stagioni dell’essere, includendovi anche la morte. Era quella, la tavolozza che permetteva di raggiungere un interno senza nemmeno entrarvi, permetteva di percepire l’altro e di sentirlo vicino, senza escludere, senza chiudere se stessi. Oggi, ovunque si vada, c’è una sola barriera olfattiva, una continua barriera visiva fatta di oggetti che non si fanno mai soggetti, per lo meno soggetti da seguire se non per un attimo, la lunghezza di uno sguardo che perde l’onda e si declina in traffico, che cerca di attraversare la barriera e, a causa dei tanti segnali di occultamento, si ritrova in un altro posto, o addirittura non si trova più. Quando cammino allora, e questo accade da molti anni ormai, adotto un’andatura che mi consenta di accogliere, come in una serie continua di onde, ciò che è là, fuori, in quel mondo che tocco con gli occhi rivolti verso l’alto, non ad altezza d’uomo. Il resto arriva a livello di movimento, frantumato. Attraverso ciò che sta in basso come terreno non visto. Ascolto le differenze come se in me, dalla pianta dei piedi, entrassero oscure maree, gli edifici, non più congelati in forme geometriche che tagliano lo sguardo, si affermassero in cielo con la stessa sostanza di quello, facendosi conc(l)avi di agi(ta)te visioni. Le facciate, in cui i diversi domini, o demoni di questo o quel potere vorrebbero dichiarare con arrogata potenza la loro autorità, si sgretolano in immagini che dondolano,vacillano, spesso si schiantano nel grido dei pochi uccelli che insistono ad abitarli, come unici veri sensori di una ossessiva presenza del vuoto che solo loro riescono a misurare.
Anche in questi testi, inviati da Marina Pizzi, dove sembra sospeso ogni atto critico e qualunque classificazione, proprio come accade nell’andare per strada facendosi cogliere da tutto quanto ci viene contro o incontro, senza gridare a nessuno scandalo, senza nemmeno gioire o ingioiellare lo (s)c(hi)anto che, ad ogni passo, potrebbe ucciderci, c’è un’ospite, sempre collegata al passo. La morte è il segno presente dovunque , è il litopone usurato che comunque segna la mezzeria e i bordi di una strada inter-detta, ma che non si percepisce se non andando, quasi battendoci casual-mente addosso o imparando a toccarlo, quell’osso, imparando una tattile tecnica diversa da quella dei ciechi. Qui non c’è l’abitudine al percorso, il percorso si articola, si frastaglia, si frammenta attraverso la sua continuità difficoltosa, pericolosa perchè non consueta. L’abitudine alla parola è la cosa più pericolosa, non un transetto di basilica. E’ un baratro, ogni parola, anche se sembra sostenerci. Non c’è alcun suono forte, il corpo si consuma in una abrasione continuata , senza produzione di co-scienza e conoscenza.Tutto è vano, da percorrere lungo una stanza senza fine, senza soste se non perchè, in quel buio di un corpo che è dentro e fuori, ci sono allucinazioni, nazioni, con-notazioni di parole che si fanno altri corpi da indossare, non da inossare, anche se, quel loro liquido fisiologico si deposita , a-mal-(g)amandosi alle corde vocali, fattesi spesse, fino alla completa insonorizzazione.
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Tatlin- da “Un calendaro ispirato dalle incisioni di Gaetano Bevilacqua”
Da L’invadenza del relitto – Raccolta inedita ( 2009)- Marina Pizzi
1.
in villa sulla resina sono mortale
più della lumaca nuda.
chiamami intruglio io vorrò le staffe
da principessa.
lo scrivo con il livore di chi è ultimo
mansueto comignolo di cenere.
in ogni diatriba che mi commetta
sogno la brama di vedermi cipria
verso una donna di sospesa beltà.
qui la terra s’intromette darsena
messere e scaturigine chissà
di quale giro di lago.
2.
in una vampa di luce stava quella
malia della lucertola. con la stola
del buio stava quella maligna enfasi
del lutto. tu credi che le donne
siano paghe di nettàre la forza
della ruggine. qui è senza pace
la prontezza dell’alba la balbuzie
del bulbo che non nasce. lauto
ossequio credere sorgente e foce.
le vene del carattere si sgretolano
sotto l’acqua della cascata.
4.
non crollo né vano profitto
dall’atto di contare i giorni.
intacca con me questa pietà
fissa alla tanica del fuoco.
gran pece di marina l’erma fonte
spaccata dalle rondini che gridano
dono su dono una manciata vuota.
apri con me il sogno per entrare in pace
nel governo che fonda le non lapidi
giochi giovinetti e prime cialde.
dal remo che sconfisse le veneri
torna da me in un moto regale
concesso solo al prìncipe dei numeri.
felina giostra dammi per un attimo
nel modo che condona il guaio d’io
5.
amor sillabico averti accanto
patriota del bilico porto del buio.
impronta verbale starti a guardare
in mano alla stampella dell’occaso
nodo del sale le scorrerie d’averti.
in sacco alla barbarie del tempo ottuso
resta la lena di capire il coma
la ronda scema di guardarti il letto.
la dieta dei morenti è tutta fredda
ma mangiare è offesa al tempo che non resta.
6.
nessuna agenda amerà l’occaso
il caso dotto e la morte certa
nel verso che allontana chi sta bene.
la resina che tarla le lumache
chiama la zattera della luce piena
il finalmente slancio dal trampolino.
nelle ville ci si siede sfiniti
ma gli abitanti passano e non risiedono
nel dono del sasso libertario.
il fato si comincia dalle foglie
dalle volontà di spremere la luna
ad una fattezza umana.
qui di bell’agio morirà la fronte
in un occaso smilzo di salsedine
sedato dalle giostre di chi muore.
7.
murato vivo dalla festa di morire
la calce genuflette gli stracci
delle cime. qui al crollo della rotta
vuota parla la cimasa per inghiottire
le teche delle rondini che ridono.
lungo il lago delle gioie a spasso
piange il pesciolino del bambino.
la cenere blasfema dell’albero
secolare sa scemare ogni bramosia
dall’inguine della vergine.
tu guerrafondaio alludi alla dis-grazia
delle fiamme sugli aquiloni.
al peggio delle resine che tradiscono
le farfalle c’è il rifugio del diavolo
con le scarpette da danza. da adesso
l’ultimo istante è lo straccio del viso
fissato sull’aceto di non rinvenire.
8.
sotto il pane della noia
l’anemia del guado.
nella scansia dell’eclissi ho perduta
l’edilizia di lusso del mio sangue.
la musica che gironzola la notte
ha la pietà del sicario a mani vuote.
il greto del canneto si pronunzia
con i ranocchi.
di te la perla perderà la vista
con la scansione angelica del sì.
le prospettive paniche del sogno
spartiscono le corse con il coma.
di te mi briga festeggiare amore
con l’eco e la conchiglia a far gli sposi.
a me traendo il discolo remoto
gioco la cosa nel gerundio darsena.
9.
l’istinto di vociare per chiamarci
ancora. e invece il mobilio è rimasto
come le strisce pedonali rosse.
così l’eco che comanda e agisce
coltiva la nostalgia della cialda
che eri. la pianta grassa della libertà
punge e non consola. da adesso
ho formato un disappunto forte
di travi per le impiccagioni. calca
l’acido un ventre trepido di dado
tratto. il tonfo incede questo mio
istante. assolto o condannato sto
a permettermi di restare stazioncina
di paese e se piango non si allarga.
qui le cime sono bordelli senza
stanza di piacere. la pena nella cera
del fuoco non ha la gentilezza
delle candele.
11.
amore di soffitta inventare
il verso. scoglio contro l’accetta.
l’altalena del mare ha preso
dio. nessun soccorso dal remo.
tu dimmi perché la persiana
chiude il suo distacco proprio
contro l’ala dello scricciolo ferito.
sia vendemmia l’acrobata
per portare il cielo in un abaco
di giostre. ma lo sterminio di adesso
sta a guardare la gara del sudario.
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Tatlin- da “Un calendaro ispirato dalle incisioni di Gaetano Bevilacqua”
Riferimenti relativi all’autrice.
Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55.
Ha pubblicato i libri di versi: “Il giornale dell’esule” (Crocetti 1986), “Gli angioli patrioti” (ivi 1988), “Acquerugiole” (ivi 1990), “Darsene il respiro” (Fondazione Corrente 1993), “La devozione di stare” (Anterem 1994), “Le arsure” (LietoColle 2004), “L’acciuga della sera i fuochi della tara” (Luca Pensa 2006), “Dallo stesso altrove” (La camera verde, 2008), “L’inchino del predone (Blu di Prussia, 2009);
* [raccolte inedite in carta, complete e incomplete, rintracciabili sul Web: “La passione della fine”, “Intimità delle lontananze”, “Dissesti per il tramonto”, “Una camera di conforto”, “Sconforti di consorte”, “Brindisi e cipressi”, “Sorprese del pane nero”, “L’acciuga della sera i fuochi della tara”, “La giostra della lingua il suolo d’algebra”, “Staffetta irenica”, “Il solicello del basto”, “Sotto le ghiande delle querce”, “Pecca di espianto”, “Arsenici”, “Rughe d’inserviente”, “Un gerundio di venia”, “Ricette del sottopiatto”, “Dallo stesso altrove”, “Miserere asfalto (afasie dell’attitudine)”, “Declini”, “Esecuzioni”, “Davanzali di pietà”, “Plettro di compieta”, “L’eremo del foglio”, “L’inchino del predone”, “Il sonno della ruggine”, “L’invadenza del relitto”; il poemetto “L’alba del penitenziario. Il penitenziario dell’alba”];
*le plaquettes “L’impresario reo” (Tam Tam 1985) e “Un cartone per la notte” (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); “Le giostre del delta” (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura. Ha vinto due premi di poesia. *****
[Si sono interessati al suo lavoro, tra gli altri, Asmar Moosavinia, Pier Vincenzo Mengaldo, Luca Canali, Gian Paolo Guerini, Valter Binaghi, Giuliano Gramigna, Antonio Spagnuolo, Emilio Piccolo, Paolo Aita, Biagio Cepollaro, Marco Giovenale, Massimo Sannelli, Francesco Marotta, Nicola Crocetti, Giovanni Monasteri, Fabrizio Centofanti, Franz Krauspenhaar, Danilo Romei, Nevio Gàmbula, Gabriella Musetti, Manuela Palchetti, Gianmario Lucini, Giovanni Nuscis, Luigi Pingitore, Giacomo Cerrai, Elio Grasso, Luciano Pagano, Stefano Donno, Angelo Petrelli, Ivano Malcotti, Raffaele Piazza, Francesco Sasso, Mirella Floris, Paolo Fichera, Thomas Maria Croce, Giancarlo Baroni, Dino Azzalin, Francesco Carbognin, Alessio Zanelli, Simone Giorgino, Claudio Di Scalzo, Maria Di Lorenzo, Antonella Pizzo, Marina Pizzo, Camilla Miglio, Michele Marinelli, Emilia De Simoni, Linh Dinh, Laura Modigliani, Bianca Madeccia, Eugenio Rebecchi, Anila Resuli, Luca Rossato, Roberto Bertoni, Maeba Sciutti, Luigi Metropoli, Francesca Matteoni, Salvo Capestro].
* Nel 2004 e nel 2005 la rivista di poesia on line “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave” l’ha nominata poeta dell’anno. Marina Pizzi fa parte del comitato di redazione della rivista “Poesia”. E’ tra i redattori del litblog collettivo “La poesia e lo spirito”, collabora con il portale di cultura “Tellusfolio”.
Sue poesie sono state tradotte in Persiano, in Inglese, in Tedesco.
Sul Web cura i seguenti blog(s) di poesia:
http://marinapizzisconfortidico.splinder.com/=Sconforti di consorte
http://marinapizzibrindisiecipr.splinder.com/=Brindisi e cipressi
http://marinapizzisorpresedelpa.splinder.com/=Sorprese del pane nero
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Simon Schade- transparency of human being
E’ un post molto denso e accurato, una recensione che assomiglia ad un saggio e l’autrice non si dona facilmente alla lettura a cui si è abituati oggi.Fernanda ci porta attraverso luoghi della parola che hanno difficoltà ad essere percorsi, ma è una guida che non obbliga a guardare secondo le sue prospettive, anzi, aggiunge profili a quelli della Pizzi,sembrano scritture complementari, per certi aspetti. Un grazie all’attenzione e alla volontà di non fermarsi di fronte all’oscuro,anche se si tratta di parola.Alessandro. AUGURI DI BUON ANNO,NATURALMENTE.
Ero passata per fare gli auguri, prima di partire nuovamente per l’Australia. Ho letto questo bellissimo pezzo e mi volevo congratulare perchè avevo avuto difficoltà con questa autrice, ma ora sono riuscita ad accedere ad alcuni passaggi che trovo davvero molto profondi.Tanti AUGURI a tutta la redazione di questo splendido blog e all’autrice di questo inedito. Naturalmente un saluto ed un grazie particolare a fernirosso a cui auguro un nuovo anno ricco di poesia, perchè è questo, secondo me, che la fa vivere,Giorgina Medici.
Ringrazio entrambi per gli auguri, ricambiati naturalmente. Grazie per quanto esprimete per il blog e per il lavoro.Che sia davvero un BUON ANNO e che continui questa partecipazione,fernanda
Leggere le tue proposte è sempre un duplice incontro: l’autore – mai scontato – e te, con la tua linguascolto, il passo che cadenzi dentro i versi con una partecipazione che a tratti si fonde, fino a trasmutarsi in altro ancora; un movimento in caleidoscopio che rapisce e inventa il modo di camminare a mezz’aria.
La poesia di Marina Pizzi non l’ho mai approfondita, ma qui, ora, il tempo buono.