Zaelia Bishop
Quando viene la notte ancora la ricordo, sento la sua voce attraversare queste stanze. Non aveva pace quella mia figlia, Amìna, era come se il vento la portasse sempre altrove, come un seme, o i petali dei fiori, le foglie del tè, le voci, o come i sogni quando fioriscono e appassiscono le nostre passioni. Altrove, lei era sempre altrove, sgretolata e forma di un solo pensiero, chiusa nell’astuccio di un corpo bellissimo e lontano. Lei non aveva un nome poichè nessun nome la richiamava da quell’oltre. Era come una statua, una statua vuota o fatta di vuoto. Sembrava non avere una identità precisa: qualunque cosa la toccasse o anche solo la sfiorasse non lasciava traccia sul suo viso. Lei era centrata, in un asse di silenzio. Sembrava che i nomi, come le cose che essi evocano tra noi, fossero per lei come foglie tra i rami, in alberi altissimi, fantasmi luminescenti, insetti o altre creature che vivono una vita diversa da quella che conducono quando entrano nella nostra testa o nella nostra bocca nei momenti in cui li costruiamo e li pronunciamo. Le parole, infatti, lei le soffiava nel suo sottile flauto d’avorio. Era così che diceva la sua tristezza o la gioia, la paura, la lontananza da ogni cosa.
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Zaelia Bishop
Quando suonava tutti restavano sospesi. Quando suonava nessuno continuava a fare ciò che stava facendo. Era come se, con quel suo vocabolario di sillabe sonore, che non necessitano di traduzione, riuscisse sempre e comunque a toccare chiunque, nel profondo, e nulla, davvero nulla, risultasse più importante che ascoltare quella voce interiore fattasi il suono di quel flauto. Forse si trattava di qualcosa di simile alla poesia, un attimo di grazia oltre il superfluo, quando la lingua si smarrisce nella felicità di un cenno o di un richiamo che si credeva impossibile sentire. E c’era il colore, in quella sua lingua, il colore di tutte le voci della terra, di tutte le lingue inviolate dal gioco futile e ingannevole di una falsa economia che finisce per farsi la farsa di se stessa. Non c’era lusso o tecnica in quella modulazione dell’aria, c’era il vento di un respiro accomunante, il filo leggero della memoria mentre si annoda al mare, al cielo e non teme l’inizio o la fine, perché è intero e non ha prima o dopo, o tappe o mete.
E’ un viaggio. L’illimitato viaggio nel limite di un respiro ed è un testo, che sfugge, che non si lascia capire, solo ospitare, vivere e viene per le sue strade, nell’oscuro dell’anima, nel segreto.Viene, come una febbre o un sorriso di fronte all’alba, aspettando che nascano le stelle, nel corpo della notte, nel buio che senti vivente . E’ una nuova maniera di essere, dentro e fuori di sé, senza che questo si faccia abitudine o mestiere. Nessuna esibizione di una qualche verità precedente e originaria, nessuna separazione dal corpo della vita e dalla vita dei corpi, una specie di perennità. Era quella la gratuità del canto, era quello il dono, la verità del canto che è dono. Ingenuo ma non innocente, perché niente è piu terribile di un dono non inteso, e niente è piu tremendo di un dono compreso, e perciò svelato. Vedersi, trovarsi in quelle note, era trovare finalmente la propria inadempienza: l’essersi scordati di chi si è, sempre, fino all’ultimo tratto della via, viva, in ciascuno di noi.
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Zaelia Bishop
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No, non aveva pace quella mia figlia lontana. Eppure pareva a tutti, ascoltando il suo silenzio, tra le pause dei suoni e finchè raccoglieva i fiati nei legni dei suoi flauti, di vedere sorgere da un cielo, mai visto prima, un arcobaleno in cui scoccare le ore da sé per stringere il patto tra una parola lontanissima e profonda e tutto il parlato, subìto come l’ acqua di un continuo tradimento, la luce di un sole che smangia le lingue, le viola e le rende cieche. La cecità della parola e lo smarrimento, persino crudele, di questo suono che indovina le più oscure terre di ciascuno di noi, le scandaglia, le mette in risonanza le incanta, le magnifica. E non si può che innamorarsi di lei, parola poetica innamorata e cieca, indifferente ai conclavi del mondo e ai conclamati richiami di una falsa giustizia della parola, colorata e senza altra traccia che un fiato, disegnata nell’aria e subito persa in percorsi senza errore e senza riconoscimento di alcuna verità.Ti disorienta e brucia e chiama, senza poter distogliere l’orecchio da quella animata sorgente: è rapimento e guida nel paese dove nulla è ciò che è ma chiaramente tutto sembra altro e poi atro ancora, in un continuo mutamento dello spazio, tutto accogliendo, senza disperazione nulla respingendo nel buio della solitudine o dell’infelicità. Nella durata del suono, meravigliosa e inarrestabile c’è la parola analfabeta, il manuale degli amanti, l’arte del leggenderaio, la grazia dell’ascolto, l’attimo e l’eterno, il demone e l’angelo, senza necessità di garanzia, senza manuale che lo traduca di bocca in bocca, senza difesa e misura, senza la ghigliottina del tempo. Solo il suono, l’amo che inghiottiamo senza sentire dolore e senza pericolosità ci immerge nell’abisso, luogo che canta e continua a cantarci, senza posa, senza posa. Volontariamente smarriti dentro le onde di quella fluida parola infinita, pare di entrare nel fuoco di una follia senza ritorno, abbandonati ai sogni, nella profondità senza approdi, verticali lungo la linea quieta di un orizzonte che si genera continuo, nella dismisura che non ha ragione ed è fiume come quando sboccia primavera tra le acque e dissemina di petali l’aria, per farsi frutto e sapore. Dall’albero le mele, cadute una ad una, sono le immagini senza prospettiva e sonorità, senza profondità della luce, i luoghi dell’estraneità a noi stessi e dalla mistificazione. Ecco la sua veste, rossa come il sangue che la scorre, si rovescia nel prato. Luminosa la fiaba scivola da lei alle sue dita invisibili, che si fanno suoni, trascorrendo ogni altra storia, ogni altro corpo. Se ne sente il fuoco vivo ed è lì, che la vita, finalmente e irrimediabilmente ancora mi parla di lei, mai persa, in un altrove altrimenti irraggiungibile.
“Luminosa la fiaba scivola da lei alle sue dita invisibili, che si fanno suoni, trascorrendo ogni altra storia, ogni altro corpo”
una pagina stupenda fresca nella memoria di un grandioso favolario
elina
oggi,chissà perchè, non mi riconosce dall’impronta.Ringrazio per la lettura e per la memoria di quel bel percorso.f
L’illustrazione di Zaelia Bishop e la prima parte mi hanno colpito particolarmente…mi sembrava una descrizione di me stessa, ma scritta in terza persona da mia madre, una descrizione esatta, così esatta che mia madre non potrebbe mai scriverla..è come un racconto in terza persona di un soggetto che immagina d’essere descritto da un altro che non lo capirà mai, ma che forse vorrebbe che lo capisse.
O almeno a me pare così ;)
Ciao Giorgia,che bello sentirti!
Il racconto l’ho scritto qualche tempo fa, rientra in un percorso nel blog-fernirosso, un fa-volario in cui altri lettori hanno inviato i loro testi.
Questo potrebbe essere letto a più livelli, nella mia intenzione c’era di aprire finestre sulla scrittura, sulla composizione e sui suoi moventi, i suoi movimenti:negli altri ma anche nell’autore stesso, oltre che nella scrittura, come forma del pro-cedere. Grazie,felice di averti risentito,ferni
“Volontariamente smarriti dentro le onde di quella fluida parola infinita, pare di entrare nel fuoco di una follia senza ritorno, abbandonati ai sogni, nella profondità senza approdi”
cercavo gli inediti sul fuoco e mi sono ritrovata in compagnia di Amìna
ci sono spunti davvero intensi di cui ti ringrazio
Elina
una ‘figlia’ che ho amato molto, in silenzio.
ritrovarla adesso acquista un significato particolare.