Con quale passo cominciare questo bianco, stasera. Questo bianco virtuale, questa lavagnetta internet su cui goccio inchiostro e piccola luce? Luce non mia. Io non sono niente. Viene da fuori e da sola riverbera. Comincio con un grazie per chi passa: per esempio i viandanti, i cacciatori, i pellegrini, le anime rosse, gli affamati che hanno in pancia la carestia e in bocca il desiderio. E proseguo con un grazieseme a chi si ferma, si siede, respira dentro questa piccola luce ed esce. Con un grazie a chi iscrive questa piccola luce virtuale nascendo due parole proprie a commento delle mie. Come i contadini che seminavano grano, con quel gesto ampio di fede. Il mio qui non è separazione, rifugio, non risposta, non è assenza dall’altro, non rispondendo.
Il mio qui faro è un tratto breve di terra che fa l’amore con i naviganti e con il mare. Dentro il fuoco della lampada e dentro anche la tempesta del cielo. Ma dentro anche il corpo di chi si ferma e si siede.
Questa sera la neve scende assomigliando alle farfalle o ai petali dei ciliegi. Ko Un canta in un luogo lontanissimo e io lo sento. Da un’isola. Il mare ci congiunge. Il vento. La stessa neve. Lo stesso cono di luce che protegge e diffonde il suo canto.
Ko Un L’Isola che canta, Antologia poetica (1992 – 2002), traduzione dal coerano e cura di Vincenza D’Urso, con opere pittoriche di Ko Un, Lietocolle, 2009, euro 13. www.lietocolle.com
Poco più di cento pagine che fanno bene al petto. Già il fatto che la pubblicazione sia stata finanziata dal Korea Literature Translation Institute. Che un editore creda nella poesia, sfondando i confini, con l’aiuto di una studiosa traduttrice, di una donna che porta la torcia viva nel mondo come Vincenza D’Urso. Che un miracolo come il progetto di una traduzione venga aiutato economicamente annodando distanze, paesi, culture. Sia benedetta la traduzione, il confronto.
Poche cose esprimo: l’opera raccoglie una scelta da cinque raccolte estratte dal periodo migliore del poeta, dopo il 1992. La poesia scende scende scende e improvvisamente diventa vasta. Si deposita sul foglio come una caduta precisa di neve. Semplice, chiarissima, limpida, abbagliante. E al lettore è dato camminare, con lentezza, con respiro, accogliendo l’oriente, la luce nel vuoto. Ko Un non è astratto: prende la parola e la impegna con un gesto terrestre, così come le riproduzioni nere delle sue pennellate: creature sul foglio: creature cantanti. Lui dice: Le poesie non esistono in antologie materiali. L’universo, lo spazio, l’immensità del tempo sono il loro palcoscenico più consono. E dice: …ma negli anni settanta, dopo la seconda guerra mondiale, dopo Auschwitz, dopo la Guerra di Corea e il conseguente nichilismo (ci chiedemmo con dolore se la poesia potesse avere più un senso), quando un giovane operaio si suicida in segno di protesta contro le disumane condizioni di lavoro. E dice come rispondendo a sé stesso: Io ho semplicemente scritto perché non scrivere sarebbe stato per me una condizione insostenibile. Ma la necessità della scrittura ha consapevolezza dell’impermanenza, del movimento cosmologico dentro cui scompare la soggettività egoica, del ritmo, dell’eco, dell’energia che danza e fluisce nel canto. In questi fogli, la neve profuma non solo di Buddismo Zen – Ko Un nel 1952 decide di entrare in monastero e prende i voti da monaco buddista. Studia meditazione Sŏn e nel decennio successivo viaggia per tutta la Corea vivendo di elemosine…ma la corruzione che dilaga negli ambienti clericali buddisti diventa fonte di grande frustrazione…e sveste l’abito monacale per ritornare alla vita laic –. Ko Un non è poeta astratto, ma ha in mano tutti i fili della tessitura storica della Corea, dai servizi segreti sud coreani che lo arrestano, lo imprigionano varie volte, torturato, condannato all’ergastolo dalla Corte Marziale, militante nel movimento per i diritti umani e in quello dei lavoratori, tra tentativi di suicidio e resistenza civile e lirica. Sempre per una riappacificazione delle due Coree. Più volte nominato candidato per la Corea al Premio Nobel per la Letteratura. Tradotto in tutto il mondo ma …quanto è poco conosciuto qui in Italia.
Nasce nel 1933 e ancora canta grazie alla brava traduttrice e a un editore. Grazie a chi ascolta e ridiffonde il suo canto.
Versi scritti in sogno la notte scorsa
Là in cima all’albero,
guarda l’uccello che vi si è posato.
Là in cima all’albero,
guarda l’uccello che vola via dopo essersi posato.
Dopo che l’uccello è volato via,
guarda il punto in cima rimasto vuoto,
E poi, la vasta vacuità.
Guarda il grigio cielo.
su quali puntelli delle pianure del foglio
si arrampicano le parole
non so
non hanno lanterne
per raggiungere una cima
vuoto è il loro passo e la brace che le spinge
oltre
brucia l’essenza di qualcosa che precede
sono punti
minutissimi punti
polvere del cosmo
caduta sul bianco del foglio.
Non ho letto il libro, me ne sono nutrita: come i semi si nutrono di terra, e in una traduzione continua si fanno l’uno la mutazione dell’altro. Un libro in cui ho raccolto i segni, le luci e il silenzio come quelli che la neve, caduta all’improvviso, riesce a germogliare nella meraviglia.Grazie a tutti quelli che quest’opera hanno reso possibile:dunque terra cielo vento e pioggia, suoni del mondo e oltre questo mondo, i paesi del sogno e il cuore del poeta che li ha raccolti, quello della traduttrice che li ha serbati dentro la sua lingua come un seme e li ha fioriti qui, in un libro da ascoltare. Grazie ad Anna Maria e grazie all’editore, grazie a tutti quelli che aprono la porta e ospitano poesia.ferni
come non aprire la porta per leggere questa poesia
grazie della bellissima presentazione
sì, ridiffondere il canto bisogna, Anna Maria e Ferni, accogliendo intera la neve di Ko Un. per questo, senza spendere qui altre parole, acquisto subito il libro. voglio quest’isola. e la indicherò agli amici. grazie a voi
annamaria