Alberto Frappa- La condanna dei tre capitoli- Segno Editore, 2007
Ambientata in un lontano passato (ma sarà poi vero che è così lontano e passato?Il sesto secolo di allora…un sestante di cambiamenti dell’oggi?) questa storia, ha come capo del filo ( lo stesso di Arianna per sconfiggere il minotauro) il milite Lucio Valerio Cantio, originario di Aquileia. Qui il mostro è l’eresia, non solo religiosa, ma quella di un potere che vuole, come sempre, vantare un unico primato su ogni altro, disponendo delle vite di tutti. E oltre ai problemi che strappano e dividono in conflitti, non solo di pensiero, la Chiesa (e oggi non accade ancora così?) ci sono guerre di tale atrocità come sfondi d’azione, che non mi è stato possibile disgiungerle da quelle contemporanee. La guerra goto-bizantina trasformò l’Italia del sesto secolo in un dissesto globale, ma molti sono i rimandi alle attuali atroci avventure di guerra nei tanti paesi dei nostri capitoli di storia contemporanea. Assedi e spostamenti di truppe, partenze, rinvii, adescamenti, cosa non riporta all’attualità? Sangue, dunque, un vivissimo rosso, è il colore delle campagne, campi di battaglia di armate, che sono sia truppe imperiali, quelle inviate da Giustiniano per scopi di “pacificazione”, sia dell’esercito goto, costretto ad andarsene. E anche qui, personalmente ho viaggiato in molte terre dell’attualità visti gli obiettivi su cui si esercitavano i potenti. L’atrocità della guerra, di tutte le guerre, i saccheggi, la miseria che ne consegue per l’abbandono delle coltivazioni , non sono le uniche tematiche del romanzo. Ci sono, dislocate come su una mappa del territorio del potere, i cardini secondo cui questo potere (non i poteri attenzione) si muove, argina e con-tiene, le sfere di azione di chi lo partecipa, perché in questo gioco chi contende il primato, non l’equilibrio, è l’uno che diventa l’altro, spalleggiandosi e puntellandosi così quel tanto che basta per riprendere la carica e manomettere le precedenti acquisizioni. Il papa, nella sua dimora romana, è uno dei perni su cui le ardite congetture e le macchinazioni infernali si articolano con l’unico fine di raggiungere e costruire un potere tutto “temporale”. Imperversano come burrasche le azioni delle potenti nobili famiglie dipingendo un paesaggio denso di nuvole nere, di trame pericolose, in cui si deve muovere Lucio Valerio Cantio, giovane al seguito dell’esercito imperiale. L’imperatrice Teodora, raggiunta a Costantinopoli già nelle prime pagine del libro, splendida come la sua città, è la rappresentazione stessa della corte. Intenta alla toeletta, nel gesto di raccogliere i capelli con pettini e spilloni, ne costruisce da subito intrecci che sono la disegnata architettura di altre abili manovre che, con la parola e il pensiero, trama a favore della sua dinastia. Ogni descrizione è ponte, struttura che raccoglie altri sofisticati ponteggi, come in una cascata di memorie sempre più profondamente archiviate e praticabili se solo si ha una vista capace di vedere nelle tante zone d’ombra, che il romanzo traccia e raggiunge. Si sente come, in ogni epoca, chi crede di tenere le fila del gioco pensa di avere il destino del mondo tra le mani, mentre in quel destino matura anche il suo tempo e la decadenza di ogni luogo e la propria. Tutto, per quanto sfarzo e meraviglia contenga, ha in sé anche il germe della corruzione e della corruttibilità, del degrado. La terra, la coltivazione dei campi, il susseguirsi regolare e calmo delle stagioni, come fasi di un culto che dimora in sé la relazione come elemento fondante è l’altro cardine di queste pagine, che sono tutte porte aperte su infinite altre panoramiche. Ognuna sembra un granaio e un ingranaggio di ruota, in cui non è il centro ciò che conta, o il dentro di ogni luogo, poichè in ciascuno è inscritto un numero elevatissimo di componenti che ne superano le dimensioni, e il peso sta lì dove l’attenzione smuove, in chi guarda e percorre le trame, la capacità di cogliere la storia come il corpo che non ha mai cessato di prodursi. Davvero un lavoro poderoso, se penso ai tanti documenti a cui deve aver fatto riferimento Frappa, non solo di storia, ma di moda, cucina, “cult” e gossip, diremmo oggi. Così la chiave, come al solito, sta non in una toppa, ma nel non toppare una visione che stringe nell’occhio “l’insieme”, questo il centro, ed è l’autore del mutamento, ripetuto e moltiplicato per ogni elemento ospitato. Ricordare i tantissimi personaggi mi è praticamente impossibile, leggendo avevo iniziato a prenderne nota, poi mi sono lasciata prendere da una smemoratezza che sempre più mi aiutava a comprenderne l’attualissima visione, l’apertura di una finestra su questo nostro oggi. No, non scrive, Alberto Frappa dipinge con l’acutezza di Bosch le delizie e gli inferni di questa nostra terrestrità, in cui alcuni elementi si rincorrono, senza tregua, senza pacificazione, e li si può trattare con la scrittura, facendone pagine di storia, ma non li si può sottrarre ad una mancanza ripetuta in quella mai stabile quiete definita e stipulata nei tanti, troppi trattati di pace. E’ un viaggio, sotterraneo quanto quello nel dedalo dei canali artificiali degli acquedotti romani, il potere, vive di dis-equilibri, tra nascondimenti e svelamenti, fratture e fatture, esorcismi, abominio e mostruosa divorante bellezza in cui si innestano filari di quiete. Le note sulla campagna, la sua relazione con la città, il vedere la terra come luogo di memorie preziose e contaminate, mi ha riportato alla mente scritti di Pasolini, ma anche pagine del mio conterraneo Camon, con cui anche il tema della relazione, affettiva e amorosa, oltre a quello del legame tra colture e culture mi è sembrato intrecciare un dialogo con questo fitto scompaginante percorso di storia…non passata ma …abilmente in-ventata.
fernanda ferraresso-3 novembre 2009
Fernanda, Fernandina:…animula vagula blandula mea,
piccola ape di Dio: ma perchè hai perso tempo per scrivere
cose tanto belle per quell’interminabile feuilleton? Non solo lo hai letto ma ne hai anche scritto?
Sono commosso perchè non me l’aspettavo: è bello e ti deve essere costato fatica. E ora mi vergogno di averti rubato il tempo: la cosa più preziosa che abbiamo.
Mi sono venuti in mente dei versi dal Liceo:
Cui dono lepidum novum libellum
arida modo pumice expolitum?
Tu ne hai fatto dono a me per – credo – una stima che io ricambio e sai inoltre quanto io ami i tuoi versi o anche solo accarezzare quella copertina curata del Ponte del Sale che è, solo a vederla, una consolazione ai miei disgusti da Sperelli o da Des Esseintes di provincia.
Solo un dubbio, potrò ricambiare adeguatamente?
VIVA il Ponte del Sale, viva fernirosso
Alberto
Tu non mi devi niente. Se non avessi voluto leggerlo l’avrei abbandonato in qualche scaffale.Invece ti ringrazio di avermi offerto,tra i vortici del romanzo, dei vertici di storia a cui non avevo assegnato tanta attenzione prima (sono davvero una piccola anima vagante e vagabonda, spesso mi pungo da sola, sono un’ape da non prendere in considerazione) e che qui, tra i tuoi campi di battaglia e gli intrighi di palazzo, svelano meccaniche del desiderio e della paura che sono ancora in auge. Ti abbraccio,ferni
non conoscessi Fernanda, direi che il tempo è la cosa più preziosa… ma conoscendola, so che il modo in cui scegliamo di impiegare il tempo, è per lei (noi) la cosa più preziosa.
complimenti ad entrambi.
n.
grazie a voi
alb.